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Sincretismo e visionarietà
nell’
Alessandria di Maria Grazia Lenisa

di Sandro Allegrini

Per una di quelle coincidenze che fanno combinare gli accadimenti con l’esigenza tutta umana di storicizzare personaggi, periodi e circostanze, l’anno 322 a.Cr. segna la morte di due geni, Demostene e Aristotele, massimi esponenti della grecità classica nel campo dell’eloquenza e della filosofia.

L’anno precedente, il 323, aveva fatto registrare la precoce scomparsa di Alessandro Magno (“educato” da Aristotele), che si era fortemente impegnato per un processo di espansione e di integrazione del sapere, operando per il raggiungimento di una koinè linguistica e culturale. Stranamente, questo periodo post classico, che segue il regno del sovrano, e non la stagione a lui coeva, prende il nome di età ellenistica, da un errore dello storico tedesco Johann Gustav Droysen che, nella sua "Storia dell’Ellenismo", intese indicare con tale nome la tendenza dei Greci ad integrarsi con elementi di civiltà e di costume orientale. Più correttamente questo periodo andrebbe chiamato alessandrino, tanto per l’impulso segnato dall’opera del sovrano macedone, quanto per l’importanza dei nuovi centri culturali da lui fondati, tra i quali spicca, in Egitto, la città di Alessandria, con la sua enorme Biblioteca di oltre settecentomila volumi.

"Alla Nuova Biblioteca di Alessandria d’Egitto, ponte di cultura tra Oriente ed Occidente" costituisce l’epigrafe al nuovo libro di Maria Grazia Lenisa, intitolato L’Ombelico d’oro. In quest’opera l’autrice, alla ricerca fondante di un nuovo sincretismo - che non è solo culturale, ma anche fantastico, intertestuale, interdisciplinare - si presenta al lettore con significative innovazioni ed invenzioni, senza però venir meno alla propria cifra poetica ed immaginativa, anzi, volgendola a nuove e più ardite sperimentazioni.

In nome di questo atteggiamento imprevedibilmente inventivo si apre la raccolta, che si pone a metà strada tra “Le Mille e una notte” e il Videogioco, in un rutilante bailamme di personaggi e folli situazioni che intrigano e stordiscono, con salti cronologici e spaziali assolutamente spiazzanti (una composizione, con brillante calembour, s’intitola "Le mille e una botta"). [Il riferimento non è casuale, ma legittimato da alcuni espliciti richiami allo splendido testo arabo, la cui redazione definitiva fu curata proprio in Egitto, intorno al XV secolo. In "Giochi apollinei", dopo aver accennato al mito di Dafne, Apollo invita a scegliere la trasformazione nella forma voluta (“ – Scegli la forma allora – esorta – maliziosa mente”); alla battuta fatta “con mente maliziosa”, si risponde di preferire la forma dell’elefante che porti in groppa le Muse per Alessandria: “Un elefante, ecco | da “Mille e una notte”…”].

Anche la titolazione è “narrativa”, didascalica, descrittiva, come se un immaginario “cantastorie”, sgomitolando il filo di tante storie, ci presentasse i “quadri” di una vicenda romanzata, che parte dalla realtà, ma se ne distacca per attingere i territori della meraviglia. Alessandria, infatti, finisce col perdere i propri connotati “storici”, per farsi “luogo dell’anima”, al di là di ogni limite spazio-temporale, assurgendo a valore di simbolo, poiché certe idee solo simbolicamente si possono comunicare (ha scritto Oscar Wilde: “L’arte è un simbolo, perché l’uomo è un simbolo”). Il primo fine dell’Autrice è quello di “bandire l’ovvietà”, ben sapendo che questa scelta costa qualche dissenso (ma potrebbe anche trattarsi di “fischi all’americana”, volti a manifestare consenso): “Fischiano | gli dèi al mio gioco di verso, penso ciò che penso | fuori norma. Al bando l’ovvio…”(Lieve come un sugaro). E qui c’è ancora la poetessa provocatrice, che impronta il proprio poetare al divergente, avendo in uggia l’ovvietà, evitando le trappole dello scontato: il suo è un gioco “di verso”, ma anche, e consapevolmente, “diverso”.

