| |
«...Lo stupore del biologo di fronte alla realtà...»
in: Uomini e libri, nr. 128/1990
Di Veniero Scarselli, libero docente di fisiologia generale,
La Nuova Compagnia Editrice ha pubblicato la raccolta di versi dal titolo Pavana
per una madre defunta, un libro anticonformista giudicato dalla critica una
rivelazione. Pubblichiamo le risposte dell'Autore alle nostre domande.
La Sua poesia è improntata a una concezione pessimistica,
o megiro drammatica, della condizione umana. I suoi studi di biologia ovvero
relativi alla Sua attività di docente universitario, hanno ovuto qualche
influenza sul Suo modo di concepire il destino umano?
Certamente. Una formazione mentale di tipo
scientifico/naturalistico crea senza dubbio l'abitudine ad osservare
spietatamente il mondo nella sua cruda e spesso sgradevole realtà, senza
l'edulcorazione delle lenti colorate da metafisiche illusioni. La poesia è lo
stupore del biologo davanti a questa realtà, che egli osserva forse più
consapevolmente di altri. Perciò non può non essere emotivamente coinvolto, ad
esempio, dal fatto che ogni organismo si mostri, ora come un buffo sacco pieno
di cibo, visceri ed escrementi, ora come uno straordinario involucro caldo che
lotta in mezzo al freddo universo; non può non apparirgli orribile, che tutto
il mondo sia un carnaio sanguinolento di animali che si masticano l'un l'altro
per vivere; non può non sembrargli assurdamente autolesionista. che la natura
abbia escogitato per la femmina il triste dono del « partorire con dolore »;
non può non rivoltarsi contro la realtà della morte che punisce così
crudelmente il singolo individuo per favorire invece la specie, entità astratta
che non lo riguarda e che nemmeno si sa dove vada. E si potrebbe continuare
ancora per molto. Tutte queste possono sembrare ovvietà all'uomo della strada
tutto impegnato a vivere, ma all'occhio del biologo non può sfuggire che
simili ovvietà certo non testimoniano un disegno né giusto né sapiente
dell'universo, ma parlano, al contrario, di un terribile disordine e
casualità. Questo non significa, si badi bene, che il biologo non senta dentro
di sé l'urgenza innata di credere in verità metafisiche; succede solo che a lui
resta più difficile abbandonarvisi ciecamente.
Ma poi c'è anche il bagaglio nozionistico proprio del
biologo, che certamente induce a leggere i collegamenti più sotterranei tra i
fenomeni, legami che possono non essere sempre immediatamente accessibili ai
profani anche perché vengono rimossi o camuffati a causa della loro
sgradevolezza; e che è compito del poeta/biologo di evidenziare, con tutti i
loro coinvolgimenti emozionali. Insomma il mondo, sballato com'è, non l'ha fatto
il povero biologo; chi vuole continuare a illudersi che sia bellissimo e
perfettissimo, si accomodi pure.
Cosa è stata ed è per Lei la poesia? Che cosa essa
rappresenta per un cultore di discipline scientifiche?
Innanzitutto devo dire che una forma implacabile di
rigetto mi ha fatto cessare di essere cultore di discipline scientifiche e mi
ha spinto al ritiro su di un monte per coltivare nel silenzio la riflessione
poetica, quella che avevo fra l'altro sempre coltivato da ragazzo e che
un'umanistica sete di verità mi aveva indotto ad abbandonare per illusori studi
scientifici: ero affascinato dal segreto della materia vivente e credevo che
quegli studi mi ci avrebbero almeno avvicinato. Più tardi ho realizzato che le
risposte agli interrogativi dell'esistenza, se pure ci sono, non possono
giungere dalla sterile ricerca scientifica specialistica. Non può esservi alcun
umanesimo nella scienza di oggi. A causa dell'enorme dilatazione del sapere,
ogni scienziato che faccia ricerca sperimentale attiva vive il confinamento nel
suo strettissimo campo specialistico come una prigione. Solo pochi grandissimi,
arrivati vecchi e saggi all'apice della carriera e della notorietà, possono
permettersi di dedicarsi alle sintesi interdisciplinari e alla speculazione
filosofica. Al comune mortale scienziato non resta che adattarsi, rinunciando
letteralmente alle sue prerogative di essere umano e continuando il tran tran di
una ricerca senza luce; oppure uscirne come ho fatto io, anche a costo di una «
morte civile », per poter respirare a pieni polmoni un umanesimo totale. È solo
dalla poesia, che si può sperare d'essere saziati: essa è l'unica arma in
possesso dell'uomo, capace di perforare in qualche modo il muro
dell'inconoscibile. Essa fornisce, naturalmente, rappresentazioni del mondo
soltanto probabili, perché intuitive. Ma è una forma di conoscenza primaria,
che si situa ai confini con quella logico/scientifica, che è destinata almeno
programmaticamente a fornire certezze. In teoria sarebbe anche suscettibile di
essere da questa, in uno stadio successivo, sviluppata e completata; ma in pratica è autonoma, si nutre di immagini
sensoriali, per loro natura sempre agganciate al « particolare » corposamente
materiale per quanto si sforzi di rappresentare l'astratto. Proprio in
quest'opera la poesia è meritoriamente ineguagliabile, essendo l'unica
possibilità che ha la mente di rappresentarsi finitamente. cioè con strumenti
accessibili, l'infinito. Essa è dunque un potente mezzo di ricerca del Vero,
forse dell'unico Vero accessibile all'uomo, la verità poetica, che è una verità
fantasmatica, emozionale. Ecco, perché sono ritornato alla « ricerca poetica »
dopo il fallimento della ricerca scientifica; questa esperienza ha lasciato
certo tracce profondissime nel mio immaginario, ma non è stata capace di
svelarmi alcun segreto della vita; ora è solo il silenzio del mio eremo, che
può forse farmi crescere dentro almeno la speranza di Dio, che la scienza aveva
ucciso. Fare poesia significa in fondo lasciarsi penetrare dalla speranza di
Dio, dalla speranza di una Verità che sai di non poter mai raggiungere con ia
ragione, ma che puoi forse contemplare con la «mente poetica».
Per eliminare comunque ogni equivoco, dirò che per me
l'espressione ricerca poetica » non significa la sperimentazione verbale
cosiddetta d'avanguardia, cioè lo sterile vaniloquio da cui mi sento estraneo e
lontano, ma la ricerca di una verità poetica trascendente, nel senso che ho
appena illustrato. In questo senso, vorrei – per terminare – abbandonarmi a una
speranza oggi sempre più sentita: che la figura del poeta possa riguadagnarsi
la dignità estinta del « vate », con l'aura di saggezza, veggenza, autorità
morale che promanava da quegli uomini retti e liberi dell'antichità. E un sogno?
A che sta lavorando attualmente?
A un romanzo in versi, una storia d'amore e morte (sono
sempre i grandi temi ad attrarmi), una specie di tragedia della lussuria,
molto trasgressiva, raccontata in prima persona.
| |
 |
rubrica |
|