Maria Grazia Lenisa
da: Punto di Vista, n. 30/2001, p. 265
All'inseguimento della fantasia
a volo d'uccello
Nessun modo di trattare della fantasia è credibile
se non, a sua volta, fantasioso. L’arte (la poesia), per esempio, può essere
intesa come un tentativo di catturarla che sfugge sempre al di là del limite,
perché se dovessimo circoscriverla, non sarebbe più tale né tantomeno
potremmo prenderci il gusto di fare letteratura o arte. Definire la fantasia è
ucciderla ma questo non è possibile perché essa sfugge miracolosamente alle
nostre analisi: è un qualcosa a cui tendere e dalla quale lasciarsi prendere.
Non siamo noi infatti che possediamo la dimensione
fantastica ma direi piuttosto che ne siamo catturati anche – e soprattutto –
piacevolmente. Vedi il caso di quella forma d’arte non codificata che è, per
esempio, l’amore. Accade che ci si innamori e tanto non può essere
programmato. Almeno fenomenologicamente possiamo dire che opera la fantasia che
si configura dunque come quell’indefinibile dal quale siamo presi.
La fantasia corrisponde al mito, alla “fabula”
se si pensa al mondo degli animali di Esopo e Fedro nella ricerca di una morale
(fabula docet). Vi è allora il tentativo di pervenire ad un ordine
etico-sociale.
La risorsa del fantastico è presente nelle satire
fino a confinare o confluire nel magico.
Fantasia è invenzione di nuovi termini come ad
esempio riscontriamo in Lucrezio nel De rerum natura in relazione al
linguaggio filosofico nella lingua latina. Fantasia è invenzione di una realtà
metamorfica come nel caso di Ovidio, è ancora l’itinerario dalla caducità al
perenne attraverso una pluralità di stili ed invenzioni dentro e fuori quella
lingua che ancora non c’era (Dante).
L’Umanesimo tra visione laica e fedeltà ai
classici riscopre l’arduo rapporto fra misura ed ordine e l’elemento
fantastico (Madonna Laura e Angelica).
Dalla foresta, luogo di perdizione, si passa al
labirinto incantato come trionfo e gioia degli elementi fantastici.
Il barocco, età della fantasia, esplode nella
meraviglia, nella sorpresa, nell’invenzione e nel concettismo. Di nuovo, mito
e fantasia si affacciano nei “bestioni” vichiani.
Nasce nel settecento lo studio dell’uomo che non
può non fare i conti con l’elemento fantastico.
Prevale la fantasia sulla ragione nell’ottica
romantica, mediata dal sentimento e le zone buie del macabro, dell’orrido sono
eversione di troppa misura classica, sfiorante il conformismo.
La fantasia, rivelata attraverso “i luoghi”
dell’inconscio, sfugge alle maglie della rete dello psicanalista nel senso del
come essere nevrotici e contenti (La coscienza di Zeno) oppure critici ma
infinitamente sconsolati nel proprio lucido umorismo (Pirandello).
L’enigma dell’ultimo Pirandello, ne I
giganti della montagna, è sempre oggetto dell’attenzione dei critici. La
fantasia non ha solo un volto rassicurante ma svela le ansie e le angosce
dell’uomo, rovesciandole, mettendo in evidenza una realtà raddoppiata.
La fantasia si realizzerà tra futurismo e
avanguardia nel ricorso all’elemento fantastico in relazione all’uso di un
lessico insolito o addirittura di fonemi ed artifizi retorici quali le
onomatopee, bizzarramente ricorrentisi. Tuttavia è un ricorso che solo
fintamente appare disordinato, in realtà è alla ricerca di un ordine
alternativo. Quindi si potrà dire che la fantasia è al servizio della migliore
espressione di una certa rappresentazione o che tenta di sovvertire tale ordine.
La fantasia, se ben si pensa, è l’autentico
oggetto della relazione che c’è nel correlativo oggettivo, mentre la realtà
appare quasi svuotata (la carrucola montaliana) di ogni significato che
viene attribuito ad un ordine che si intrecci e si sovrapponga al reale stesso,
dimostrandosi in molti casi alternativo e più corrente. L’oggetto è visto al
di fuori della banalità ed il quotidiano è rovesciato nell’eccezionalità
degli attimi.
La ricerca di significato quindi non può che
ricorrere alla fantasia, spesso camuffata dietro una sorta di raziocinante
coerenza ma nell’implicazione di un inventivo sovrasenso.
Nella civiltà dell’immagine contemporanea il
ruolo della fantasia non si può intravedere, limitandosi ad analizzare le
parole, anzi assistiamo alla loro sistematica inflazione con conseguente perdita
del loro potenziale fantastico. La parola davanti all’immagine sembra essere
impotente ad evocare, allora non resta che chiedersi se l’immagine, a sua
volta, sappia veramente rendere un po’ giustizia alla fantasia o piuttosto non
tenti di ingabbiarla, producendo pseudo prodotti fantastici, abili “collage”
di vecchio e nuovo. In questo caso dunque la parola ha un nuovo compito: quello
di denunciare l’inganno dell’immagine, recuperando l’esile filo di Arianna
che la tiene unita alla fantasia, sempre libera e sfuggente, maestra di tecniche
e mai subordinata ad esse.
Il secondo novecento è stato proprio schiavo di
una poesia svilita e di un’immagine trionfante.
Infatti non conta scrivere bene, se non c’è
altro: importa paradossalmente ancora “la perfezione” dell’errore.
Con Blaise Pascal conveniamo energicamente, a
bollare una situazione a tutti i livelli (politica, critica) che “Incapaci di
far forte ciò che è giusto, abbiamo fatto giusto ciò che è forte”.
E se, come dice, certo
ironicamente Bárberi Squarotti, in un’intervista, oggi abbiamo “trecento
grandi poeti”, è chiaro che siamo nella omologazione della bella scrittura e
che i parametri della grandezza debbono per forza mutare, dal momento che quasi
tutti scrivono.
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