Il libro presenta un inconsueto taglio “narrativo”, anche se con ricercati strappi e volute discontinuità. La composizione d’apertura (Una parete di vetro divide dalla città di Alessandria) ci permette l’ingresso nella folle città, tramite un espediente per cui l’Artista si presenta come un cyborg, un androide (rispettando le “Leggi della Robotica” di Asimov, prima fra tutte quella di “non nuocere”). Basta premerne l’ombelico, una specie di telecomando, perché si rompa un metaforico imene, si spezzi il diaframma costituito da una “parete di vetro” e la luna, come un megaschermo, produca immagini stupefacenti, offrendo allo sconcertato lettore un viaggio senza limiti nella realtà virtuale (costruita con la magia suggestiva della parola, dunque più bella e allettante di quella oggi proposta nella variante formalizzata dal linguaggio binario, che si avvale degli strumenti e della tecnologia informatica). D’altra parte, la figura dell’androide (“forse il gioco | di un’Alessandria che non muore mai”), trasmutata in simbolo di eternità e assenza di dolore, ricorre più volte, come in Lo scandalo. Questa “vita inodore, sotto vuoto” “offende” l’umanità sofferente della poetessa ed è opera diabolica o errore tutto umano, nella sciocca presunzione di poter contrastare le regole divine o naturali, poiché si tratta di esseri “…creati dal calcolo di una vita | che rifiuta la morte”. Ma in Alessandria c’è anche il massimo della tolleranza e l’accettazione del bello in qualunque forma esso si proponga. Così l’“androide biondo” (L’androide e il suo unicorno) porta al guinzaglio, come replicante, “l’unicorno bianchissimo” e i giovani della città li guardano incantati: anzi “…qualcuno studia come | innamorarsene senza quel vecchio | senti-mento umano” (la divisione della parola allude forse al rapporto sentire/mentire, tipico di sentimenti falsi o affettati, segno di un’umanità corrotta e degradata). Forse, come l’unicorno, creatura mitologica dalle virtù miracolose, l’intera città di Alessandria è un replicante, o forse non è mai esistita o, ancora, è solo un’astrazione, una proiezione inconscia di pulsioni e desideri.

L’ombelico d’oro del cyborg Lenisa è, allusivamente, la presa di contatto con la preziosa forza vitale della poesia che, se sollecitata, ci ricorda l’intenso legame esistente tra la realtà fenomenica e la sua trasfigurazione fantastica, il richiamo ossimorico tra l’aridità del materiale e il vitale nutrimento dello spirito. L’ombelico è pertanto il fulcro delle nostre segrete risorse, l’accesso alle potenzialità misteriose della fantasia. E la poetessa, che “da tempo” abita in Alessandria, viene “tramandata” dai libri dell’enorme biblioteca, all’insegna del poetare di qualità (“…gettiamo spesso i versacci | che casualmente giungono…”) e gode quando “Ride il ragazzo verde | e m’inventa uomo”, a riprova del superamento delle tradizionali distinzioni di sesso, in un mondo in cui tutto è relativo, in cui un gioioso erotismo pansessuale sembra prescindere da codificate identità. Nel caravanserraglio di Alessandria è possibile trovare la pace di un attimo o quella eterna: “…bene e male sono papaveri | e cicuta a seconda che vuoi dimenticare | un attimo | o per sempre.”. E Lenisa conosce bene l’“arte di dimenticare”, se è vero che Arlesti - Ars Leti, anagrammando - è il suo primitivo cognome, “meraviglioso dono” dell’ufficiale d’anagrafe Vasco (“Ogni cognome estraneo meno | quello che m’inventò Vasco…”), richiamato anche in Mi dichiaro alessandrina.

La poetessa s’inventa “…ragazzo alto dal petto glabro… | più bello d’una donna, | asciutto, tavola piallata nell’odore di riccioli | di legno”, quasi a ricordarci l’artigianalità dell’artista, falegname e poietès, comunque “creatore”. Ed è bello usare il corpo “come chitarra | o flauto”, perché la sua musica è perfezione, l’amore e il sesso essendo nient’altro che esaltazione dell’atto creativo, religiosità “pura”, spogliata di qualsiasi moralistica e ipocrita sovrastruttura (Alessandria…sono in pochi a vederla e non c’è permesso di soggiorno).

