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Intervista a Emerico Giachery
La poesia e lo spirito
Giovanni Agnoloni
Emerico Giachery, scrittore e professore
universitario, è autore di numerosi saggi critici che si caratterizzano per un
approccio ai testi letterari non strettamente ‘accademico’. Gli anni trascorsi
insegnando Letteratura italiana moderna e contemporanea presso l’Università di
Roma-Tor Vergata e in varie città europee, tra le quali Ginevra, lo hanno visto
approfondire un rapporto vivo con le opere, incentrato su valori strettamente
poetici e attinenti all’anima dell’uomo.
Ecco perché i suoi libri, tra cui ricordiamo
Verga e D’Annunzio. Ritorno a Itaca
(Studium, 1992), L’avventura del sogno
(Stango, 2002), Gioia
dell’interpretare. Motivi, Stile, Simboli (Carocci, 2006), e in
particolare i due più recenti, Abitare poeticamente la terra
(Lumières
Internationales, 2007) e Voci del
tempo ritrovato (Edilazio, 2010), dimostrano come si possa legittimamente e con frutto
‘contaminare’ la riflessione più strettamente ‘tecnica’ sulle opere dei grandi
autori del passato con considerazioni attinenti alle emozioni suscitate dai
luoghi e dalle esperienze da esse evocati. E, aggiungo, con ricordi personali,
legati al percorso di vita del critico letterario e al contenuto affettivo dei
vari angoli di mondo, vicino e lontano, in cui si è trovato a vivere, anche per
poco tempo. Perché la lettura dei testi è un dialogo tra il lettore (e
interprete) e l’autore, e allora non c’è niente di strano se si intesse in una
trama unitaria con la vita di quest’ultimo.
Ecco il senso del titolo Abitare poeticamente la terra, ispirato alle parole
di Hölderlin (“poeticamente abita l’uomo su questa terra”), che richiama,
attraverso una sequenza di capitoli dai temi evocativi (“In cammino verso un
senso sperato”, “Sonata onirica in quattro tempi”, “Barlumi e radure”, e altri
ancora), la risonanza intima, energetica e archetipica, delle vibrazioni emotive
dei luoghi per come riflessa e restituita dai testi di grandi autori, da
Hölderlin a Rilke, da Pascoli a Croce, da Verga a D’Annunzio, solo per citarne
alcuni). Il termine di riferimento psicologico-emotivo è la psicologia del
profondo di Carl Gustav Jung (poi ulteriormente elaborata da James Hillman), con
la riflessione sugli elementi costitutivi dell’inconscio collettivo, che per sua
natura abbraccia persone e luoghi in un holos (“tutto”) nel quale ognuno di noi
può riconoscere il proprio percorso di vita. Tutti questi sono presupposti
fondamentali della riflessione di Giachery in
Abitare poeticamente la terra.
Ma anche Voci del
tempo ritrovato – titolo che invece si rifà a Proust – è un
libro che, partendo stavolta dalla vita dell’autore, tocca una molteplicità di
opere e tematiche attinenti alla poesia, alla bellezza e all’intimo del cuore
umano. Vi si racconta la Roma degli anni del fascismo, quella della guerra, e
poi la provincia laziale amata e capace di ispirare, e ancora la radio, le
canzoni, che in un fine ‘ping pong’ ideale con i testi dei grandi (come il
prediletto Ungaretti) disegnano un percorso che rivela il proprio senso man mano
che il filo della vita si srotola. E ancora, impressioni di Bretagna e di
Svizzera, in luoghi bagnati da mari e da laghi, e di Firenze, vissuta come
un’immagine ideale che sogna di farsi reale, e che lo scrittore-viaggiatore
avrebbe voluto poter conoscere più nel profondo. Bello anche, in queste opere,
il senso di collaborazione e solidarietà umana con altri autori e amici, oltre
che con la moglie, la signora Noemi Paolini, con cui ha scritto a quattro mani
Ungaretti “verticale”
(Bulzoni, 2000). Conclude l’opera un breve ma suggestivo album fotografico di
ricordi, con scampoli di lettere, tra gli altri, di Eugenio Montale e Mario
Luzi.
