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A proposito del libro:
I lupi e il rumore del tempo
di Osip Mandel’štam, traduzione e introduzione di Paolo Ruffilli, Biblioteca dei
Leoni, Castelfranco Veneto 2013, pp. 94*
Quando Mandel’štam parla, in Silentium, di “inscindibile
legame” (quello dell’armonia originaria, pura come la spuma da cui nacque
Venere, cristallina come un silenzio appena solcato o sfiorato dalla prima
vibrazione del suono al suo sorgere), pensa quasi certamente al suo Dante: “E
però sappia ciascuno che nulla cosa per legame musaico armonizzata si può della
sua loquela in altra transmutare sanza rompere tutta sua dolcezza ed armonia”.
Quel passo di Dante è stato spesso citato per suffragare la tesi
dell’intraducibilità della poesia. In questa intervista, Paolo Ruffilli svela in
parte le dinamiche e le strategie che gli hanno invece permesso di scomporre e
ricomporre quel mosaico di sillabe-tessere che è la poesia, riuscendo – magari
attraverso i “compensi”, gli aggiustamenti e le ricalibrature del rapporto fra
suono e senso, di cui parlava Fortini, o la “metapoesia analogica” della più
recente traduttologia – di salvaguardarne (come un prezioso capolavoro che dev’essere
trasportato con tutte le cautele, o un affresco antichissimo ed ormai
evanescente che debba prima essere “staccato”, poi restaurato) la sottile,
delicatissima, e perciò fragile, armonia.
Matteo Veronesi
Parlandone con Paolo Ruffilli
Una volta superato l’abbozzo,
stai ben attento a tenerti in mente
una semplice frase senza aggiunte,
netta contro il buio che ci hai
dentro,
e quella, pur strizzando gli occhi,
resta fissa per come ti è arrivata,
e sta alla carta in proporzione
come la cupola al cielo ancora
vuoto.
Osip Emil’evič
Mandel’štam
Nella sua
Storia della letteratura russa Dmitrij
Petrovǐc Mirskij scriveva, a proposito della poesia di Mandel’štam: “ciò che più
conta nella sua poesia (per quanto interessanti siano le sue opinioni storiche)
è la forma e la maniera di accentuarla e di attirare su di essa
l’attenzione. Egli raggiunge questo scopo mediante associazioni verbali
contraddittorie: troviamo in lui magnifici arcaismi inusitati accanto a termini
della vita quotidiana rimasti finora esclusi dalla poesia. Soprattutto la sua
sintassi è un miscuglio curioso, in cui periodi di alta retorica si scontrano
con frasi puramente colloquiali. La costruzione dei suoi poemi è tale da
accentuare la difficoltà, la scabrosità della forma: essa si presenta come una
linea spezzata che cambia direzione ad ogni strofa. I suoi lampi di maestosa
eloquenza rifulgono ancor più immersi in questo contesto bizzarro. La sua
eloquenza è splendida, ma dipende tutta dalla dizione e dal ritmo, ed è
impossibile a rendersi in una traduzione”. In I lupi e il rumore del
tempo lei sembra essere riuscito ad attuare questa sintonizzazione e questa
ricostituzione (e restituzione) “equiliriche” – direbbe Quasimodo – ai testi
originali…
Mi sono sempre sentito in sintonia con la poesia di Mandel’štam: ha le
caratteristiche che mi coinvolgono perché è partitura musicale, contrassegnata
dal ritmo sincopato del nostro tempo. Sapendo per esperienza che in poesia la
musica è tutto ed è capace di mescolare e uniformare tutto (il livello alto e
quello basso, l’adesione e l’ironia, l’eccelso e il quotidiano, la storia comune
e il particolare…), mi sono abbandonato al flusso straordinario dei suoi versi
per tradurli. Mai potrà essere replicata la sua forma originale, ma ci si può
avvicinare più di quanto non si pensi. Il problema è che, per tradurre la
poesia, bisogna avere esperienza di poesia.
Nella “Nota di traduzione” lei dice di aver
tradotto i testi del suo florilegio da Mandel’štam da versioni in lingua
inglese. Forse l’intermediazione di una traduzione terza rende, paradossalmente,
il traduttore finale più libero, e dunque più fedele allo spirito, se non alla
lettera, oltre a preservarlo dagli abbagli cui potrebbero condurre una
immersione e una immedesimazione troppo dirette con il magma verbale
dell’originale?
L’inglese (e mi riferisco a traduzioni di poeti inglesi di qualità) mi è servito
per restare legato al senso, ma fondamentale è stato ascoltare la lettura
registrata degli originali da parte di russi di lingua madre. È la musica che dà
senso pieno a quello che chiamiamo significato. Per il resto, da traduttore
della poesia che mi interessa e mi coinvolge, non mi sono mai lasciato
imbrigliare dal dictat della lettera. Paradossalmente, non c’è niente che
tradisca più della lettera, come sostiene la stessa tradizione sapienziale.