In Alessandria, l’ultimo uomo e l’ultima donna “egualmente casti, | a volte in lunghe tuniche o nudi come ginnasti” giocano all’inversione dei ruoli, sapendo che la vera auspicabile nudità è quella dell’anima e che unico appiglio per sfuggire alla morte e al dolore è la poesia (“Scriviamo poesia per curare il male”), la sola che consenta di “risorgere” e vivere per sempre, tramandata dalla memoria sempiterna dei volumi della Biblioteca (Ad Alessandria i superstiti scrivono poesie e suonano…). [In questo sta anche l’alessandrinismo dell’opera, traguardata sul versante dell’innovazione del gusto letterario: non più gli ideali scontati, gli stilemi tipici della poesia formale della tradizione - rigidamente “normata” e dunque “omologata” - ma le minute storie individuali, narrate in modo originale e un po’ folle, vissute in una dimensione anticonvenzionale, liberi da norme accettate e condivise, in una prospettiva insieme realistica e fantasiosa, all’insegna dell’anticonformismo.]. Ad un certo punto si rappresenta il grande incendio che mandò distrutti i volumi della Biblioteca. Ma Lenisa s’inventa un poetico artificio che consente la sopravvivenza delle opere di valore (“Bruciano i cavilli, le storie di poetica, | restano i titoli importanti. | L’uccello lettore | col becco prende i testi senza strapparli, | traduce nel suo canto il suono d’infinite | lingue.” Così può ascoltare un frammento sconosciuto di Saffo, poetessa greca della purezza e dell’ambiguità, che ha cantato soprattutto l’amore nei suoi infiniti registri (L’uccello lettore).

La mitica Biblioteca è sempre lì - allegoria di rinascita e di eternità, monumento/simbolo di esaltazione della conoscenza - e ne vengono nominati i responsabili: Callimaco e Apollonio Rodio. È certamente il primo ad essere più vicino alla sensibilità della poetessa, specialmente in riferimento alla Lide, in cui le scene mitologiche muovono sempre da situazioni erotiche reali. Questa analogia non meraviglia, se si pensa alla produzione erotica della Lenisa, tanto per limitarci ai contenuti, ma anche allo stile callimacheo, prezioso e raffinato, frutto di una tecnica consumata e di un gusto debordante e fastoso. Di Callimaco si citano dei versi, interpolati con corsivi personali di taglio ironico (Anche Costantino non resistette a tradurre alcuni versetti di Callimaco). Anche il suicidio di Cleombroto ha un che di paradossale (“E gridando: “Addio Sole”, Cleombroto | di Ambracia si gettò dall’alta muraglia… | di sotto. Non per un male incurabile, | per aver letto uno scritto solo di Platone | sull’Anima.”), in quanto il fatto viene presentato come frutto di un limite, come carenza di conoscenza (dall’incultura, si sa, si genera ogni male!); infatti Lenisa chiosa ironicamente Letti tutti, si sarebbe salvato.

La poetessa, sempre in ordine alla Biblioteca alessandrina, ma anche con riferimento alle divergenze personali e letterarie tra i due, ci presenta il contrasto tra Callimaco e Apollonio Rodio (poco importa che il Papiro d’Ossirinco 1241, che tramanda i nomi dei “prefetti” della biblioteca d’Alessandria, chiarisca definitivamente che fu solo Apollonio, non Callimaco, a rivestire tale carica). Ma si sa per certo che Callimaco passò buona parte della propria vita a raccogliere materiale e a scrivere all’interno della biblioteca, coltivando la “musa tenue” (“Aitia”, Prologo, v. 24) e giungendo a disprezzare il poema “ciclico” Le Argonautiche, dell’ex allievo e rivale, che si ritirò sdegnosamente a Rodi. Di questo contrasto si alimenta la composizione Scrisse ottocento libri ma non si può dire che non abbia vissuto e continui a vivere…in cui Callimaco viene presentato come “topo” di biblioteca, “Amico dell’uccello di Alessandria di becco fino | pronto al suo comando”, mentre “se la spassa” a passare da un libro all’altro ed è straordinariamente prolifico, se non altro per far invidia al rivale: “Da qui comprendi quella sua tenacia | di scrivere soltanto e, mai, per altro, che giungesse | il messaggio | ad Apollonio e al Colosso di Rodi”.

