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Intervista a Marco Palladini
Intervista a cura di Velio Carratoni
Come definisci il momento culturale attuale?
Al di là della pandemia che ha determinato un sostanziale e generale blocco
delle attività culturali e di spettacolo, solo in piccola parte trasmigrate nel
mondo virtuale, ossia nei precari collegamenti sulle varie piattaforme della
rete, ritengo che pure prima dell’avvento del Covid eravamo in presenza di una
fase di stanca, di ripiegamento, di palese regressione culturale. Non ci sono
idee nuove né visioni di prospettiva. Si rimastica il passato, si ribobola il
già fatto e già pensato, mentre il mercato promuove soltanto i prodotti
rassicuranti, convenzionali, che rispondono a canoni semplificatorî,
a-problematici e non conflittuali. Anche nel campo culturale vince quella che
chiamo la denarocrazia, tutto il resto risulta pressoché invisibile.
Tutto tende a divenire palliativo o trascuratezza, ma i soliti noti provenienti,
per lo più, dai circuiti prestabiliti, stanno sempre lì, a scapito di chi
avrebbe meriti non considerati.
L’ho appena detto: l’intero orizzonte è occupato dal mainstream, quasi sempre di
mediocre qualità, le energie culturali alternative, seppure esistono, non hanno
diritto di cittadinanza. Laddove sopravvivono, lo fanno in piccole riserve,
spesso di autoconservazione, che non incidono nel sistema. Del resto, va detto
che anche le avanguardie invecchiano e quelle novecentesche hanno fatto il loro
tempo, hanno dato, secondo me, tutto quello che potevano dare. Rimane certo la
loro lezione etico-estetica e politico-culturale, ma andrebbe totalmente
ripensata e riorientata nella epochè del XXI secolo. Ma è un compito che
spetterebbe alle nuove generazioni, non possono assolverlo gli artisti e gli
intellettuali dello scorso secolo. Il punto cruciale mi pare proprio questo (ne
parlo da almeno vent’anni): che la giovane generazione è arresa al sistema,
neppure riesce a concepire un vero antagonismo versus l’establishment, ha
assorbito in partenza l’input della ricerca del consenso e del compiacere il
potere. A creare e ad alimentare il dissenso e il conflitto critico non ci pensa
proprio.
Che ne pensi della critica manovrata?
La critica se non è pressoché sparita, è quanto meno completamente depotenziata
e ridotta ad essere irrilevante. Il mercato, ripeto, ha bisogno di organizzatori
e promotori di consenso, giammai di propalatori di dissenso. Gli eteropensanti
non sono ammessi o contemplati. Si vedono oramai sulle gazzette nazionali
scriventi e story-teller che si recensiscono l’un l’altro in una parodia di
funzione critica che si risolve nell’incensamento della kakoliteratur. Anche la
similcritica è oggi una forma di intrattenimento depensante.
Tra teatro, poesia e narrativa, che cosa privilegi?
Se devo parlare per me non ho precise gerarchie di valori da affermare. Sono da
molto tempo un autore tendenzialmente poligrafo e poliartistico, che procede
spesso su piani paralleli. Amo il teatro perché è un’attività che si fa con
altre persone e l’interazione con altri mi stimola assai. Vero è che negli
ultimi anni, pur avendo sempre fatto un teatro povero, mi è sempre più difficile
reperire quelle risorse minime per fare degli spettacoli. Si va avanti basandosi
sul mero volontariato, gli spazi dove operare spariscono, ed è difficile trovare
dei complici in questa situazione. Comunque, prima del Covid avevo già pronto un
recital imperniato sulla relazione tra Pasolini e Roma, realizzato assieme a due
cantautori capitolini, mescolando lingua e dialetto. Avevamo già qualche data
per replicare lo spettacolo, poi si è fermato tutto. Considerando che il
prossimo anno sarà il centenario della nascita di Pier Paolo, voglio sperare che
nel 2022 l’emergenza sanitaria sia superata e il nostro recital possa girare e
trovare i suoi referenti.
Per la poesia ho tantissimo materiale inedito, buono per fare almeno un paio di
libri, ma gli è che negli ultimi tempi mi sono dedicato soprattutto alla
narrativa che in me spesso è denarrativa sperimentale. L’anno scorso è uscito il
libro di racconti Nomi veri falsi, adesso ho appena pubblicato il romanzo
I virus sognano gli uomini, scritto durante il lockdown totale, che
rispecchia il trauma collettivo ed epocale determinato dal Covid, anche nello
specifico cortocircuito tra pandemia e infodemia.
