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L’ossessione nordica
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Edvard Munch, La vanità, 1899. |
Giorgio De Chirico, Lotta dei centauri, 1909. |
L’Impressionismo aveva già generato negli artisti italiani la suggestione transalpina, che dalla Francia si sarebbe rivolta sempre più a nord in una sorta di ossessione.
L’esposizione rodigina si apre con la simbologia dei Centauri, tritoni e sirene.
Le prime edizioni delle Biennale di Venezia sono un inno allo svizzero Arnold Böcklin, la cui visione poetica ammalia la nostra arte, forse la ragione per cui quest’artista sceglie l’Italia come sua ultima dimora; è qui presente con “Rovina sul mare” del 1880
In apertura espositiva, tra gli altri, Franz von Stuck con “Scherzo” del 1909, opera questa il cui grado erotico ricorre al simbolismo mitologico, il non ancora donatosi alla metafisica Giorgio De Chirico con “Lotta di centauri” del 1909, gli italiani Mario de Maria con “La luna ritorna in seno alla madre terra” del 1903 e Teodoro Wolf Ferrari con “Studio per bufera” del 1908, tutti nel risentire dell’atmosfera preminentemente dai toni scuri.
Uno scurismo partorito dall’inconscio dei protagonisti che si sarebbe presto rivelato premonitore dell’immane disastro bellico che già incombeva.
La sezione successiva è una veduta panoramica dell’arte pittorica a cavallo dei due secoli, implicandovi la nascente psicanalisi, Dal simbolo alla natura.
Ed è ancora dalla Svizzera che emerge l’innovazione grazie all’estro di Ferdinand Hodler, presente con la straordinaria tela “Ora sacra” del 1910.
Un tecnicismo il suo che, con la decisione dei segni, l’accesa nettezza cromatica (blu), e quindi con la mancanza di sfumature evidenziata da contorni ancora legati allo scurismo, riesce a coinvolgere gli artisti del momento coniugandovi paesaggismo con simbolismo;
In esposizione Alfons Siber con la seducente immagine “Risveglio di primavera” del 1905, Max Klinger con “Tre donne nel vigneto” del 1912, Franz von Stuck con “Corteo di primavera” del 1910 a confermare la tendenza all’allontanamento dal simbolismo mitologico con accostamento verso l’onirico e lo psicologico, Leo Putz con la sensualità in “Vanitas” del 1896.
Tra gli italiani, Cesare Laurenti con “Foglie cadenti” del 1892 dove il superamento del simbolismo avviene imprimendo all’opera poesia e sogno aulenti di romanticismo.
La Biennale veneziana di primo secolo XX, tormentata da una sorta di “nordismo”, importa gigantografie che riproducono momenti della vita di marinai, pescatori e gente dei mari del nord.
Venezia, così, fa da porta d’accesso a queste opere per gallerie e collezioni che vanno a comporsi lungo la penisola in quest’ultimo scorcio del millennio.
È il settore Gente del nord in cui sono esposti Hans von Bartels con “Il commiato del pescatore” ante 1900, dove il tono narrativo è impresso da una sorta di lirismo emotivo e gestuale delle figure, Michael Peter Ancher con “Il pescatore di Skagen” del 1892, poderoso come tutte le sue opere, Francis Henry Newberry con “Sotto la luna” del 1897 che ci racconta allegoricamente di giovinette in girotondo di fronte a uno specchio di mare rilucente di luna, ad attendere che esso, il mare, faccia approdare alfine l’uomo del loro destino, Anders Zorn con “La fiera di Mora” del 1892 la cui immagine non può non farci andare a un fotogramma felliniano del film “La strada” (1954) rivedendo la malinconica Gelsomina che, nonostante tutto, affianca fedelmente l’infelice Zampanò.
Tra gli italiani, Ettore Tito con “Pagine d’amore” del 1907, il quale, votatosi alla tendenza nordeuropea, si esprime costruendo immagini di luce e di calore con guizzi di pennellate.
Siamo nella sezione definita La poesia del silenzio, dove gli autori nordici si cimentano a immortalare nelle tele gli spazi interni ovvero domestici.