Il poeta delle Argonautiche è vittima di una beffarda allucinazione in Apparve ad Apollonio Rodio, casualmente solo nel pensionato delle Muse o Museo di Alessandria, una donna nuda dalla cintola in giù, ove si gioca per opposizione col noto emistichio dantesco. Apollonio viene rappresentato inebetito (“Di molti tomi finalmente sazio vedeva nudo | in dubbio se la pagina fosse divina passerella | di corpi”) e incerto, davanti ad una provocante e seminuda Poesia, “lettrice fidata di rime baciate” (si colga il doppio senso puttanesco e procace), venuta in Alessandria per studiare un doppio settenario o alessandrino di Cielo d’Alcamo. La Poesia lo provoca e lo irride ed egli, perplesso, sorride. Anche qui le discrasie spazio-temporali, i doppi sensi, le analogie, i riferimenti storici si sovrappongono e s’intrecciano in modo intellettualmente stimolante e ci fanno apprezzare la creatività lenisiana, che procede senza freni, in una continua pro-vocazione ( che chiama in causa, coinvolge, obbliga a uscire allo scoperto) nei confronti del lettore, il quale ne viene imbrigliato e stupito, completamente abbacinato da una fantasmagoria di situazioni e discronie. Anche agli stranieri è possibile conseguire la cittadinanza onoraria, purché siano cultori della Poesia. Ma quale poesia? La caratteristica primaria deve essere il canto d’amore, con una speciale predilezione per “Madonna Ironia”, con qualche tendenza all’Allegoria. La poesia è come una ragazza (di Arthur?) che si riflette “in specchi infiniti”, tanti quante sono le opere degli scrittori, ma soprattutto “…qui è chiamata | soltanto Poesia astratta… | mente - s’intende - nuda”. Dunque la poesia, che si produce solo quando la nostra mente è “astratta”, ovvero si libra sopra l’arida realtà, è “nuda” come la Verità, perché rifiuta le sovrastrutture e l’insincerità (Gli fu concessa, eccezionalmente, la cittadinanza alessandrina onoraria per meriti musaici).

In Alessandria esiste una comunità letteraria nella quale vigono le regole dell’ironia e della trasgressione: spesso le opere vengono viste in una prospettiva “rovesciata”, all’insegna del divertissement. Così è piacevole leggere l’Odissea mettendosi dalla parte dei Proci, che hanno almeno una visione edonistica dell’esistenza (“mangiano, bevono | a sbafo e tendono l’arco”) e ritengono una vera fortuna “la tela fatta e rifatta”. Il povero Ulisse, indesiderato redivivo, “andò a morire nell’isola come Garibaldi”: termine del viaggio, fine dell’avventura! (Costantino ci lesse qualche passo dell’Odissea e scoppiò a ridere). L’ironia permea tanto intimamente il libro - che pure è estremamente colto e intriso di citazioni letterarie - da comparire perfino nelle note, come in E finalmente Casanova ebbe pace grazie all’intervento di Asclepio, non con lo scopo di confondere il lettore, ma per divertirlo e lanciargli delle complici strizzatine d’occhio. La nota: “Sembra che Venere Murtea sia lontana parente di Cibele in base alle ultime ricerche di studiosi inesistenti” è talmente spassosa che, per renderla di comicità veramente irresistibile, manca solo l’aggettivo “statunitensi”, riferito a studiosi.

