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Intervista di Doriano Fasoli a Giancarlo Micheli
Riflessioni.it
Da cosa è nato lo stimolo per scrivere Romanzo per la mano sinistra?
Senza dubbio, dal mio personale punto di vista soggettivo, il desiderio
di scrivere questo romanzo è nato da una molteplicità complessa di
motivazioni, alle quali non è stato estraneo il fatto biografico di
esser divenuto padre. Misi, infatti, mano al primo dei venti quadernetti
del manoscritto sul finire dell’inverno del 2011, pochi mesi prima della
nascita di mio figlio Ernesto. Tra i materiali diegetici di cui il testo
si compone, hanno un ruolo portante nell’architettonica dell’opera le
lettere che il protagonista, Stefan Bauer, ebreo moravo perseguitato per
un intreccio di circostanze che rivelano aspetti focali nel rapporto tra
carattere e destino, indirizza al figlio Bruno, il quale le leggerà a
distanza di anni, quando, una volta adulto, raccoglierà dal padre il
testimone di eroe della storia. Cionondimeno, nell’opera letteraria
epica, quale credo Romanzo per la mano sinistra possa dirsi, il
punto di vista soggettivo, foss’anche quello dell’autore e delle sue
maschere testuali, conta quanto quello di ogni donna, uomo o bambino che
abiti il nostro insidiato pianeta.
Da un punto di vista più generale, d’altronde, l’opera letteraria non
solo giustifica se stessa come totalità coerente di voci e discorsi (plurivocità
e pluridiscorsività, illustrate negli studi del grande teorico del
romanzo Michail Bachtin) che, in ordine ai nessi intrinseci tra di essi
stabiliti, costituiscono le leggi specifiche della composizione, ma
chiama a sé l’autore, il luogo dell’enunciazione, lo postula in una
posizione variabile e di volta in volta modulata lungo lo sviluppo
diegetico: in un certo senso l’opera crea, dunque, l’autore o,
quantomeno, l’autore quale appare a chi legge. L’opera letteraria, come
la vedo io, organizza la percezione del lettore per dischiuderla ad
un’esperienza evolutiva, la pone in grado di emanciparsi dai meccanismi
costitutivi della personalità qual è irretita nei rapporti sociali di
produzione, prefigura, dunque, la liberazione dall’universo
concentrazionario dell’individualismo dove ciascuno sconta la vita come
pena comminata dalle leggi dell’economia capitalistica, indica, al di là
di ogni prassi costrittiva o anche larvatamente parenetica, il cammino
verso la coscienza di specie. A chi, oggi, abbia la fortuna di
imbattersi in essa, la narrazione che risponda a questo compito gioverà
con la medesima consapevolezza che i lettori eruditi nella lingua
persiana già nel dodicesimo secolo potevano attingere, laddove si
fossero soffermati a meditare i versi di Omar Khayyam: “Dietro un velo
avviene il tuo e il mio parlare/ E quando il velo cade né tu né io ci
siamo”. Scrivere oggi un romanzo – intendo uno vero, non una
scimmiottatura tayloristica, a livello di psicologia individuale o di
psicologia di gruppi ristretti, della divisione del lavoro invalsa nella
nostra Waste Land, quella che organizza la distribuzione dei beni d’uso
affinché i ratei di profitto incrementino gli scarti di produzione tanto
da congestionarne lo smaltimento nella polluzione globale di una cronica
crisi energetica – significa partire da questo primo velo, per
proseguire a far cadere tutti quelli che la libera creatività è in grado
di opporre alla catastrofe reale.
Le sue parole paiono ‘civettare’ con i postulati del ‘vecchio’
materialismo dialettico. Non le pare un tipo di approccio alla
letteratura ormai ‘suranné’?
