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Marc Chagall
anche la mia Russia mi amerà
Palazzo Roverella -Rovigo

Per l’artista
russo di estrazione ebraica Moishe Segal, nativo di Lezna presso Vitebsk in
Bielorussia e qui registrato Mark Zacharovic Sagal, riadattato Marc Chagall in
Francia quale naturalizzato, indossare l’attributo di “ebreo errante” parrebbe
calzare alla perfezione, se non fosse stato di ben altra ragione quel suo essere
ramingo rispetto al mito tradizionale.
Nel giorno della sua
venuta al mondo, il villaggio fu travolto dalle truppe cosacche e la sinagoga
distrutta; l’episodio del pogrom antisemita non si sarebbe più abraso nel suo
inconscio artistico - io sono nato morto - ma parimenti non avrebbe più
dimenticato un felice inciso della sua infanzia.
Nel 1910 opera a
S. Pietroburgo grazie a una borsa di studio e, già noto, si trasferisce a
Parigi, per accedere nella comunità di Montparnasse; la partenza avviene anche
per sfuggire alle imposizioni del ghetto in cui vive. Da qui e per sempre,
malgrado l’influsso dei grandi artisti contemporanei e delle loro correnti, non
gli riesce di trascurare nelle sue iconografie e scritti la propria natura
yiddish di una coloristica europeità centro-orientale.
Nel ritornare a
Vitebsk il 1914, soggiorna a Berlino per la sua storica personale, l’esposizione
riscuote un grande plauso. A casa è colto dalla Grande Guerra ed è costretto a
rimanerci sino al ’24; il periodo in cui gli vengono assegnate dure critiche dai
burocrati poiché, invece di trattare figure rivoluzionarie, impressiona sulle
tele mucche e cavalli anche volanti.
Posto in disparte,
Chagall decide di abbandonare la Russia per rientrare a Parigi con un solo
pensiero “…anche la mia Russia mi amerà.”, dopo una sosta a Berlino, dove
è colto dalla disperazione per le sue tele distrutte sotto gli eventi bellici.
La serenità parigina, però, gli viene sconvolta dal nazismo e il Nostro si
rifugia con la famiglia a Marsiglia, ben nascosti finché non raggiungano la
Spagna, il Portogallo, Messico e infine gli Stati Uniti, dove attracca giusto il
giorno dell’invasione nazifascista in patria; dappertutto lascia l’impronta
artistico del suo inconfondibile estro.
Al termine del
conflitto ritorna in Francia, parte per Israele e l’Italia; qui Palazzo Pitti
gli organizza nel 1979 una rassegna di grande richiamo.
Rivede la Russia ed
è accolto con grandi onori come aveva profetizzato e, infine, al rientro in
Francia, a 97 anni si spegne a Saint Paul de Vence, nella Provenza incastonata
tra le Alpi e la Costa Azzurra.
L’icona dell’ebreo
errante, dunque, prigioniera dell’ inconscio artistico, appare sovente nella sua
iconografia.
Nel 1915, infatti,
se ne avvia la sequenza con “L’ebreo in rosso”, a ricordo di un vecchio ebreo
che aveva visto transitare innanzi alla sua casa.
Nel “Matrimonio” del
1918, un solitario violinista è appollaiato su di un ramo d’albero appartato e
sovrastante una casa dalla cui finestra appare una immagine domestica; le teste
di due amanti in effusione amorosa sono toccate come in un abbraccio da un
giovanissimo, mistico personaggio alato, nel significato di protezione; potrebbe
essere l’omaggio alla sua Bella Rosenfeld conosciuta nel 1909 e che sarebbe
divenuta sua moglie, venuta poi a mancare nel 1944.
Il violino lo
ripropone in “La musica” del 1920 ma già era apparso nel “Violinista verde” del
1917. Tale strumento musicale è tra i simboli dell’ebreo errante, melodia
struggente e agevole al trasporto.
Un suo “Bozzetto di
scenografia” del ’19 per Mazel Tav di Sholem posiziona l’ebreo errante, col suo
solito carico sulla spalla, non immediatamente visibile, in un angolo della
cucina, nella quale appare un quadretto che raffigura una capra capovolta;
certamente un segnale metaforico ai burocrati, ai quali imputa il capovolgimento
della rivoluzione.