Stai realizzando per conto della Fondazione che porta il suo nome, la messa in
video del testo
Lettere della sposa demente di Marino Piazzolla. Ti senti di darci qualche
anticipazione?
È difficile parlare di qualcosa in corso, che sto ancora girando. Posso dire che
Lettere della sposa demente è reputato dalla critica forse il punto più
alto della sua produzione poetica, articolato in un prologo e tre tempi. Io ne
ho tratto un adattamento che cerca di rispettare l’ardente spirito
lirico-elegiaco dell’opera, facendo alcuni cambiamenti utili a creare una sorta
di dialogo a distanza tra la voce della “sposa demente” e la voce dell’uomo a
cui si rivolge, che l’ha abbandonata ed è andato a vivere su un’isola deserta.
Ne sta scaturendo un videopoema ambientato sia in interni sia in esterni, che
cerca soprattutto di valorizzare la materia drammatica e malinconica, dolente
della scrittura di Piazzolla. Posso anticipare che l’attrice che ho scelto per
dare voce e corpo alla “sposa demente”, Giancarla Goracci, ha finora risposto
pienamente alle mie aspettative. Sono convinto di poter fare un lavoro
videoscenico in grado di valorizzare il senso di sperdimento e di follia amorosa
insito nel testo. Realizzare un video, in questo tempo di chiusura, è peraltro
l’unico lavoro che è possibile portare avanti, pur con molte limitazioni, per
poi promuoverlo e farlo conoscere in rete.
Come consideri Piazzolla oggi, rispetto alla tradizione poetica? In quale genere
lo trovi più congeniale?
Marino Piazzolla è un poeta che appartiene in linea di massima alla tradizione
della lirica di metà Novecento, ma senza vagheggiamenti ermetici, puntando, mi
sembra, su una chiarezza comunicativa del verso. Se la nota di fondo è, come
accennato, il tono elegiaco, ci sono però nella sua opera altre zone di taglio
invettivo-civile o anche lettristico-sperimentale, che probabilmente mi sono più
congeniali e su cui ho realizzato prima lo spettacolo Hudemata Actabat e
poi il video Hudemata o ferito a vita. In ogni caso è un poeta di robusta
linfa e di notevole sapienza nell’articolazione anche fonetica del linguaggio.
Tra i vari autori, nostri comuni compagni di strada e amici, chi ti senti di
ricordare e perché?
Se debbo, all’impronta, pensare a due comuni compagni di viaggio poetico faccio
i nomi di Mario Lunetta e Gianni Toti, di cui nel maggio di due anni fa curai il
reading scenico del loro splendido Lunario Totemico, in compagnia di un
bravissimo attore, Franco Mazzi, e del sassofonista Claudio Mapelli. Lunetta e
Toti, fortemente solidali anche nella diversità, sono per me due preclari esempi
di autori protesi ad una ricerca poetica e culturale improntata al materialismo
e a una dimensione politica sempre vigile, critica, dialettica. Due potenti
‘animali letterari’ tenuti fuori anche dal recinto ufficiale della
neoavanguardia, la cui (relativa) marginalità ha contribuito al loro evidente
non cedere alle sirene della normalizzazione o del manierismo. Hanno tenuto
duro, con coerenza e ostinazione sino alla fine. A proposito di Gianni non posso
esimermi dal ricordare che nel 2009 gli ho dedicato uno spettacolo, Ballata del Futuremoto (o le visioni di un chaosmunista), arricchito da ampi
spezzoni di alcune sue mirabili opere videotroniche, che reputo uno dei miei
migliori lavori sul confine tra teatro e letteratura eterodossa.
La tua recente preferenza per la narrativa è un fatto di assestamento o un
avvicinamento più persuasivo alla realtà?
È vero che ho accentuato negli ultimi anni la scrittura di narrazione o
denarrazione, ma in primis non ho mai cessato di scrivere testi poetici e, in
secondo luogo, anche i miei racconti e romanzi hanno dentro un’anima poetica e
spesso pure una fluidità poetica. Nel senso che la mia prosa dà un peso
fondamentale al linguaggio, all’elaborazione linguistica, a un impasto verbale
che non è mai a grado zero. Circa il rapporto con la realtà, di fondo non è
invero cambiato, perché anche la mia poesia si nutre di umori (e malumori)
etico-civili e politici, quasi mai è una poesia di natura o di privati
sentimenti interiori. Certo, la scrittura narrativa mi permette di accendere la
fantasia e di dare corpo e voce a figure e mondi che la scrittura in versi
fatica a rappresentare. In tal senso la narrazione implementa notevolmente il
tuo sguardo d’autore. Inoltre, la mia narratività si dispone spesso e volentieri
ad una misura dialogica, laddove metto a frutto la mia lunga esperienza di
autore drammaturgico nel costruire dei dialoghi che sappiano connettere una
trama di pensieri non banali e una costruzione per battute il più possibile
incisiva e brillante. Diciamo che con la narratività riesco a compendiare tanti
piani di scrittura e questo mi soddisfa molto.