L'intervista
Da Abitare poeticamente la terra emerge la
profondità della sua vocazione di interprete di testi. Può la saggistica
letteraria essere di nutrimento e preparazione per la sensibilità di un
narratore o di un poeta?
La saggistica letteraria offre un ampio spazio di libertà che
consente fecondi sconfinamenti in contrade, più o meno contigue, della
vastissima area “umanistica”: dalla filosofia alla psicologia del profondo,
dalla linguistica all’antropologia, dalla storia politica e sociale a quella
della cultura, dell’arte, della musica; tanto più ampio e ricco il “bacino di
raccolta”, tanto meglio sarà. Affascinante emula di Proteo, deve comunque
proteggersi dall’eclettismo, e concentrarsi su una linea interpretativa
prioritaria anche se non egemonica. Sua privilegiata musa è la “sintonia” con
l’“oggetto”. Il quale è, se così si può dire, un’entità-persona. Un celebre
musicologo russo, cognato e amico di Alexandr Skrjabin, Boris de Schlœzer,
sosteneva che “il rapporto tra interprete e opera è un rapporto tra soggetto e
soggetto, non tra soggetto e oggetto”. S’intravede in ciò una prospettiva di
“umanesimo ermeneutico”, attraverso l’incontro dialogico dell’interpretazione.
Il saggista letterario è in ogni caso scrittore
optimo iure: “un écrivain écrivant sur des écrivains”, lo
definisce Georges Poulet. Scrittore che a volte racconta “le avventure della
propria anima alle prese con i capolavori”, come vorrebbe – questa volta –
Anatole France. Ma evitando la tentazione di prendere il posto dell’autore
esaminato e diventare l’artifex additus
artifici disdegnato da Croce, il quale considerava invece il critico
un philosophus additus artifici
(formula sulla quale troverei da ridire). È comunque un fatto che critica
letteraria e letteratura cosiddetta “creativa” sono sorelle; e senza gusto e
orecchio non è il caso di dedicarsi a interpretare testi letterari. Esiste
dunque una sostanziale, fraterna affinità con l’argomento, che non è richiesta,
per esempio, all’entomologo o al botanico. Certo, anche le cosiddette
“discipline umanistiche” debbono essere, nel loro ambito, “rigorose”, come la
filosofia secondo Husserl: ossia ben fondate e argomentate. Ma evitare Scilla
non vuol dire incappare in Cariddi. Non si può parlare di letteratura come se si
parlasse di chimica o di ingegneria. Di schemi e di grafici si è fatto sin
troppo uso in anni non lontani nelle pagine degli interpreti letterari, ed è
strano che il problema dello stile critico sia stato posto da così pochi
studiosi, almeno in Italia: tra questi spicca Mario Fubini, maestro da non
dimenticare. Alla prima domanda posta da Agnoloni la risposta è dunque positiva.
Per Debenedetti, per esempio, si è potuto parlare di “romanzo critico” senza che
la definizione, motivata dalla fluidità creativa della sua scrittura, limiti in
alcun modo il riconosciuto valore del critico, soprattutto nelle pagine sul
romanzo del Novecento. Mettiamoci ora dalla parte dello scrittore “creativo”.
Baudelaire sosteneva che il poeta moderno è “doublé d’un critique”. A Montale,
primo scopritore in Italia della grandezza di Svevo, a Ungaretti (pur nei suoi
modi personalissimi), a Zanzotto, a Bertolucci, a Pasolini dobbiamo pagine
interpretative esemplari, e inoltre diversi poeti (non soltanto in Italia) sono
stati anche professori di letteratura, da Carducci a Pascoli, da Luzi a
Bigongiari. Tra i narratori con acuto talento critico, basterebbe ricordare
Bontempelli, Moravia, Brancati, per non dire di Proust.
Quanto è importante, nella critica letteraria e
nell’insegnamento delle Lettere, incentrarsi sulle emozioni dell’uomo, sulla
profondità e la varietà dei suoi stati/archetipi psicologici?
Umanista irriducibile, non posso che rispondere con un fervido sì
alla seconda domanda. Da studente mal sopportavo il “filologismo” di alcuni
filologi specialmente classici, che mi appariva disumanizzante, estraneo alle
ragioni profonde dell’humanitas.