Ritengo sia invece tanto profondamente attuale da esserlo stato in ogni
epoca, tra quelle di cui la coscienza umana ha fatta l’esperienza. Il
materialismo dialettico è un canone di studi molto più serio e composito
di quella polvere calcinata (i roghi dei libri nazisti sarebbero
nient’altro che prodromi o sintomi premonitori della liquidazione delle
coscienze alla quale il vigente regime globale assolve con zelo
impersonale) cui le prassi politiche, durante l’intera fase matura del
capitalismo, ne hanno ridotto la struttura, cosicché l’ideologia del
capitalismo, a tal segno infantile ed estremistica da integrare nel
proprio discorso di padroni di giorno in giorno più miserabili tutti i
cataboliti logici delle false interpretazioni invalse, potesse
specchiarvi, non senza profusione di godimento narcisistico, la propria ur-tragica finis humanitatis. Accanto ai capolavori di Marx –
sull’abbrivio dei quali, attraverso l’economicismo staliniano ed altre
nefandezze, la tecnocrazia finanziaria si è oggi resa in grado di
schedare, sulla base provvisoria dei profili di reddito e consumo
ancorché covi il sogno incubatorio di poterli presto determinare a
priori tramite huxleyane profilassi genetiche, il promettente individuo
il quale, messosi in viaggio agli albori della macchina a vapore con
tutta l’onesta ingenuità di un Adam Smith o di un John Stuart Mill,
evaso poi per terra e per mare con l’innocenza di un Melville o con la
fatale forasticità di un Rimbaud, acconsente infine alla cinica
unanimità dei delusi di questo mondo e si unisce a loro in un patto più
inesorabile di quello che lo Stato totalitario, in passato, abbia potuto
esigere in forza dei propri dilettanteschi strumenti di repressione –,
accanto ai fondamentali testi del genio di Treviri, sarebbe giovevole
tenere in pronta consultazione, se non quali livres de chévet, l’opera
di Engels, le analisi epistemologiche di Svechnikov sulla causalità,
nonché, e direi soprattutto, alcuni classici del pensiero storicistico
marxista, quali Das Prinzip Hoffnung di Ernst Bloch – già anche
il meno ponderoso Thomas Müntzer als Theologe der Revolution
concilierebbe meglio la veglia e il sonno di chi desideri raccapezzarsi
nel presente – ed ancora il tetragono Die Zerstörung der Vernunft
di György Lukács. Lo stesso Freud, il cui insegnamento le è senz’altro
caro, sosteneva che “bisogna lavorare, quale che sia lo stato di salute
in cui ci si trova”; a fortiori il lavoro di un poeta e di un romanziere
necessita di impegno continuo e tenace, tant’è che, sforzandomi di
tenere il passo del cuore nel periplo di entrambi gli emisferi
cerebrali, proprio nelle settimane che hanno visto la pubblicazione di
Romanzo per la mano sinistra mi è capitato di leggere questo
fondamentale volume lukacsiano. Nella Distruzione della ragione
il filosofo ungherese risponde allo sconcerto, liberalmente retorico, di
chi si interroghi su come sia potuto accadere che una civiltà tanto
ricca ed evoluta da aver dato agli annali della cultura Goethe e Thomas
Mann, Rilke e Brecht, abbia degenerato fino alla barbarie della
Endlösung. Quello che egli fece ricorrendo ai procedimenti ermeneutici
argomentativi io credo di averlo tentato nella sintesi poetica della
narrazione, spostando però – badi bene che tutte queste riflessioni sono
compiute post festum, e che io non mi sono certo messo a scrivere
nell’intento estrinseco di risolvere un problema teorico – l’obiettivo
verso il presente, cosicché, credo, il lettore alacre ed attivo
ritrarrà, al termine della lettura, una cognizione più chiara di quali
lasciti, persino insospettabili, del ‘secolo breve’ agiscano a
condizionare la vita odierna, nel cui limbo di impotenza l’industria
della comunicazione di massa vorrebbe irretirlo come in un Lager di
eternità virtuale.