Azzardando la determinazione di intimismo minimalista si rischia di non trasmettere all’osservatore quello spirito di coscienza famigliare che pervade l’artista in paesi dalle difficili condizioni climatiche.
Meglio allora richiamarci a un intimismo microcosmico quale sorgente della poetica che alita nei silenzi degli ambienti.
Ecco Richard Edward Miller con “Vecchia olandese” del 1905, figura seduta compostamente come in preghiera, al centro di una stanza minuziosamente descritta nell’arredamento e nell’oggettistica, lei stessa in abito e cuffia quale punto focale della disciplina che la attornia, ecco Carl Larsson con “Martina” del 1904, il ritratto della domestica perfettamente in uniforme, recante un vassoio riccamente imbandito, in primo piano all’interno della cucina padronale meticolosamente tratteggiata, in un tutto che irradia sensazione favolistica.
Ecco però Vilhelm Hammershøi con “Interno con donna seduta” del 1908, che fa da logo all’esposizione, dove la luce, che s’irradia dalla fonte posta in estremo piano, dopo aver attraversato una stanza vuota, raggiunge appena, o forse per nulla, la donna seduta in un locale scarno e che mostra le spalle all’osservatore.
Un’opera che si pone immediatamente in opposizione alle prime due e che più meriterebbe l’apposizione minimalistica se non fosse che essa già anticipa sorprendentemente, meglio di altre, l’angoscia che da lì a qualche anno sarebbe stata la sola compagnia delle mogli e delle madri rimaste a casa, in solitaria attesa degli uomini dalla guerra.
La conferma di un mondo psicanalitico che incombe animato dalle rivelazioni di Freud.
Avanti ad esaminare la sezione Il paesaggio dell’anima, occorre però che si faccia una distinzione tra Pittura di paesaggio e Paesaggio nella pittura.
Prendiamo ad esempio la Fotografia di paesaggio o Fotografia panoramica che dir si voglia.
Questa è l’omologa della Pittura di paesaggio e la diversità è che la prima, tecnologica, è vista attraverso un obiettivo e impressa automaticamente sulla lastra mentre la seconda è scrutata direttamente dall’occhio umano e impressa a mano dall’artista su tela o altro supporto.
È evidente che nel secondo caso, l’immagine ritratta tiene conto della capacità riproduttiva del pittore.
C’è da aggiungere per un inciso accademico che mentre la parola fa ragionare, l’immagine, in generale, cristallizza la memoria, pertanto tutte e due sono indissociabili; intendiamo qui opera artistica e critica.
Inseparabili, è vero, ma posti in risonanza armoniosa.
Tornando al Paesaggismo, esempio emblematico della Pittura di paesaggio è nelle tele del Canaletto, questa addirittura volte a vaticinare la Fotografia di paesaggio poiché elaborate col sistema della camera ottica.
Klimt, invece, utilizzava un foglio di cartone attraverso il quale da una finestrella ritagliata osservava e ricopiava i paesaggi visibilmente contenuti.
L’Ottocento è il secolo del Romanticismo, del Verismo della scuola francese di Barbizon, preludio all’Impressionismo, e tutto questo pone infine intralcio alla secolare tradizione della Pittura di paesaggio, le cui ultime grandi interpretazioni appaiono in Pietro Fragiacomo con una vaporosa “Piazza S. Marco” del 1899 e nel citato Gustav Klimt con “Stagno al mattino” del 1899.
Analizziamo ora, invece, che cosa accade nell’iconografia pittorica di artisti che scelgano il Paesaggio nella pittura.
Un paesaggio concepito per la pittura ed è qui che si evidenziano l’ispirazione e l’estro dell’autore oltre alla sua abilità tecnica.
Tale tecnicismo pittorico d’inizio secolo legato al paesaggio è il prodotto di un conflitto in seno all’artista, in concordanza con quel nuovo cosmo psicanalitico che va ad aprirsi.
Lo scontro, insomma, tra le sue due anime, che continua tutt’ora, l’una legata alla conservazione nel senso migliore del microcosmo tradizionale che lo circonda, l’altra, invece, espressione intrinseca dell’autore che vi omologa la mutabilità del mondo a pari passo con le sue creature, sia nel bene sia nel male.
