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L'intervista a
Gualtiero De Santi Il cinema, Vittorio De
Sica, Cesare Zavattini e altro...
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D. Malle, Lumet, Lizzani, De Sica e altri registi nei suoi studi: nella
diversità, c’è – non è necessario che ci sia – un filo comune?
R. Come nel
titolo di un suo celebre poema intese ricordarci Mallarmé, “un coup de dés
jamais ne abolira le hasard”. Il caso domina la vita e fa i conti con le nostre
determinazioni e scelte. Nel decidere di lavorare in maniera approfondita su
alcuni registi cinematografici, la mia scelta è caduta su autori che in
apparenza non hanno espliciti elementi in comune. Il mio primo libro è stato
infatti sul francese Louis Malle; quando sono tornato a scrivere una monografia
su un autore cinematografico, mi sono indirizzato verso lo statunitense Sidney
Lumet. Il terzo cimento, dopo molti anni, ha riguardato il nostro Carlo Lizzani.
Poi Vittorio De Sica. Perché? Intanto devo ricordare che avevo già trattato
altri registi e tra questi molti di quelli che sono stati per me formativi (da
Visconti a Pasolini, da Ejzenstejin a Bergman a Dreyer). Allorché, interpellato
da Fernaldo Di Giammatteo, scomparso da poco e allora direttore della collana
“Il Castoro” per La Nuova Italia, gli sottoposi la mia terna, al primo posto
avevo collocato Cesare Zavattini, in sottordine Clouzot e Malle. Di Giammatteo
mi chiese cosa c’entrasse Zavattini (ma che c’entrasse era evidente, data la sua
qualità di autore letterario di tanti capolavori filmici, di ideatore
dell’essenza di quei film). Clouzot mi intrigava per i suoi grovigli
politico-esistenziali, Malle mi aveva invece attratto sin dalle sue prime opere.
Ma restava un autore tenuto ai margini rispetto agli altri della Nouvelle Vague,
così come, malgrado la loro perizia, erano marginali – o erano sentiti per tali
– Lumet e Lizzani. Ecco: il minimo comune denominatore di queste scelte fu alla
fine una idea di cinema e di proposte culturali che, eccentriche rispetto ai
film che stavano sulla cresta dell’onda, pure aiutavano a capire le rispettive
cinematografie. Lizzani ha infatti attraversato tutta la storia del cinema
italiano dal dopoguerra in poi; anche Malle e Lumet sono entrati a partire dagli
anni ’50 nel giro artistico dei loro rispettivi paesi, Francia e Stati Uniti. Ma
adesso che scrivo, mi viene in mente che appunto in quel decennio tutti e tre
esordirono con film che allora fecero molto sperare. Che sia questo che sotto
sotto ha agito nelle mie determinazioni?
D. E per De Sica, ultimo suo autore?
R.
Sono arrivato a lavorare in maniera approfondita sulla sua opera arrivandovi dal
pianeta Zavattini. Erano infatti anni che attendevo a studiare l’opera di Za, la
cinematografica come quella letteraria, che io considero preminente, come del
resto intendeva lo stesso grande sceneggiatore (il mio maggior contributo al
riguardo, anche in termini di quantità, è Ritratto di Zavattini scrittore).
Tutto era partito con una manifestazione a Reggio Emilia dedicata a Za, che
contemplava un libro di diversi saggi. A me venne chiesto di scrivere sul
fantastico in Zavattini. A Reggio poi conobbi il figlio di Za, Arturo, e ne
divenni amico: fu lui a fare il mio nome a Manuel De Sica perché entrassi nello
staff culturale dell’Associazione Amici di Vittorio De Sica.
D. Che cosa si
propone l’Associazione?
R. Compito dell’Associazione era e rimane il restauro
dei film. Ed è un restauro condotto sinora con esiti egregi. Accanto ai film
salvati (di questo si tratta, giacché senza un intervento restaurativo i film si
perdono), vengono realizzati dei volumi nei quali si raccolgono i testi di
sceneggiatura, il soggetto, accanto alle testimonianze storiche e a saggi
critici che affrontano i diversi argomenti da prospetti inediti e non
ripetitivi. In particolare, io ho curato insieme con Manuel i volumi dedicati a
Miracolo a Milano, a I bambini ci guardano, a Il tetto, a Lohengrin (un film del
’36 diretto da Nunzio Malasomma di cui De Sica era interprete con la Rissone e
Sergio Tofano). Negli ultimi mesi sono stati presentati a Napoli le copie
restaurate e congiuntamente i libri di Matrimonio all’italiana e Ieri oggi
domani. Sono pronti da anni i volumi su L’Oro di Napoli e Il giudizio
universale, ricchi di contributi. Ma per incredibile che sembri, non c’è stato
assenso per il restauro da parte degli attuali detentori dei diritti sui film
stessi. Il risultato attuale è che entrambi rischiano di essere perduti per
sempre. La battaglia per il rilancio di queste grandi opere e per il loro
restauro si accoppia così alla rivendicazione, sostenuta dagli eredi De Sica e
Rossellini, a ottenere che i familiari debbano poter essere determinanti nella
decisione di salvare il patrimonio artistico dei loro padri (che è anche
l’inalienabile patrimonio culturale della nostra cultura cinematografica e del
nostro paese).