I personaggi della storia e della letteratura sono amenamente sbeffeggiati, o costituiscono puro pretesto per una riflessione sulla vita e sulla poesia. Petronio Arbitro “ignavo e calmo si taglia le vene”, per mostrare il proprio suicidio a un “gruppo di studio”, si chiude le ferite “con bende odorose” e poi “riapre le vene, vede scorrere icore”, ovvero scorge uscire col sangue, dal suo corpo, la divinità che è in noi. “Rimane così senza sangue…| con le vene vuote più lieve è il corpo | riempito di sogni”, come dire che la nostra “fisicità” ci è d’impaccio per il raggiungimento della verità o che, comunque, la nostra mente è più libera, se sgombra dal timore della morte, non temuta, ma addirittura auspicata come mezzo di elevazione (La visione di storia). Lo stesso Catullo viene presentato come un “pivello”, troppo attaccato alla sua sensuale Lesbia, tanto che gli è sfuggita l’autentica identità sessuale della sua amata (Ma Catullo era davvero un pivello a non accorgersi che Lesbia era un uomo), a proposito della quale si parla con troppa insistenza di “uccello”, sia che se ne celebri il “divertimento”, sia che si canti con toni accorati l’epicedio del “passero”. Venendo a più attuali riflessioni, si pone brillantemente in discussione la corrente maschilistica opinione (ma anche alcune femmine ne sono schiave, per conformismo o stupida autoconvinzione) secondo la quale la donna “in età” è semplicemente vecchia, mentre l’uomo guadagnerebbe con gli anni in fascino e seduzione: “Qui si discute in materia di sesso: è vecchia | la donna vecchia | ma l’uomo interessa, è sofferto legno scavato, | memorabile quercia”. Meglio, dunque, inventarsi, anche se solo a livello poetico, un divertente cambiamento di sesso, che tenda a rovesciare le convinzioni consolidate. E la conclusione è insieme amara e ironica: “Abbiamo il vizio d’essere oziosamente colti”, vale a dire che siamo legati ad una visione della cultura stereotipata e ripetitiva, senza l’iniziativa ardita di “rileggere” in modo critico le tradizionali fonti e categorie del sapere. E, parlando di passero, è ovvio pensare al grande recanatese che in Incastri alessandrini viene presentato come omosessuale (secondo un’intuizione di Dario Bellezza), “per via delle nerine inventate”.

Tanto, in Alessandria, di sesso si parla, ma sembra che se ne faccia piuttosto poco, se perfino “Il corpo delle Muse | nudo non ha aperture, | liscio il sesso senza taglio, le nari chiuse” (L’arrivo delle Muse), quasi che aperture e orifizi appartenessero ad una dimensione inferiore e sia giusto preferire il sesso immaginato, a quello realmente “praticato” (ma non è forse così?). Anche la visione consumistica e “patinata” del sesso è contrastata da Lenisa con divertita ironia, come in La soffocò con le poesie tanto da essere il ricordo del suo unico amore mai consumato (ecco ancora il sesso “solo pensato”). Qui s’ironizza sulla civiltà che combatte la cellulite, rimpiangendo un periodo, quello “dei lumi”, che non è l’Illuminismo, ma il periodo della mancanza di luce elettrica, per dire il buon tempo antico, quello dell’autenticità: “Accadde nella civiltà dei consumi, opposta certo | al secolo dei lumi | a petrolio, s’intende, quando i nudi sono soavi | con la cellulite”.

In Alessandria la “diversità” è ammessa per gusto della trasgressione, ed è qualcosa che porta in sé un che di poetico, di vitale, che induce ad immaginare il sesso, più che “consumarlo”: “Ad Alessandria si ammette il diverso, | per gusto | del proibito: l’amore tra un uomo e una donna | solo pensato, consumato mai.” (e Lenisa mette in nota la tentazione di inserire la variante “soltanto scritto”, che forse è più pregnante, se s’intende porre l’accento sulla letterarietà di questo sesso immaginato). [Come è spesso riscontrabile nella sua opera, il sesso in Lenisa è pulsione metafisica, forza istintuale intimamente elaborata, gioiosa energia vitale, che si traduce in ribellione alle convenzioni e …alla morte.]. Pertanto, spesso - in Alessandria - il parlare di sesso sottintende affermazioni e sostiene convinzioni che afferiscono non alla sfera sessual/riproduttiva, ma a quella civile, letteraria o filosofico-esistenziale come in Donatien, dopo aver assistito a un corso di letteratura lesbica, fischiò la Traviata.

Così sentiamo parlare di un corso di “Letteratura Lesbica” in cui si fa riferimento a “un doppio ghetto ancora letterario. L’insetto | dentro l’ambra millenario è prigioniero”. In realtà l’allusione è volta a mettere in evidenza e condannare le tante forme di ghettizzazione della “diversità” e, fuor di metafora, l’“insetto” imprigionato nell’ambra non è altro che l’uomo chiuso nella gabbia dei propri pregiudizi. La poetessa Saffo, massima esponente della melica eolica e simbolo dell’omosessualità femminile (gli studi di Domenico Comparetti hanno dimostrato l’erroneità di tale “accusa”, presente soprattutto nei comici) si chiede a voce bassa: “L’erotismo non genera | arte?”, ponendo dunque una questione di poetica e di letteratura. Lenisa, che legge in Saffo un’antesignana della “liberazione” femminile, vittima del pregiudizio, concorda nel ritenere che nella sensualità si celi una potente forza creativa. [Non ho difficoltà ad affermare che giudico la Ragazza di Arthur come la massima poetessa erotica italiana, intendendo il termine nel suo significato etimologico e psicoanalitico di esaltazione della vita e desiderio di perpetuazione.].