A proposito dell’atto di tradurre i propri versi
lo stesso Mandel’štam rifletteva: “E, in questo stesso istante, / che so, magari
un giapponese / traduce proprio i miei versi in turco / spingendosi a frugarmi
dentro” (Tartari, Usbechi e Samoiedi).
Ha avuto questa sensazione quasi rapinosa?
È
un passaggio ironico di Mandel’štam e allude al fatto che il traduttore va oltre
l’esperienza di semplice lettore (il quale si limita a “far proprio” ciò che
legge), sforzandosi di entrare nell’ottica dell’autore e della sua dinamica
interna per cercare di renderne al meglio i versi in un’altra lingua.
L’importante, per chi traduce poesia, è mettersi in sintonia con l’autore che
sta traducendo e questo accade per davvero scivolando dentro la musica della sua
partitura.
Nel suo caso, parafrasando ciò che Valgimigli
diceva in riferimento a Quasimodo, è il poetare a riflettersi sul tradurre, o
viceversa, o entrambe le cose?
Non esiste una regola che valga in assoluto. Io non parlo, per me, del
traduttore professionale (quello, insomma, che traduce quanto gli viene
richiesto). Io traduco solo la poesia dalla quale sono preso e coinvolto, il che
non vuol dire che ci sia coincidenza di idee e di sentire. L’operazione è,
comunque, dinamica e dunque uno scambio reciproco avviene. Ma sempre senza voler
scavalcare l’autore che sto traducendo, meno che mai volendolo trasformare in
una versione personalizzata o, peggio, marchiata dai propri stilemi.
In “Appunti per una ipotesi di poetica”, a
conclusione del suo Natura morta,
lei osservava che l’uomo ha sempre praticato l’astrazione come meccanismo di
difesa, nel tentativo di padroneggiare una natura soverchiatrice. L’uomo è
simbolista sia istintivamente che – nella misura in cui va contro natura –
innaturalmente. Con quelle parole con tutta probabilità alludeva in linea
generale al fonosimbolismo e al carattere ideofonico e ideosemantico insiti nel
linguaggio fin dalla sua origine più remota. In senso più proprio e specifico,
la poesia simbolista evoca, sfuma, dilata i margini del significante, istituisce
un referente indeterminato, ha spesso esiti mistici o irrazionali. Ora, la
prospettiva acmeista accolta da Mandel’štam reagisce proprio all’eccesso di
soggettivismo e di evasività delle poetiche simboliste. Gli acmeisti attaccano
le basi del simbolismo per un’espressione – lei scrive nella sua introduzione ai
versi di Mandel’štam – “in grado di raggiungere l’acme, cioè l’essenza, il
vertice dell’oggetto rappresentato”. Non è questa anche una sua profonda
esigenza che si realizza nella sua poesia?
Non c’è poesia che non sia simbolica e dunque simbolista (già parlando, si dice
una cosa per intenderne un’altra, figuriamoci in versi). La polemica di
Mandel’štam contro il simbolismo (che, poi, non è polemica vera, ma solo una
serie di distinguo) è contro il movimento in senso ideologico, come
teorizzazione che, come tutte le teorizzazioni, sconfina nella forzatura.
Immergersi dentro di sé ignorando ciò che è fuori di sé è come immergersi fuori
di sé ignorando ciò che c’è dentro di sé. Al di là del gioco di parole,
Mandel’štam vive la più profonda delle interiorizzazioni ma senza mai perdere il
senso di realtà (che non ha niente a che fare con il realismo, va detto a scanso
di equivoci). Mandel’štam ironizza a proposito di ogni tipo di “realismo” e non
soltanto a proposito di quello socialista. Il “realismo”, proprio come il
“simbolismo”, è un modo miope o astigmatico di guardare alla realtà. Realtà che,
nel suo mistero, è qualcosa di molto complicato che neppure la scienza con i
suoi strumenti apparentemente pratici riesce a mettere in scacco. E l’acmeismo
insisteva sulla necessità di arrivare appunto all’acme di ogni oggetto portato
sulla scena della poesia per rivelarlo nell’incontro con il soggetto, facendo
convivere i sensi (compreso il sesto), senza arrivare al cannibalismo del
simbolismo (che l’oggetto se lo ingoiava). Si capisce allora come, in
particolare, gli acmeisti e soprattutto Mandel’štam contestassero ai simbolisti
la mancanza di etica nel rifugiarsi in una realtà “tutta loro” che non faceva i
conti con la vita quotidiana e con la storia.
Potrebbe accomunarla a Mandel’štam l’incuranza –
nella fattispecie della prassi creativa – verso il “rumore del tempo”, fatte le
dovute distinzioni? Così come l’indifferenza, da parte di entrambi, nei
confronti di istanze comunicative da ascrivere alla scrittura letteraria?