D. Patrimonio… ossia il valore di questi registi nella cultura
cinematografica – e non solo – …
R. Certamente. De Sica, Rossellini e Za, come
del resto anche Visconti e Vittorini, anche Renato Guttuso o Alberto Moravia (ma
potrei aggiungere la Ortese e la Morante), appartengono a un periodo aureo della
nostra storia culturale e civile. Il neo-realismo è stato il punto di partenza
di una stagione creativa esemplare e esaltante arrivata sino agli anni ’80. Ma –
almeno nel cinema – è stato un punto di partenza ineguagliato. Si pensi a Roma
città aperta e Paisà, a Ladri di biciclette oppure a La terra trema: tutte opere
che hanno la pienezza e la grandezza dei testi di carattere universale. Non è
stato un momento di retroguardia, come molti continuano a credere, ma bensì
d’avanguardia: il tentativo di coniugare la lingua dell’arte con la lingua della
realtà; e il primo tassello di un’ idea e prassi della cultura in cui il singolo
testo, o film, o quadro, era importante perché forniva un contributo alla
decodificazione critica della nostra realtà. Il lavoro che sarebbe stato
condotto negli anni ’60 e ’70 da scrittori come Pasolini e Volponi, da un poeta
come Mario Luzi, da un regista come Antonioni, viene in fondo di lì. E lì, in
quel momento, si esalta l’opera di Cesare Zavattini, sempre protesa a guardare
in avanti e costantemente attenta a superare il vecchio, sempre all’avanguardia
(ma non in maniera tecnicista: Za non ha infatti nulla a che fare con il “Gruppo
63”).
D. E si torna a Zavattini, a Zavattini scrittore di storie realisticamente
fantasiose o fantasiosamente realistiche…
R. Nella figura di Zavattini in fondo
si riassume tutto. Io sono stato catturato dalla forza della sua inventiva e del
suo pensiero. In un convegno da me organizzato a Urbino, i cui atti attendono
ancora l’uscita – ma essi troveranno la via della pubblicazione –, ho titolato:
“Zavattini, la leggerezza del pensiero”. Non volevo dire che quel pensiero e
quelle idee fossero deboli e di incerta e lieve sostanza, quanto rimarcarne la
poeticità e insieme la straordinaria capacità di alludere al nuovo, di
riportarsi e riportarci a un confronto con la nostra coscienza e con la nostra
realtà. Rispetto alla mediocrità del presente artisti come Zavattini e De Sica,
come Pasolini e Visconti sono dei giganti. Forse lo sguardo che mi piace
riportare su loro nasconde la nostalgia di un’attesa di futuro – e una ricerca
di futuro – che le loro opere presupponevano. Naturalmente il mondo non è
finito. Continuare a pensare a quei film e a quei testi narrativi e lirici è in
fondo anche continuare a immaginare il futuro in una prospettiva non banale e
non insignificante. Il mondo dove buongiorno vuol dire davvero buongiorno deve
ancora venire. Forse non arriverà mai, ma non è per questo che siamo esentati
dal cercarlo e dal cercare di costruirlo.
Gualtiero De Santi
cenni biografici
Ordinario di Letterature Comparate all’Università “Carlo Bo” di Urbino.
Tiene anche gli insegnamenti di Letteratura Italiana al Corso di Lingue
Orientali della Facoltà di Lingue e di Metodologia e Analisi dello Spettacolo
al Corso di Scienze della Comunicazione della Facoltà di Sociologia. I suoi
interessi spaziano dalla letteratura al teatro alla storia del film, dalle
arti figurative alla critica letteraria alla filosofia, privilegiando in modo
più peculiare l’ambito della poesia, italiana e straniera, delle culture
straniere e del cinema. Tra i suoi libri: Sandro Penna (1982), Lo
spazio della dispersione (l988, sulla situazione della poesia dagli anni
Sessanta ai decenni successivi), L’Angelo della Storia (1988), I
sentieri della notte (1996, antologia sull’ultima generazione di poeti
italiani), Teresa de Jesús ed altri mistici. La scrittura interiore
(2002) e Ritratto di Zavattini scrittore (2002). Ha molto lavorato su
Pasolini [ha curato: Perché Pasolini (1978) e Il mistero della
parola. Capitoli critici sul teatro di Pier Paolo Pasolini (1995)], su
Leopardi (sta ultimando un ampio volume sul rapporto tra filosofia, poesia
e musica in L. per Milella di Lecce). Diversi i profili di registi: Louis
Malle (1977), Sidney Lumet (1987), Carlo Lizzani ( 2001) e
Vittorio De Sica (2003). (Degli altri studi su De Sica si parla
nell’intervista.) Dirige per Marsilio i “Nuovi Quaderni Reboriani”. Primi
titoli da lui curati: Le prose di Clemente Rebora (1999), La musica
in Leopardi nella lettura di Clemente Rebora (2001), Clemente Rebora e
i “maestri in ombra” (2002). Direttore de «Il Parlar franco», rivista di
cultura e poesia dialettale romagnola, è vicedirettore di «Pelagos» e
collaboratore fisso di testate cinematografiche, tra cui «Cineforum». Fa parte
della giuria del Premio Pascoli. Con un libro su Dario Bellezza ha vinto il
Premio Bellezza 2000 per la saggistica. Ha ottenuto il Premio De Sica 2004 per
la sua attività di storico del cinema.
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