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Un'altra vita.
Intervista a Paolo Ruffilli
Patrizia Garofalo
Lankelot.eu 31 maggio 2010
Paolo Ruffilli ha appena pubblicato per Fazi Un'altra vita, fascinosa raccolta di racconti. Sin qua, su Lankelot,
ne abbiamo potuto apprezzare due diverse recensioni, una a firma Nicola Vacca e
l'altra a firma
Patrizia Garofalo.
Veniamo adesso, grazie alla disponibilità dell'artista e alla sensibilità della
poetessa, a pubblicare un'intervista esclusiva. Buona lettura.
Nel testo avviene lo
sfaldarsi lento dell’apparato borghese, è intenzionale il tuo sottolinearlo
negli accadimenti dei racconti?
Sì, hai colto bene. Io sento
quello che sentiva Hermann Hesse e che così bene ha espresso nel “Lupo della
steppa”: insieme il fascino per certi aspetti della vita borghese e, nello
stesso tempo, l’orrore per altri aspetti della stessa vita borghese ormai in
decomposizione. Quello che poi, con altre parole, ha detto Roland Barthes in uno
dei capitoletti di “Barthes di Roland Barthes”: il desiderio di mantenere,
dentro una società più giusta e umana, “socialista”, il meglio della vita
borghese liberandosi del ciarpame, delle ipocrisie, degli egoismi e delle
violenze del perbenismo.
L’intelletto che immagina la realtà e la
trasforma ha spesso costituito nelle tue opere una paratia al dolore: potresti
dirmi se, in questo caso, sia un cedere il passo all’inconoscibile e imprevisto
accadere dei fatti?
Sì, anche se l’inconoscibile e
l’imprevisto sono in realtà tali solo per noi, per la nostra miopia. Perché non
vediamo al di là del nostro naso… Ma l’incontro, appunto imprevisto e
sconosciuto, è sempre l’appuntamento che noi prepariamo senza saperlo, spinti da
un istinto che ci porta a rilanciare la partita della vita.
Quanto rifluisce in “Un'altra vita” del
tuo approfondito studio sulla poesia metafisica inglese “la Musa Celeste” nel
tentativo di conciliazione degli opposti?
Tutto contribuisce a tutto, sia pure
dentro un quadro di cui ci sfuggono le forze in campo. Così, nel mio percorso,
tutto confluisce evidentemente verso la stessa direzione… la ricerca della “Musa
Celeste”, così come quella delle “Regole Celesti” del Tao e di tanti altri
affondi nella grande letteratura di tutti i tempi.
I personaggi dei racconti non hanno nome,
potrebbero essere tutti noi...
Volutamente senza nomi, perché sono tutte
facce di noi stessi, altrettanti alter ego, possibilità e occasioni per essere
uno dei tanti “sé” che popolano una personalità e una vita. A che scopo
chiamarli Paolo e Francesca, Dante e Beatrice… Ognuno si riconoscerà più
facilmente dentro la “figura” (in senso teatrale) e ci si infilerà dentro per agirla avendola fatta propria.
Le dediche fine-racconto ad artisti molto
importanti sono un modo di affidare i tuoi personaggi ad un’eternizzazione?
Non avevo pensato a tanto, no. Si trattava
per me di un atto di omaggio ogni volta a uno scrittore che ha contato e conta
per me, dentro lo spazio comune di una scelta di campo, il racconto, e per una
serie di riferimenti che legano il racconto a quello scrittore: un’idea, un
luogo, una situazione, un tratto stilistico… Naturalmente, avrei dovuto scrivere
un’infinità di altri racconti per esprimere l’adesione e il debito a una
moltitudine di altri grandi scrittori che costituiscono per me riferimenti
fondamentali.
C’è una sicura non casualità nella dedica
con la storia raccontata, mi sono venute in mente la vita e alcune opere di
ciascun autore citato, ad esempio l’amore travolgente di Tess fino al momento
della morte nei confronti del marito Raymond Carver, la ricerca del proprio
destino in Hermann Hesse, il sentimento del contrario in Pirandello,
l’anticlericalismo in Joyce, l’appagamento dei sensi in odori e tattilità in
Proust… È così?
Sì, è così. Ci sono le ragioni “esterne”
più evidenti, quali quelle che qui elenchi giustamente. Ma ci sono anche piccoli
e minimi dettagli, riconoscibili magari solo dai conoscitori al microscopio,
come una singola parola o un’espressione particolare o uno scatto mentale o un
passo musicale…
Emily Dickinson è sola e il
racconto-monologo è scritto in corsivo…
È in corsivo perché il racconto è
immaginato come una serie di lettere che “lei” scrive ad un “lui” che ama e da
cui non è riamata. È un racconto sugli amori forse più ricchi e preziosi, quelli
appunto a una sola direzione, non ricambiati. Il riferimento, nel dettaglio, non
è solo alle poesie della Dickinson ma alle sue pagine di prosa, ammesso che si
possa distinguere tra le une e le altre e certamente non si può.
In ogni racconto c’è una suddivisione in
brevi capitoli interni in cui si alternano sempre…lei/lui, lui/lei e via
proseguendo in un ritmo direi magico.
La suddivisione fissa in otto capitoletti
è la “forma chiusa” che ho scelto per essere più stimolato a dare il meglio di
me scrivendo. Il vincolo di una regola ferma, nel lavoro, ti obbliga a un corpo
a corpo che ti consente di produrre soluzioni altrimenti inarrivabili. È proprio
misurandoti con la legge che riesci a trasgredirla nel senso più significativo,
dal punto di vista della creatività.
I paesaggi rappresentano una realtà
funzionale allo stato d’animo che quindi rimane prioritario alla natura stessa?
Come dice una delle protagoniste, non si
sa mai se è il paesaggio che ti condiziona con le sue forze positive e negative
spingendoti a reagire come reagisci. O se, invece, non lo vivi e lo senti a
seconda di come sei dentro, cioè in relazione ai sentimenti e alle emozioni che
ti attraversano già. Bel problema! Io credo che le due azioni siano
contemporanee, in un incontro scontro che realizza ogni volta una soluzione
straordinaria e, per chi racconta, molto interessante. Fa parte del mistero di
quella colossale combinazione magica che è la vita.
Grazie di quest’amore totalizzante che
riempie l’anima per vivere ogni giorno la ricerca di noi, e grazie
dell’intervista.
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