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Luciano Ricci
Un fiore
senza colori che la notte spegne
Riflessioni sulla mostra fotografica
“Lyceum”
di Firenze,
novembre 2010
foto © Luciano Ricci
“La
mostra presenta quindici fotografie divise in due sequenze rispettivamente di
dieci e di cinque immagini.
Tutte hanno per ambiente la notte. (...) Ogni mia fotografia è un gesto, un atto
d'amore.” (Luciano Ricci)
Quando l’occhio di Luciano Ricci si
avvicina alla realtà, la spoglia. Ma la sua non è violenza, è qualcos’altro. Per
spiegarlo non basta dire che la sua ricerca sul ritratto si ingegna a guardare
al di là della maschera, come quando ci propone uno stupefacente volto etrusco
che ancora esprime piena vita e dignità, sebbene il suo palpito si sia spento
più di cinquemila anni fa.
Non basta
neanche osservare, nei suoi ritratti di donna, la pervicace azione di “velare
per svelare”, con cui riesce a mostrare aspetti inquietanti, seppure umani e
palpitanti, del soggetto. Non basta l’incontro col fiore cinereo che pure si
erige nella sua notturna, corollata presenza, né lo sguardo di lui che si posa
sulla foglia morta, scelta fra mille altre con immensa cura e quasi con lo
smarrimento del bimbo che non sa più quale prendere. Nei rari casi in cui un
volto è più crudo, senza filtri tecnologici, emerge poi uno sguardo di grande
freschezza sulla vecchiaia, che convibra di innocenza e stupore, senza
concedersi alla malinconia. Non c’è saudade nemmeno nel profilo vagamente
leonardesco della montagna indistinta nel crepuscolo, le cui ampie pennellate
fatte di oscurità ricordano la semplificazione
astratta delle forme della pittura haboku.
C’è ovunque solo una impercettibile tensione, in
cui l’obiettivo del fotografo sembra sfidare la luce a spegnersi sotto il suo
sguardo, rubandole gli ultimi esangui bagliori prima che l’immagine scenda
definitivamente nel bianco e nero. E’ una sfida fotonica all’ultimo istante, che
traspare perfino nel ritratto di giovinetta, così moderno nella sua evanescenza,
così sfuggevole e radicale nel suo contenuto simbolico: “Lo sguardo verso il
domani”, che rintraccia e cattura l’inizio della spirale aurea di questo
percorso fotografico radicato in quel volto etrusco, tutt’altro che remoto.
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Nel percorso delle immagini
l’oggi di Luciano Ricci vibra fra ieri e domani come una lastra dimensionale
interposta fra le altre due, come un Locus Solus dove egli si apposta per
raccogliere e consumare l’alchimia della Notte e del Giorno. Forse è lo sguardo
sul presente, quello che più ferisce l’artista, e non perché il presente gli
stia stretto, bensì semplicemente perché la gioia vera gli proviene dal voltar
pagina più che dal leggere, dal movimento, anche scomposto e inatteso e in
qualunque direzione, più che dalla stasi. Eppure non si sottrae alla sua forza.
La sua coerenza è tale da non permettere un vuoto interdimensionale. Anche se è
lì, nel nucleo centrale delle tre dimensioni parallele, che l’Amore che questo
artigiano riversa nel rivelarci la fenomenologia dell’anima di ogni cosa, fatica
a respirare. Ma respira. E noi con lui. Talvolta trattenendo il fiato, talaltra
lasciando che sia il nostro stesso respiro a tentare di condurci là, nello
spaziotempo in cui l’artista si trovava al momento dello scatto.
La notte
è per Ricci l’alambicco di una dimensione latente della vita, che ridiventa
giorno solo quando si giunga a comprenderne l’intima luce. Così ci è dato di
sollevare il velo. Di vedere, forse solo nella profondità fulminea
dell’inconscio, un frammento dell’Anima Mundi, che altrimenti non avrebbe mai
potuto imprimersi nella sfera della nostra ragione. Ricci infatti non ci mostra
“cosa dobbiamo vedere”, né ci insegna “come guardare la realtà”, bensì ci indica
“come sentire” attraverso lo sguardo. Muovendo la mente a partire dal Campo del
Cuore.
° ° °
Dunque,
quando l’occhio di Luciano Ricci si avvicina alla realtà, la spoglia. Ma la sua
non è violenza, è qualcos’altro. La realtà da Ricci si lascia ritrarre, perché
sa che non è quella l’intenzione. Ogni oggetto, volto, bosco, albero, foglia e
collina si lascia osservare perché non è il ritrarre, che interessa Ricci. Non è
nemmeno il dar forma attraverso lo sguardo. Ricci intuisce che l’occhio
dell’osservatore modifica ciò che osserva. A questa modifica, a
questa sua lettura abile e sincera, a questo incontro spesso fortuito, la realtà
di Ricci si abbandona. E lo fa a tal punto da fermare il tempo.
Ricci è
onesto con la realtà, poiché non le proietta addosso aspettative. Quindi non può
mai sentirsene tradito. Non pretende di trovare in ogni immagine “la verità”,
servendola su un piatto d’argento. Ricci consuma l’incontro con ogni sua
immagine in totale solitudine, restituendoci solo le briciole. Ovviamente non ci
è dato assistere all’impatto creativo originario. Per questo si prova un leggero
smarrimento davanti ai suoi scatti: Dov’è andata, ci si chiede, l’energia spesa
nell’atto di Conoscenza e di Ascolto, durante l’incontro fra l’occhio che
osserva, ma senza vedere, e la materia notturna che si lascia osservare, ma
senza essere ritratta? Da dove proviene quel lampo di saggezza, e dove è tornato
dopo lo scatto? Che ne resta a noi, osservatori dell’osservato, se non la
sensazione che “ritrarre” sia impossibile? E che la via della Conoscenza è
stretta e solitaria?
Ricci
dunque non intende indurci a vedere, bensì vuole innescare una rivelazione,
attraverso un’emozione. Gioca con le epoche e col tempo, mere strutture
concettuali davanti al suo obiettivo, mentre lo scambio vero avviene fra lo
spazio esteriore captato e il suo spazio interiore captante. Per questo non teme
l’ombra, né la maschera, nemmeno quella illusoria della Morte.
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