In Le Mille e una botta si torna sul femminismo, in chiave sociale e antropologica, irridendo il concetto maschilista per cui (“…Centodieci mani | di pie donne, perdute a lavorare senza compenso…”) la femmina esiste in funzione del maschio che si crogiola nell’harem, rivestito di bellezza finta e di tanta dichiarata virilità. Ma “con tanta concorrenza di ragazzi in calendari | nudi e belle chiappe…” è un po’ difficile stimolarlo, perché esistono dei dubbi perfino sulla sua “potenza”: “…rimane un problema:| si solleva?”. Forse è meglio affidarsi alla magia seduttiva della parola, alla capacità evocativa del sogno: tanto che si esclama “Così gli volli un sogno raccontare”. Ciò che in Alessandria è al centro dell’attenzione sono i libri (e come potrebbe essere diversamente?), rinverdendo la tradizione secondo la quale l’equipaggio di ogni nave che attraccava al porto doveva, come preciso impegno, consegnare i testi che trasportava, affinché fossero trascritti ed inseriti nella Biblioteca.

In Alessandria, metafora di cultura, di sogno, di eternità, non possono mancare quei libri che segneranno un’epoca e che Lenisa ama, tanto per il loro intrinseco valore, quanto perché sono frutto della mente e del cuore di autori “speciali”. Uno di questi libri-monumento è “Il Semacosmo” di Marzia Alunni. Conoscendo il testo in parola, voglio dire che difficilmente capita di leggere un giudizio critico, in versi, tanto puntuale, onesto e diretto. “Il Semacosmo” è infatti visto nella sua componente esoterica, per cui “saggi e folli” devono chiedere l’aiuto di Erasmo (si pensa all’Elogio della Pazzia e alla rigorosa preparazione filosofica dell’autrice, formatasi con padre Fabro e cresciuta alla grande scuola “familiare” di Maria Grazia). La giovane poetessa Marzia “Invece dei fiori ti pare che semini astri, trasforma | parole in pianeti scomparsi, pianeti in celesti parole” e tiene in mano una clessidra “ove raccoglie | la cenere di Alessandria (virgole, punti, polvere | d’astri). Non segna il tempo, è soltanto un ricordo” (Donna con clessidra e allegoria del “Semacosmo” di Marzia).

La letteratura non è solo anima e cultura, ma i pensieri vanno anche rivestiti di una forma adeguata. Così in Alessandria si può frequentare una poetica Lezione sulla forma, ove la stessa Lenisa dice la sua, affermando che la poesia nasce già in parole che si rifanno “alle radici del corpo | ed al respiro della vita” e questo sentire profondo si trasforma da solo in parola che “…gira vorticosa, eccelsa | contenitrice di folle energia”, mettendo in luce l’elemento straniante della creazione, che è un processo in cui è ravvisabile una componente irrazionale di forza e di follia. La letteratura, la cultura e la polemica letteraria, giocata sul filo della colta ironia, sono onnipresenti. Così, nella citata Incastri alessandrini, troviamo il riferimento al Nobel Dario Fo (col gioco di parole Fo/faccio) ed al suo impegno politico e civile: “Non lo so se sia il mistero buffo, ma chissà | che ad esser buffa non sia la realtà.”. Alcuni personaggi sono addirittura protagonisti ricorrenti in più composizioni: uno è Casanova, che viene presentato (con Don Giovanni) come qualcuno che sragiona “…per eccesso di ragione | o mancanza | della stessa” e che non potrebbe trovarsi ad Alessandria; “tuttavia trasformandolo in uccello, Casanova | lavora ad Alessandria, | riparato di notte tra le mani di Venere Murtea, | dentro il boschetto fitto di mirti, | la Venere casta” (Casanova fu chiamato in Alessandria a svolgere lavoro ‘part time’ con l’uccello da biblioteca, avendo già espletato tale incarico nel castello di Dux in Boemia).

