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L’ Intervista a Bruno Bartoletti
La Nuova Tribuna Letteraria», 118/2015
Pasquale Matrone
Naufragio, memoria e resurrezione nel pensiero e
nei versi di Bruno Bartoletti
la poesia tra inquietudine, ricerca di
significato e speranza
Nato a Montetiffi, Bruno
Bartoletti, poeta, scrittore e saggista, vive a Sogliano al Rubicone. Laureatosi
nel 1967 a Genova con una tesi su Giovanni Pascoli, viene nominato nel 1973
assistente ordinario alla cattedra di Storia della letteratura italiana presso
l’Università di Torino, incarico a cui rinuncia per dedicarsi all’insegnamento
nelle scuole secondarie, dove, in seguito, svolgerà la funzione di preside. Si
iscrive nel novembre del 1977 all’Università d’Aix en Provence, per conseguire
il Dottorato di ricerca del terzo ciclo d’Etudes Romanes, con un saggio
intitolato Miti e simboli in Dino Campana.
Ha pubblicato le raccolte di
poesia: Trasparenze, Frammenti di memorie; Le radici; Parole di
ombre; Il tempo dell’attesa; Sparire in silenzio, ritrovando il
vento delle strade.
Sue recensioni sono apparse su
numerose riviste di settore. È inserito nel Dizionario ragionato degli
scrittori italiani del ‘900 a cura di R. Tommasi e nella Letteratura
italiana contemporanea a cura di N. Bonifazi e R. Tommasi. È membro di
numerose Accademia Nazionali e ha fondato e ha fondato, con l’omonimo Centro
Culturale, il premio nazionale di poesia ‘Agostino Venanzio Reali’ a Sogliano al
Rubicone. Gli sono stati assegnati numerosi riconoscimenti nazionali e
internazionali.
Partecipa a conferenze di
letteratura e a letture di testi poetici dell’otto-novecento.
A commento della sua ultima
raccolta, Bárberi Squarotti ha scritto: “… (le liriche) hanno l’andamento del
viaggio verso la tragica fine del tempo… Il discorso è ampio e grandioso. Ci
sono testi di rara bellezza…”
Bruno Bartoletti è poeta che
lascia il segno. Il suo è canto dell’esistenza, epopea del silenzio e dei
silenzi, musicale spartito della fenomenologia dello spirito, linguaggio
multiforme del vento e del divino, tepore terapeutico e salvifico di una memoria
consapevole del suo fatale scivolamento verso l’oblio. I versi sono intensi,
sconvolgenti…
Contattato telefonicamente,
Bartoletti si è lasciato intervistare per La Nuova Tribuna Letteraria.
‘La scrittura è figlia di
letture’. Lo ripete spesso, nel suo ultimo libro…
“È proprio così. Con gli anni la
mia passione per i libri si è fatta più forte e consapevole. Non mi basta mai il
tempo a disposizione. Coi libri si instaura un rapporto personale, intimo,
irripetibile, mai identico a se stesso. Chi riprende tra le mani un’opera già
letta, vi scopre dentro sempre qualcosa di nuovo… La maturità rende lo sguardo
più acuto, più adatto a rapportarsi con la sostanza del messaggio. Di recente,
ho letto I libri nella mia vita, un saggio di Hernry Miller. L’autore,
ormai al culmine della sua carriera, sente la necessità di realizzare un libro
sui libri che hanno fatto l’uomo e lo scrittore che è diventato… So quello che
dice. Ci sono opere che si dimenticano subito e altre che non smettiamo mai di
leggere. Per scrivere, poi, non basta la sola volontà di farlo, né risulta
efficace l’improvvisazione. Occorre, soprattutto, leggere”.
“Scrivere”, lei afferma,
“è un’impresa, che ogni volta da capo ricomincia”. Faticosa, dura, difficile. E,
tuttavia, si continua…
“Ho ‘rubato’ la frase alla
poesia Posta di Charles Bukowski. Si continua, con impegno febbrile,
diuturno, appassionato. Si va in cerca delle parole adatte a esprimere quanto si
è riusciti a cogliere dell’esistenza; di ciò che si ritiene possa servire a
raccontarsi, a mostrare di se stessi la dimensione non ancora svelata. A
motivarci sono: l’insoddisfazione; una sorta di senso d’inadeguatezza; la paura
di non essere stati capaci di portare a compimento nessuno dei nostri disegni;
la presa d’atto di avere tratto scarso profitto dagli studi effettuati, di
esserci lasciati ingannare dai dettagli, di aver perso di mira il traguardo, di
aver sprecato il nostro tempo, lasciandoci fuorviare dal particolare, dal
dubbio, dalle eccezioni”.
La sua, dunque, è poesia
dell’esistenza, dell’inquietudine, dell’attesa della parola adatta a dare forma
alla voce, al progetto di un canto idoneo a dire e a farsi capire…
“Proprio come le dicevo prima.
La mia non è la falsa modestia di chi recita la parte del poeta umile e schivo.