Insomma, il Paesaggio nella pittura è definibile quale tropologia, in altre parole, un percorso metaforico atto a comunicare e a incantare, se non a ravvedere, il fruitore.
L’Impressionismo, sorto alla fine dell’Ottocento sente la pittura non più come raffigurazione speculare della natura, pertanto, la rappresentazione è volutamente distinta dalla realtà ed essa apre la strada al Paesaggio nella pittura, nel secolo e nel nuovo millennio con moderni e multiformi espressionismi (Informale, Surrealismo, Metafisico…).
Ed ecco che appaiono in avanscoperta Oskar Zwintscher con “Paesaggio primaverile” del 1895, Cuno Amiet con “Paesaggio estivo” del 1907, a seguire gli italiani Tullio Garbari con “Paesaggio animato” del 1916 e Gino Rossi con “San Francesco del Deserto” del 1913-14.
Un mondo dove la psicanalisi ne è la parafrasi e dove la lettura da interpretare scorre finanche sui volti e sugli sguardi.
I ritratti assumono così la rivelazione di un inconscio che neppure le maschere riescono a celare, anzi, ne sono uno strumento essenziale.
In questa sezione La maschere e i volti, Fernand Khnopff con “La maschera bianca” del 1907 traccia nel volto della donna ritratta una peculiarità del mostrarsi e non, rendendo l’ambiguità quale portante di un’affascinante studio psico-analitico, Leo Putz, d’altro canto, con “Signora in blu” del 1908 disegna nella postura e nella gestualità della donna carattere e destino, tracciandone età e passato nel volto.
Il nuovo secolo non riesce ancora a debellare del tutto il significato imposto dalla persistente “morale di potere” nei confronti del nudo femminile, accentuato tra romanticismo e verismo in cui è reso veicolo della seduzione, toccando finanche un’allegoria peccaminosa e perversa, vanificando l’innocenza delle ricopiature artistiche e didattiche delle modelle in seno alle accademie e alle botteghe.
Nella sezione Venere senza pelliccia, un titolo già per se stesso tropologico, Franz von Stuck ne è un chiaro esempio con “Il peccato” del 1908, la cui immagine di donna aggrega tutto ciò che la morale imputa al nudo di femmina, non tralasciando il più antico esemplare malefico del simbolismo, il serpente.
Tracce simbolistiche che si potrebbe credere di ritrovare in Oskar Zwintscher, che con “Oro e madreperla” del 1909 riveste un nudo semplicemente di bracciale e collana, ma che invece è dappresso all’art déco.
Tra gli italiani, Cesare Laurenti con “Visione antica” del 1901 presenta libere e belle danzatrici en plein air; opera che insinua nel visitatore il dubbio che, più che ossessione nordica, l’autore sia stato preda di un assillo manieristico di casa nostra.
L’ultima, Virtuosismi in bianco e nero, è la sezione delle incisioni, la tecnica che, è vero, permette di raccontare il buio non sostanzialmente della notte ma, meglio, di connotare con forza ogni immagine del mistero e dell’orrore.
Franz von Stuck con “Satiri e ninfe” del 1913 rimette in gioco l’eterno conflitto dei diversi, incitati dalla loro inconscia maledizione del ricercarsi, odiarsi e amarsi furiosamente, intramontabile destino di belle e bestie.
Edvard Munch con “La vanità” del 1899 crede di poter addolcire le urla che le sue tele avevano iniziato a emettere già da oltre un lustro (1893). La giovane qui incisa, che si congiunge le mani ponendole sul capo, donde discende una folta e lunga chioma, infatti, appare come in un’implicita posa da dopo-urlo: un mistero che si somma al mistero del perché di quell’urlo primigenio.
Ecco infine l’italiano Luigi Bonazza, ossessionato dagli ideali artistici viennesi, con “Jovis Amores” (Amori di Giove) una serie di acqueforti su acciaio elaborate tra il 1906 e il 1912.
17 maggio 2014
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