Cosa racconta Romanzo per la mano sinistra, il suo ultimo lavoro?
Il romanzo unisce la fiction al racconto di episodi ricostruiti
su base documentale e prende l’avvio dalla forma epistolare: si tratta
delle lettere che il protagonista maschile, Stefan Bauer, medico
psichiatra, ebreo moravo nato nel primo decennio del Novecento,
indirizza al figlio, Bruno, dai luoghi di detenzione in cui fu internato
durante la Seconda Guerra Mondiale, in quanto libertario e antifascista.
La narrazione svela, progressivamente, le vicende dei protagonisti
(oltre a Stefan, la sua compagna, Adele Ascarelli, storica dell’arte,
ebrea napoletana, madre di Bruno), seguendole lungo l’itinerario della
loro fuga in molti luoghi dell’Europa e del Vicino Oriente, ed
intrecciandole alle vicissitudini storiche del periodo bellico, delle
quali si adombrano i retroscena nella continuità del potere, cosicché ne
risulti illustrata la grande trasformazione dalla propaganda di Stato al
regime mediatico globale. Attraverso il discorso libero indiretto ed
anche in prima voce, compaiono nel plot i gerarchi della
Endlösung ed i personaggi cruciali della tragedia patriottica da cui
nacque la Repubblica italiana, nonché gli scienziati di ogni nazionalità
che prodigarono il proprio ingegno affinché il conflitto avesse termine
con la reale esibizione dell’ecatombe atomica. Nei capitoli conclusivi,
il giovane Bruno Bauer prenderà parte alla rivolta proletaria e
studentesca nell’Italia degli anni Sessanta e Settanta, forte della
consapevolezza che sia necessario resistere all’ordine vigente, da lui
acquisita anche, forse soprattutto, grazie alla meditazione delle
memorie paterne.
Quindi il tema architettonico del romanzo, credo di capire, consiste
nell’indagine dei rapporti tra le generazioni?
Sì, poiché sono convinto che l’idea dell’inutilità dell’opera d’arte sia
mistificatoria, storicamente determinata dallo sviluppo della società
umana qual è stato fino ad oggi, dato che allude capziosamente
all’obbligatorietà di un disinteresse per vagheggiare una purezza dello
spirito, proprio ciò che gli istinti organizzati dai rapporti di
produzione bandiscono e perseguitano tramite un’ipocrita pletora di
conformismi e stereotipie. È dunque un ‘concetto civetta’ – non me ne
voglia se mi lascio permeare dal suo lessico – della schizofrenia del
capitalismo di cui Deleuze e Guattari parlarono già negli anni Settanta
del secolo scorso. Oggi, l’opera d’arte letteraria, che all’aurora della
modernità si diceva ‘liberale’, è invece utile a chi la scrive e a chi
la legge, come l’opera figurativa o astratta lo è a chi la compone, la
osserva o la intuisce; sempre più sarà così nel futuro, laddove la
specie sopravviva alla propria lunga gestazione. È quello per cui noi
lavoriamo, ricercando con pazienza la serenità che armonizza il sogno e
la ragione.
In conclusione, cosa si augura dunque di ottenere da questo romanzo?
Mi auguro che il paziente lettore, il quale sceglierà di lasciarsi
coinvolgere dalle sue vicende così come farebbe con una questione
privata, o meglio ancora l’altro, che vorrà sentirsene parte come di una
storia più universale ed infine umana, giunga a conoscere gli effetti
che la guerra ha lasciato nell’animo del figlio dei protagonisti, quando
questi vivrà, durante gli anni Sessanta e Settanta del secolo scorso,
l’epopea di uno degli ultimi tentativi di rinascita spirituale e
collettiva che la nostra civiltà ha conosciuto, e non meno giustizia,
prudenza, fortezza e temperanza spero gli vengano in dono dal fatto di
aver contemplato le virtù che l’eroe dimostrerà di aver praticate.
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