In quei primi anni Cinquanta ancora non imperversava l’asepsi di certo
strutturalismo (non parlo di quello del grande Roman Jakobson), altrimenti avrei
reagito con veemenza anche maggiore. Contestavo comunque una filologia fine a se
stessa, non però l’animus
filologico che sempre mi guida e che è un fondamento irrinunciabile. Mi è caro
proporre e praticare una “filologia interpretativa”, al polo opposto
dell’arbitrario, e a volte del farneticante, di quella che è stata definita,
misreading, “mislettura”. Quanto
alla psicologia profonda, non ne faccio uno strumento esclusivo e centrale, pur
apprezzando molto alcuni testi psicocritici di Elio Gioanola, per esempio su
Gadda e Leopardi. Me ne servo con discrezione e cautela, soprattutto per un
accertamento tematico, che mettendo in contatto con archetipi profondi attinge a
scaturigini vitali. L’autentico approccio tematico deve alimentarsi, appunto, di
quel contatto suscitatore di emozioni feconde. Riflettere, poniamo, sul motivo
dell’abisso in Baudelaire o del nido in Pascoli ha veramente rilevanza
interpretativa. Ricerche, invece, che pure sono state fatte, sul parlamento o
sulla solfatara nella letteratura italiana sono totalmente estrinseche rispetto
al fatto letterario, e tutt’al più possono fornire qualche contributo erudito
allo storico o al sociologo.
La letteratura può dunque essere un tramite di valori
spirituali, e avere perfino un effetto terapeutico per l’anima? Può aiutarci a
trovare il nostro Sé (o Io profondo)?
Josif Brodskij, nel discorso ufficiale per il Premio Nobel,
sostenne che se certi dittatori, forse persino Hitler, avessero amato e
frequentato di più la letteratura, i loro orizzonti mentali sarebbero stati più
vasti e più disponibili alla feconda molteplicità della vita e delle idee.
Sarebbero, insomma, divenuti più tolleranti e aperti, più problematici (timeo
hominem unius libri!). Sarà vero, almeno in parte. Tutto sommato,
“entrare in un’opera è cambiare universo”– secondo l’amico Jean Rousset, uno dei
maestri dell’ “école de Genève” – e perciò è anche arricchire la propria
esperienza conoscitiva e affettiva; è un po’ come vivere più vite. Ma siamo
ancora soltanto in margine rispetto all’istanza centrale della seconda domanda:
la letteratura può essere tramite di valori spirituali, può rappresentare, come
diceva l’Antico, “una medicina per l’anima”? “Spirituale” è un aggettivo molto
impegnativo, polisemico. Inviso, ovviamente, alla quasi egemone cultura
materialista, ma a volte anche a zelanti seguaci di dottrine confessionali,
intolleranti verso ogni esperienza religiosa non adattabile
in toto al loro letto di Procuste,
e perciò considerata ambigua o artefatta. Chi fa uso, senza incongrue timidezze,
di un attributo come “spirituale” si colloca in un ambito, al quale mi è caro
appartenere, che non esclude l’esistenza di una dimensione dello Spirito, o
addirittura accoglie, nel pensiero e nella prassi, questa ipotesi come del tutto
attendibile. Il compianto amico Rosario Assunto, vigoroso e appassionato
pensatore, degno di maggior considerazione nella cultura italiana del secondo
Novecento, affermava: “sempre altro dice la poesia ad ascoltarla e leggerla,
proprio perché eccede rispetto alla comunicazione, e per questo acquista quel
senso che ci solleva al di sopra della nostra umana caducità”. Assunto
ricorreva, per definire questa esperienza, a un termine caro a Hegel:
Aufhebung, “innalzamento” e
Borgese attribuiva a certi capolavori letterari come
I fratelli Karamazov la dignità di
“libri sacri”. Da ciò, forse, la possibile virtù terapeutica di opere veramente
ispirate nei confronti della squallida banalità, alimentata non poco dalla
televisione commerciale. Sarebbe magnifico se i ragazzi che per vuoto interiore
e noia gettano pietre dai ponti sulle auto che passano, o bruciano i barboni, o
si picchiano allo stadio, o si stordiscono nello “sballo” del sabato sera,
potessero essere raggiunti e educati dalla cultura, e arrivassero ad
appassionarsi per una grande pagina di letteratura o di poesia, o per la grande
musica, che un’amica definì felicemente “musica per l’anima” (esemplari in tal
senso I vespri della Beata Vergine
di Monteverdi). So bene che è un’utopia. Ma in questa utopia è contenuta
una risposta alla terza domanda.