Capre, galli,
galline, mucche e asini appaiono frequentemente nelle elaborazioni, quali indici
dell’economia della sua gente; il capolavoro emerge da “Il gallo” del 1920, in
cui l’umano incede a cavalcioni di un gigantesco gallo variopinto,
attorniandogli amorevolmente il collo con le braccia, quale dimostrazione di un
bene supremo.
Nel “Al di sopra di
Vitebsk” del 1920, è ostentato l’ebreo errante, con sacco e bordone, svolazzante
sui tetti e strade innevate; il destino di una saga che incombe sulla
collettività. Un dipinto da assimilare al successivo “Uomo-gallo sopra Vitebsk”
del 1925; qui vi è la sintesi dell’ebreo, con il proprio bagaglio e che regge un
lume acceso, ancora svolazzante sulle case e strade innevate. Un’immagine
onirica, questa del volo umano, che al primo aggiungerebbe il significato
dell’aspirazione di riscatto sociale.
Negli “Amanti legati
al palo” del 1951, un’opera allegorica dalle molteplici interpretazioni, l’ebreo
errante appare in una scenografia allusiva: un barcone carico verosimilmente di
ebrei che si allontanano dalle avversità europee, descritte con il
capovolgimento dell’agglomerato urbano, quasi un sisma, verosimilmente per
riprendersi la libertà nell’antica madrepatria.
Ѐ Il periodo
dell’episodio dell’Exodus 1947, la nave che avrebbe dovuto condurre in Palestina
4500 profughi ebrei, salpata da La Spezia, ma abbordata da navi inglesi e
riportata in Europa, ad accompagnare il destino di altri legni. La speranza di
una rappacificazione futura è data dal tempo di un pendolo e dal patrimonio di
animali da cortile, entrambi nella simbologia della famiglia ebrea.
L’importanza
emblematica del pendolo nell’animo degli ebrei, lo strumento che segna il tempo
infinito della loro storia, è artisticamente concretizzata da alcune tele quali
“L’orologio” del 1914, “Il tempo non ha rive” del ’30-39, “La pendola dall’ala
blu” del ’49 e “Inno al Quai de l’Horloge” del ‘68.
Nel ‘47, l’anno
dell’Exodus, l’osservatore si stupisce al cospetto del suo “Autoritratto con
pendolo”; qui lo strumento del tempo, con braccia umane, ondeggia su un Cristo
morente, o forse già morto, dolcemente cinto da una donna, verosimilmente Maria
di Magda, e quale immagine esplosiva al centro appare l’autore tinto di verde
che regge tavolozza e pennelli, in simbiosi con una testa di asino colorata
rossa.
Occorre dire che i
vivaci toni adottati da Chagall non rinnegano affatto il suo antico stadio naif.
Rappresentativa
assoluta, poi, l’inquadratura del “Cristo e il pendolo” del 1956. Il Crocefisso
è affiancato da un pendolo a Sua misura, donde si protende un braccio umano che
regge un cero acceso, la fiammella della speranza che mai si spegne; in calce al
dipinto appare una madre con prole in atteggiamento che pare di rassegnazione.
L’amore non manca
nella sua scenografia ma è con “La passeggiata” del 1917, scelta quale logo
della mostra, che dona ai fruitori quel senso di leggerezza dello spirito e la
certezza che, malgrado gli uomini guerrieri e attori di tumulti sociali, quel
sentimento naturale e divino s’invola sempre invitto.
Tra i suoi lavori,
infine, si contano delle icone: qui è esposta “Madonna col Bambino” del 1911,
rappresentazione questa - in gouache (pittura ad acqua detta Guazzo in italiano)
su carta - che ci indica la metamorfosi di linguaggio che il Nostro ha voluto
imprimere a tali espressioni devozionali; si contano ancora delle sculture e
qui sono esposti lavori in gesso su armatura di metallo del 1952 e prove di
bronzo del ’59, tutti dal titolo “La bestia fantastica o l’asino o Cavallo”.
Un artista eclettico
nel figurativismo, quindi, dove ha impresso per i posteri fruitori, il dolore,
le vicissitudini e gli amori, suoi e della sua gente.
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