Non c’è dubbio che, nel mio sentirmi in sintonia con Mandel’štam, ci siano anche
certe coincidenze di atteggiamento e di convinzione, in primo luogo nella non
curanza assoluta di ogni rumore del proprio tempo, inteso come moda o scuola e
vincolo ideologico e tendenza globalizzante. E devo dire che anch’io avverto una
spiccata indifferenza per il consenso legato alla banalizzazione, in un’epoca
come la nostra in cui si è radicalizzata la diminuzione al basso del valore, nel
caso particolare letterario. I media, oggi, si occupano solo della letteratura
di serie B e C. La serie A è bandita, via via anche dagli editori.
Leggiamo nella sua introduzione: “la poesia, per
Mandel’štam, cominciava così: all’orecchio risuonava ossessiva, prima informe,
poi sempre più definita, ma ancora senza parole, una frase musicale”. Non c’è in
queste parole qualcosa che caratterizzi anche la fase avantestuale del suo
lavoro, benché le due posizioni non possano che seguire processi differenti? Una
assimilazione del flautista a quella del poeta che opera attraverso la voce in
Mandel’štam (“io mi porto alle labbra questo verde”; “non potete impedirmi di
muovere le labbra nel silenzio”), mentre in lei, stando alle sue stesse
dichiarazioni, la parola poetica si origina da una sorta di “ossessione mentale”
che la induce a conferirle consistenza come le note in una partitura musicale.
Un connubio di ricettività musicale e ragione che sorveglia e disciplina,
insomma…
Anche in questo mi sento vicino a Mandel’štam, perfino nel movimento stesso a
cui mi costringe l’impulso dell’ossessione musicale, alzandomi a segnare il
ritmo a passi e a pronunciare il suono a voce alta, perché l’ossessione che mi
attiva è sempre musicale… proprio come racconta per sé Mandel’štam. La ragione
entra in campo sempre dopo e, nonostante faccia la sua parte di controllo (come
è giusto che sia), non ha mai l’ultima parola, che spetta all’orecchio.
L’elemento musicale che culminerà nella lingua
della poesia è l’antipodo del “tono ingessato”, dell’enunciato cristallizzato
che implica uno snaturamento semantico, è ciò – Mandel’štam dice in
Silentium – “che è vivo inscindibile legame”,
purché venga messo in atto il paradigma del flautista. Rendere questa
musicalità, meglio, questa istanza musicale, è un ostacolo alla traducibilità
dei versi in altra lingua?
Per uno che come me parte dalla musica per tradurre, come dicevo più sopra, il
problema è relativo. Non c’è niente di veramente intraducibile, sia pure
nell’approssimazione. Ma lottando con la musica delle parole, l’approssimazione
si riduce e si realizza il miracolo di sentire suonare nella propria lingua ciò
che suonava nella lingua di partenza. Si tratta, in fondo, di fare il percorso
opposto a quello della lingua che da indifferenziata, come puro suono, ha scisso
il significato dal significante. Si tratta di rimontare dal significato il più
possibile nel significante. Detto così, in teoria, può apparire lambiccato. Ma,
per chi ha pratica di poesia, è evidente che il processo diventa in qualche modo
naturale.
Quali opzioni ha seguito nell’uso, seppure
contenuto, delle rime, incluse quelle imperfette? Una domanda non troppo banale
se si considera il loro valore non unicamente musicale, bensì relazionale,
concettuale, tematico, performativo… Versi rimali quali, per fare qualche
esempio, “fissato:tracciato”, “conchiglia:bisbiglia”, “baionetta:imperfetta”,
sembrerebbero istituire relazioni e analogie sottili e peculiari, intrecciare,
per così dire, una nuova ragnatela percettiva da gettare nelle forme del mondo…
Siamo sempre portati a voler dare coscienza fin nel dettaglio ai passaggi
creativi, fa parte della nostra innata necessità di spiegare e di capire. Ma i
processi creativi sfuggono spesso e volentieri a qualsiasi tentativo di
decifrazione logica. In ogni caso, nel mio tradurre, io faccio appello a quegli
stessi impulsi che valgono nello scrivere in proprio. Ci sono collegamenti
istantanei, fili che si tirano a vicenda emergendo dal profondo, più che una
volontà di perseguire rime o analogie… Se mai, starà al critico dare le
spiegazioni di una sua analisi razionale del testo.