Vuoi parlare della Fermenti Editrice?
Io ho un rapporto di lunga data e assai fecondo con Fermenti, a parte la mia
collaborazione sempre rinnovata con la rivista. Per i tipi di Fermenti ho
pubblicato due, per me importanti, libri di poesia - Fabrika Póiesis
(1999)
e
La vita non è elegante (2002,
con una nota di E. Affinati)
-, inoltre per questa casa editrice sono usciti tre volumi di teatro: nel
2009 I Teatronauti del Chaos - La scena sperimentale e postmoderna in Italia
(1976-2008), con l’introduzione di A. Attisani,
poi nel
2015 e 2017
sono stati pubblicati Prove Aperte - Materiali per uno zibaldone sui teatri che ho conosciuto e
attraversato (1981-2015) Vol. I (prefazione di C. Milanese) e Vol. II. È un
trittico critico cruciale nella mia bibliografia perché racchiude un percorso
quasi quarantennale di osservatore della scena più avanzata e d’avanguardia, sia
nazionale che internazionale.
Per accennare alle edizioni Fermenti in generale, mi pare che negli ultimi anni
hanno presentato ragguardevoli pubblicazioni critiche come Di traverso il
Novecento di Francesco Muzzioli, Critica e storia di Nino Borsellino,
da poco scomparso. Pregevole anche l’antologia delle poete messicane Donne di
parole a cura di Emilio Coco e, tra gli autori in versi, mi sembrano
interessanti William Cliff (Poesie scelte) Sergej Zav’jalov (Il
digiuno natalizio), Edith Dzieduszycka (Incontri e scontri), Mario
Rondi (Il cartiglio nel vento), Caterina Davinio (Big Splash) e
Gemma Forti (S/van/ar/eggia). Da ultimo cito Tenori e Pianisterie di un insigne studioso del Barocco e musicofilo come Marzio
Pieri, da cui rimane incantato per sapienza e stile di scrittura anche chi non
sia particolarmente addotto o appassionato di melodramma o di musica classica.
Parlando di
cultura al tempo del Covid, che ne pensi della chiusura delle sale?
Circa la chiusura di tutte le sale teatrali, cinematografiche, concertistiche e
di convegni e presentazioni, appartengo al partito di chi si chiede se veramente
tenerle aperte sarebbe stato più pericoloso del tenere aperti negozi,
supermercati, centri commerciali e outlet. Sinceramente ne dubito. È stata una
misura fortemente punitiva per l’intero comparto culturale con ristori e
indennizzi che, a quanto mi risulta, sono stati o parziali o minimi. Un settore
nevralgico della vita sociale e civile è stato messo in ginocchio da un ceto
politico che, particolarmente in questo tempo pandemico, si è dimostrato
pervicacemente anticulturale, indifferente alla sorte di migliaia di attori,
autori, registi, scenografi, musicisti e artisti, per non parlare del grande
indotto delle maestranze tecniche. Insomma, un autentico disastro. Ciò che
aumenta vieppiù il discredito e il mio, personale, completo rigetto della
nostrana classe dirigente.
Come ti
definisci?
In parte ho risposto prima circa le mie caratteristiche. Si licet, vorrei
autocitarmi dal mio secondo libro, Autopia (1991): “Viaggiatore
protempore e divisibile ascolto le voci di dentro. E quelle di fuori. Mi
rimbombardano. Le une e le altre si perdono e ci perdono. Implodendomi senza
fine-senso. Scrivere all’infinito? Ennesimo incubo. Scrittura dell’infinito? Non
è mai definitiva. E non mi ispira. In compenso aspiro all’apparessere
infinitivo, transdefinito, sdefinibile”.
Se in una figura, al dunque, mi identifico è quella che Hermann Hesse chiama
“der Suchende”, colui che è in cerca, il viandante molteplice sulle vie del
verbo poetico, il ricercatore eterovagante che aspira ad un approdo, pur sapendo
che non lo raggiungerà mai.
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