In Voci del tempo ritrovato si avverte il ruolo
pervasivo dei luoghi, nella sua vita e nella vita di ogni scrittore. Dov’è che,
secondo lei, si finisce di ‘aggirarsi’ per la terra, e si inizia invece un
percorso consapevole, arricchito di risonanze ed echi, in una fertile e continua
osmosi con le reminiscenze e le impressioni letterarie? Che cosa ‘scatta’, a
quel punto?
Posso palare soprattutto della mia specifica esperienza, legata a
un destino personale e in parte generazionale, ma che non può non implicare
aspetti universalmente umani. Una lettrice intelligente mi disse di avere
individuato una chiave interpretativa per il mio cammino in una notazione
scritta a Vienna nel lontanissimo 1957 e inclusa in un libro recente. Eccola.
“Compiuta la giornata, prima di andarcene tutti a letto, mio padre metteva il
chiavistello alla porta di casa. Ai miei occhi fanciulli quel semplice atto,
ripetuto ogni sera, assumeva solennità e quasi sacralità di rito inteso a
proteggere la sicurezza e l’intimità della casa separandola dal resto del mondo.
Spente, poi, le luci, mentre mi abbandonavo a poco a poco al sonno che
m’invadeva, mi crogiolavo in fantasticherie come questa: che la nostra casa
navigasse in silenzio, al pari di un’arca, durante l’intera notte, e al mattino
ci si risvegliasse in qualche paese sconosciuto e lontano”. Appena possibile,
cioè alla fine della seconda guerra mondiale, l’ansia struggente di lontananze
coincise con l’esigenza, da me condivisa, di innumerevoli giovani europei di
incontrarsi di là dalle frontiere dei rispettivi paesi, tra le rovine di
un’Europa da ricostruire, che era anche una sognata Europa dello Spirito
(l’Europa di Thomas Mann) e un’Europa dell’anima e per l’anima. Soste, anche
prolungate, in diversi luoghi d’Europa stabilirono contatti umani e culturali,
aprirono orizzonti. Il protagonista, nel quale mi identificavo, di un racconto
scritto a vent’anni, dopo lungo e vario errare per l’Europa sente la nostalgia
del ritorno nella città natale, e la saluta, al ritorno, con un atto, e quasi
abbraccio, d’amore. La metà della vita, tanto importante nell’ottica di Jung (di
cui ero in anni giovani assiduo lettore), comporta un cambio di prospettiva e
una radicale, anche se lenta, trasformazione interiore. Raggiunti ormai gli
ottanta, come regalo di compleanno mi sono offerto un libro non da leggere, ma
da scrivere. Ecco dunque il bilancio di vita di questo recente “figlio
cartaceo”. E il ripensare tempi intensi di storia “vissuta” (l’anteguerra, la
guerra, il primo dopoguerra) e luoghi consacrati, se così si può dire, da
un’esperienza di attenzione benevola e di prolungato e intenso contatto. Tempi e
luoghi, quasi “dioscuri dell’esserci”
, nonché pietre miliari di un lungo cammino, risultano più veri del vero
nell’emozione affettuosa della rivisitante e selettiva memoria. Memoria che
s’incarna in parola e sogna di librarsi e liberarsi in musica e canto.
Nel suo ultimo libro dedica ampio spazio ai ricordi
della Roma della sua gioventù, ma un capitolo anche alla ‘mia’ Firenze. Siamo di
fronte a due pilastri della storia dell’arte e del pensiero umano. Oggi è
rimasto qualcosa? Che prospettive abbiamo, e che prospettive ha, più in
generale, un approccio alla letteratura incentrato sull’anima, in un mondo in
larga parte cinico e spesso portato all’indifferenza o all’ironia, su un tema
così ‘cocente’?
