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Se un biologo incontra la poesia

in: La Nazione, mercoledì 3 novembre 1993

Lui la chiama «l'incoronazione». Lasciando ironicamente immaginare che la prgsentazione delle sue Eretiche grida in Palazzo Vecchio possa concludersi con l'imposizione del lauro. Interverranno, alle 17,30 di oggi, personaggi illustri: un teologo (don Enrico Chiavacci), uno storico della letteratura (Mario Martelli), un filologo (Giancarlo Oli), uno scrittore (Vittorio Vettori). Al di là di ogni paradosso, per Veniero Scarselli è una sorta di consacrazione, è il segno che dopo anni di lavoro e di romitaggio le cose finalmente cominciano a muoversi.

Pur avendo scritto poesie fin da quando era bambino, per lungo tempo il principale campo d'interessi di Veniero Scarselli è stata la scienza. Dopo gli studi di biologia a Firenze, si è dedicato alla ricerca e all'insegnamento universitario a Milano. Intorno agli anni Settanta, la crisi: il poeta torna a Firenze e poi si ritira a fare il «contadino autarchico» in Casentino, a Pratovecchio, in una casa colonica con trentotto ettari di terreno attorno.

Perché questo cambiamento di rotta?

Non avevo trovato nella ricerca scientifica le risposte esistenziali che cercavo. Ero affascinato dal problema delle origini della materia vivente e cercavo quel quid per il quale la materia vivente vive e quella organica no. A un certo punto mi sono accorto che la scienza non mi dava più niente; allora mi sono ritirato sempre più nello scrivere, nella riflessione, soprattutto nella poesia, che nel frattempo avevo sviluppato stilisticamente. Ormai avevo deciso che cosa dovéva essere per me la poesia.

Che cosa è per lei la poesia?

È uno strumento di conoscenza, l'unico in nostro possesso capace di cogliere le relazioni nascoste tra le cose. Il suo fine ultimo non è il titillamento dei sentimenti, ma l'esplorazione della realtà, in noi o fuori di noi.

Quali sono stati i suoi maestri?

Mi sono nutrito, naturalmente, di Ungaretti e di Montale; e da ragazzo mi sono sbizzarrito sperimentando tutte le avanguardie. Ma i poeti che amo di più sono Leopardi e Dante: il primo per la visione sconsolata del mondo, il secondo per la straordinaria umanità, per il continuo desiderio di ascesa, per la sua poesia di pensiero. Sì, perché anche i concetti astratti, io penso, possono produrre emozione.

Il periodo del «contadino autarchico», caratterizzato dalla produzione in proprio di tutti i mezzi di sùssistenza («Tosavo le pecore, filavo la lana e mi facevo anche i calzerotti», racconta Scarselli), si interruppe bruscamente nell'83, troncato dal calcio d'un cavallo che ridusse lo scrittore in fin di vita, costringendolo poi a molti mesi d'ospedale, «Fui così deluso anche dalla vita campagnola, rivelatasi più pericolosa perfino di quella vita di città che avevo abbandonato perché poco salutare – racconta, sempre col solito velo d'ironia, lo scrittore –. Proprio io poi, che avevo un così fiducioso rapporto con gli animali... rimasi ferito nell'orgoglio e nell'onore».

La poesia ha così campo libero. Il primo «romanzo lirico», Isola e vele, esce nell'88 pubblicato da Foruml Quinta Generazione. Seguono a ruota, tutti pubblicati dalla Nuova Compagnia Editrice, Pavana per una madre defunta nel '90, Torbidi amorosi labirinti nel '91, la Priaposodomomachia nel '92 e infine quest'anno Eretiche grida, libro che sembra porsi nel solco fertile degli ideali evangelici, legato com'è al convincimento della «necessità cosmica dell'Amore universale».

Scarselli, lei è religioso?

Il problema religioso mi ha sempre attanagliato, ma non l'ho mai risolto. Degli studi scientifici, che pure ho ripudiato, mi è rimasta una certa influenza positivista, quasi meccanicistica. D'altra parte non riesco ad accettare che la vita si riduca a un fenomeno soltanto biologico: il metafisico fa capolino in ogni cosa. Vivo perciò una contraddizione lacerante: non sono credente, ma sento di avere un bisogno sfrenato di Dio.

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