Alcuni versi da lei antologizzati stabiliscono
una dialettica tra silenzio e musica, a tutto vantaggio per la seconda (“la
parola è pura allegria, la guarigione dalla malinconia), benché, Mandel’štam
scrive in Provo un’invincibile paura,
“la musica non salva dall’abisso”. L’esperienza del silenzio sembra farsi
letterale, perdere quel carattere auratico, ineffabile, proprio di tanta poesia,
dove l’assenza del nome viene categorizzata come voce ancora più essenziale, la
spia di una più alta pregnanza. Qui, talora, l’accezione “silenzio” sembra
assumere riflessi negativi: “perché mai così poca è la musica, / perché mai così
tanto silenzio?”( È il vento a far frusciar le foglie). È così?
La dialettica tra musica e silenzio attraversa l’intera esperienza di
Mandel’štam, rimandando all’impossibile superamento della contraddizione e al
suo mistero. Del resto, rispetto al “silenzio” della realtà in cui siamo calati
e che non risponde alle nostre domande, la musica è la chiave per aprire qualche
porta… istintivamente, l’uomo primitivo ha fatto ricorso al suono ritmato e
cadenzato per interrogare quel silenzio da cui si sentiva schiacciato. Pur
facendo giustamente conto sull’intelligenza per tentare di spiegare l’avventura
misteriosa in cui ci troviamo a vivere, la musica resta la misteriosa chiave che
apre certe porte. Ce lo dicono adesso anche gli scienziati: la musica è una
matematica pura in cui i numeri sono organizzati da un soffio che non riusciamo
ancora a misurare.
In Lupus in fabula il lupo è la morte che predilige la giovinezza, come
in Canova nel monumento dell’Augustinerkirche. Declinato al plurale, come nel
titolo di questo volume, non può non alludere alle “belve” del bolscevismo.
Soltanto a loro?
Si parla di certe belve, per alludere anche a tutte le altre, di ogni tempo e
luogo. Ma, misurandosi con il proprio tempo, a partire da quelle della follia
bolscevica e staliniana in particolare. Per testimoniare, ancora una volta, che
passare sulla testa delle persone in nome delle idee è far torto alle idee
stesse, trasformandole da valori superiori in interessi di parte. E per
sottolineare, nel segno dell’assurdo quotidiano e oltre la follia dei malvagi,
una certa spiegabile normalità del male legata alle circostanze della vita nella
storia.
Diversamente dal simbolismo – che si fonda sulla
bipartizione tra ciò che percepiamo e l’impercettibile – la poesia per
Mandel’štam necessita, a suo dire, di uno “spazio tridimensionale” che includa
la vita. Poesia è stratificazione, concrezione, visione forse anche
quadrimensionale qualora si tengano in conto il protrarsi delle cose nel tempo e
una loro dimensione spaziale che sembra partecipare delle caratteristiche
temporali…
È
quello che si diceva più sopra, delle circostanze di una vita inserita nella
storia. Ciò di cui il simbolismo si dimenticava e che invece era ben presente
come esperienza in Mandel’štam, nella stratificazione e concrezione appunto,
dalla quale non si può prescindere, e nell’intreccio delle dimensioni che è la
tessitura del nostro essere. Mandel’štam, che è stato un genio precoce, oltre al
talento che lo illuminava dal profondo, aveva conoscenze e competenze che
neppure ci immaginiamo.
Nella
Conversazione su Dante Mandel’štam – un grande ispiratore del
commento di Massimo Sannelli alla Comedìa – accenna a una fisiologia
dell’italiano: Dante costringe l’“asiatico” (così Mandel’štam si definiva nella
Conversazione) a spostare la lingua in avanti. Imparando l’italiano su
Dante ha percepito che la lingua gli si muoveva in avanti, diveniva più
prensile, andava verso le labbra. A noi che siamo già italiani così insegna
filologicamente Dante. Ma Mandel’štam era asiatico. Può questo valere come
metafora per chi è italiano-italofono dalla nascita? Oppure lo siamo già,
italiani, e non abbiamo niente da imparare? E non conosceremo mai Dante da
questo punto di vista? Insomma, esiste una fisiologia sonora di Dante, anche per
noi nati italiani? O per singoli autori? Oppure niente di tutto questo, e la
filologia della lingua di Mandel’štam è per noi soltanto una bella visione
poetica, una fantasia?
Non c’è poeta degno di questo nome che, a leggerlo, non spinga a spostare la
lingua più avanti. Figuriamoci Dante, che è un propulsore formidabile da tutti i
punti di vista e non meno certo sul piano musicale. Ma, si sa, la maggioranza
degli italiani non ha letto e non legge Dante, neppure quelli che sembrerebbero
leggerlo a scuola… Meno che mai quelli che lo hanno ascoltato letto da altri,
magari da Benigni, in una delle operazioni di finto acculturamento più di
successo nella società del consenso. La Commedia è una lettura della maturità
che riguarda pochi, in un rapporto di incontro-scontro con le ragioni autentiche
e drammatiche della vita. Per questo Mandel’štam, al confino e in carcere, si
portava dietro il suo Dante.
in: Nuova Provincia, dicembre 2013
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