Roma, Firenze. Due “pilastri”, certo. Roma città natale, scoperta
nella sua anima molteplice negli anni dell’adolescenza con incanto e stupore. Le
passeggiate solitarie alla scoperta di Santa Sabina, dei Santi Quattro Coronati
con l’aspetto quasi campestre e il piccolo chiostro armonioso, il Ponte
Sant’Angelo, lo stupendo quartiere rinascimentale attorno a Palazzo Farnese, gli
Orti Farnesiani dominanti il Foro. Poi l’interesse giovanile per l’archeologia.
Certe luci d’inverno, di primavera. I carissimi alberi di Villa Borghese, del
Colle Oppio, di Villa Celimontana, dove andavo, ragazzo, a leggere Lamartine
(chissà perché proprio lui!). Tutto ciò è ricco d’anima
(anche nel senso che Hillman trae da Keats). Per me, certo. Ma anche
per gli innumerevoli che furono, che (speriamo) saranno. Quanto impregnata
d’anima, la mia città! Ma questo non basta. Il romano medio è forse estraneo a
tutto ciò, non ha, di solito un’indole poetica. Le sue canzoni
pseudo-sentimentali sono a misura dei “posteggiatori” di trattoria. Cosa ci si
trova, oggi? Qualche spettacolo di prosa, buoni concerti (specie ora che Antonio
Pappano sembra una colonna della vita musicale romana). Buone, anche ottime,
mostre d’arte, ma non più di quante ne organizzano Milano, Firenze, Ferrara, e
altre città. La cosiddetta “scuola romana” di pittura degli anni Trenta ha avuto
pittori rispettabili, ma forse non più di tanto. Celebre, meritatamente celebre
caposcuola di statura europea, sintonico alla “classicità” dell’Urbe, viveva e
operava a Roma Giorgio de Chirico. Una grande presenza fu quella di Ungaretti,
diventato romano. Un intellettuale straniero sceso alla stazione Termini chiese
al tassista di accompagnarlo da Ungaretti, e fu sorpreso che quello non ne
conoscesse l’indirizzo, tanto gli pareva importante il poeta. Per alcuni anni fu
romana “La Fiera Letteraria”, interessante almeno negli anni in cui la dirigeva
Cardarelli. L’Ateneo romano ebbe buoni maestri, specie in campo giuridico, ma
non fu mai considerato di prima grandezza. Non è un panorama, per quanto ne so,
ricco di presente e di germi di futuro, Ma sono vecchio e piuttosto isolato,
forse non so vedere. Firenze ha una maggior coerenza di atmosfera e maggior
consapevolezza da parte dei fiorentini nei confronti dei valori che
custodiscono. So bene che un patrimonio così ricco è anche un peso, ma è una
ricchezza inestimabile e altamente “spirituale”. Comunque se vedo, per esempio,
la raccolta di Marino Marini sistemata in un palazzo quattrocentesco ho il senso
di una confortante continuità. Le riviste fiorentine del Novecento furono più
vive della “Fiera Letteraria”, ma appartengono a una stagione ormai lontana e
conclusa. Avere avuto un sindaco, sia pure non fiorentino, come La Pira è certo
una gloria, e non vanno dimenticati certi movimenti vivi in campo ecclesiale.
Ottima, in certe stagioni, la Facoltà letteraria. In campo editoriale, Vallecchi,
Le Monnier, Sansoni. Alla presenza romana di Ungaretti fa riscontro la presenza
fiorentina di Mario Luzi, messaggero dello Spirito, uomo d’alta gentilezza.
Tutto ciò appartiene al passato, anche se prossimo. Noi, oggi, che possiamo
fare, sperduti in un contesto totalmente “altro”, col nostro cero d’anima acceso
che ogni colpo di vento potrebbe spegnere? Teniamolo acceso con disperata
speranza, restiamo fedeli a noi stessi, al germe d’amore che portiamo in noi (il
lievito non ha grandi dimensioni) e che ci chiede di diventare anche scrittura.
Di solito si cita di Petrarca, con un sorriso scettico, soltanto il verso
“Povera e nuda vai, filosofia”. Ma ciò che Petrarca dice anche a noi non
s’intende senza i versi che seguono. “Pochi compagni avrai per l’altra via;
Tanto ti prego più, gentile spirto, Non lassar la magnanima tua impresa”.
La poesia e lo spirito.com
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