L’inquietudine è autentica. Ho troppo rispetto per la poesia e per le parole per
spargere con eccessiva disinvoltura inchiostro sui fogli bianchi. Il canto ha
bisogno di un linguaggio rigoroso, misurato, matematico, mirato, funzionale,
capace di distinguersi per altezza, timbro, intensità e tono. Una grande fatica,
dunque, se si vuole dare colore inconfondibile alla propria voce”.
Lei definisce la poesia
una sorta di follia, un’eterna navigazione che non conosce approdi…
“Una metafora presa in prestito
da Michel Focault, dalla sua Nave dei folli, il cui equipaggio insensato
si lascia trasportare sull’acqua, tra derisione, paura, incomprensione,
ebbrezza, incapacità d’individuare porti sicuri… Ma anche un mio preciso
riferimento al quadro di Hieronymus Bosch che riprende un tema ricorrente nella
seconda metà del quattrocento e che ha assonanze anche con Elogio della
follia di Erasmo nonché con l’opera satirica di Sebastian Brant”.
La poesia come follia,
dunque?
“Una follia necessaria,
terapeutica. Condivido il pensiero di Bernardo Soares. Scrive: ‘… la poesia è un
naufragio senza fine e, forse, alla fine, è anche resurrezione… Ha ragione.
Bisogna evitare di lasciarsi intrappolare dai paradigmi che si fermano alla
superficie e che facilmente vedono il pessimismo anche dove non c’è. Una lucida
visione delle cose, sia pure intrisa di amarezza, è, invece, stimolante. È
invito a scoprire la forza dell’esistenza; la libertà di agire, autentici e
vivi, nella storia; la voglia di farsi Verità e, quindi, frammento
incorruttibile di Bellezza”.
I suoi maestri?
“Comincio da coloro che mi hanno
formato, fornendomi gli strumenti adeguati per conoscere Dante, Petrarca,
Boccaccio, Tasso. Ho avuto il privilegio di essere allievo di Della Corte… Dopo
una iniziale esperienza all’università, ho optato per l’insegnamento nella
scuola secondaria. Per molti anni, infine, sono stato preside, alle prese con
una burocrazia che non mi ha consentito di occuparmi della ricerca come avrei
voluto. E, tuttavia, sia pure a fatica e rubando ore al riposo, ho esplorato
l’universo dei moderni e dei contemporanei. Tra gli altri: Keats, Dickinson,
Masters, Merini, Antonia Pozzi, Pessoa, Morselli, Sanguineti, Plath, Penna,
Luzi… Ho sempre operato a difesa e a sostegno della lettura, cercando di
contagiare coloro che incontravo nel mio cammino. Poco tempo fa, ho avuto la
gioia di verificare di persona di non avere lavorato a vuoto: una signora, dopo
avere assistito a una mia conferenza su Giovanni Pascoli, mi si è avvicinata…
Era un’ex allieva. Mi ha detto: ‘Lei mi ha riempito la casa di libri’. L’avevo
‘contagiata’. Non poteva farmi regalo più bello”.
Spesso, nei libri, lei
affronta il tema dell’incomunicabilità…
“Una malattia che da sempre
insidia la Storia. Oggi, tanto più pericolosa e sinistra. Le parole vengono
costantemente violate, ferite, snaturate, travisate. Un’operazione fruttuosa per
il potere che di esse si nutre. I poeti e quanti lavorano con le parole devono
farsi ‘guardiani’, ‘custodi’ e difensori del linguaggio, restituendogli senso e
vigore. L’incomunicabilità è frutto di ignoranza, di una carenza d’impegno, di
un approccio sempre più superficiale e irresponsabile alla comunicazione.
Dall’incomunicabilità alla violenza il passo è breve. Auden afferma: ‘Quando le
parole perdono significato, la forza fisica prende il sopravvento’”.
Che cosa pensa dei
readings poetici?
“Poeti che parlano ai poeti. A
quale scopo? La poesia deve smettere di essere autoreferenziale, elitaria,
destinata soltanto ai suoi reali o seducenti ‘sacerdoti’. Deve uscire dal chiuso
delle sterili e spesso bugiarde torri d’avorio abitate da coloro che a torto si
ritengono depositari del sacro fuoco… Deve, invece, farsi ascoltare da quanti
ancora non ne conoscono la funzione, i codici, il potenziale. Deve andare tra la
gente, misurarsi con la realtà, entrare nella vita come vita essa stessa. Deve
stimolare, coinvolgere, svegliare, denunziare, annunziare”.
Un messaggio per le nuove
generazioni?
“Ai giovani voglio ricordare che
la poesia è ascolto, silenzio, inquietudine, ricerca costante della Verità e
della Bellezza. Che, proprio per questo, essa è anche speranza. Speranza. Che
non è vocabolo astratto, velleità, utopia. È, invece, voglia di non arrendersi;
di battersi per restituire la mondo la sua dignità; desiderio di crescere, di
esplorare l’universo della parola scritta, di individuare in essa gli strumenti
utili a costruirsi una bussola adatta a dare all’umano viaggio direzione,
significato e valore”
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