Personaggi del mondo letterario vengono allegramente sbeffeggiati, come nel caso di Sanguineti, sul cui naso si scherza in rapporto alla dimensione ed alla forma, fingendo di equivocare sul fatto che la naturale appendice possa appartenere a padre Dante. Ma una vocetta “sottile” e “ironica” suggerisce: “Attenta, li distingue la corona d’alloro” (L’Angelo di Dante). Anche Montale viene bersagliato, in quanto se ne riprende l’espressione poeta decente, “Ma la Rima lo fischia e prende in giro: | un poeta decente è quasi niente”. Egli non ha diritto di cittadinanza, dato che “L’indecenza è una prassi ad Alessandria” (Montale fu fischiato ad Alessandria allegramente dalla Rima). Ancora in Elogio della Rima, si trova alla Rima giustificazione, solo ove essa venga usata con sano divertimento “…la versi | lieta in parodia” e c’è tutta l’ironia verso quanti si ritengono sommi poeti, essendo invece dei mediocri versificatori (“Se siamo nani, non occorre il metro che ci misuri | soltanto in altezza”). La polemica letteraria è rivolta anche contro quelli che scrivono “versi liberi”, equivocando sul concetto di libertà e restando, colpevolmente, alla superficie. Il critico entra di straforo dappertutto (“Razza gramigna i critici sono dovunque”), che si chiami Sgarbi o Asor Rosa, ma non turba la dizione dei versi di Luzi (Due stranieri elusero la vigilanza). Certi intellettuali particolarmente supponenti non rispondono e ad Alessandria ci si diverte a prenderli in giro, giocando sul loro nome (Eco/eco) e sull’opera: “Qui si declina il nome della rosa: rosae, | rosarum, rosis, rosas… | Com’era bello quando si chiamavano | da un campo all’altro e si spandeva | l’eco | che risponde a se stessa soltanto” (Ma Eco non risponde…l’eco sì…).

Ma la polemica lenisiana non è fine a se stessa: spesso, anzi, la citazione letteraria o il personaggio “dileggiato” vengono inquadrati in senso critico, come quando si parla della presa di coscienza leopardiana in ordine alla consapevolezza di aver scritto “l’opera sublime”, sulla scia del poetare e del linguaggio petrarchesco. E la conclusione ironica e canzonatoria sui “canzonieri” (Lenisa ha scritto uno splendido “canzonario”, Le Bonheur) è in realtà apprezzamento: “O ‘canzonate’ rime!” (Leopardi, annusando il canzoniere petrarchesco, ebbe il senso di una “quasi untuosità…”, ma alludeva ad “olio soavissimo”, consapevole com’era di puzzare.). Così “Il potere depresso, letterario del secolo | sconnesso | in agonia, disse a Lenisa: Mia spina | nel fianco, fammi morire dolcemente, pia | per le tue mani sia l’eutanasia, favorita | senz’altro dalla rima.”. Come si vede, la poetessa rivendica una sua dignitosa ed orgogliosa “alterità” rispetto al potere letterario, fatto di soldi, amicizie, raccomandazioni e consenso “peloso”. Basta ricorrere al consueto “artificio” magico e fantasioso: “Premevo l’ombelico | e volò via.”.

Letteratura, vita, amore, amicizia, si fondono e si confondono quando si parla con tenerezza e affetto del poeta amico scomparso Dario Bellezza: “Omo intrigante, circondato di giovani, | sfottente e dolce”. Nell’immaginaria Alessandria lenisiana risplende una semplice lapide: “Qui giace Dario Bellezza | morto nel sessantotto” (Si chiese a Raphael di scrivere un epitaffio per Dario Bellezza, dopo aver composto quello per Ammone).

La Musa lenisiana è ironica e lieve: la stessa polemica letteraria non assume toni aspri ed astiosi, ma preferisce le punzecchiature affettuose e le allusioni eleganti. Ad esempio, in Adieu viene introdotto Apollo che brinda allegramente, per poi dichiarare: “…io non prendo sul serio | la poesia se neppure riesce a farmi ridere”. Poi si ironizza su Zanzotto, il cui nome fa rima con “botto”, si accosta il termine “veti” a Sanguineti e se ne ridicolizza l’intenzione apologetico-politica, che prende il sopravvento sulla poesia, facendo rimare “stitica” con “politica”: “Scoppiò un botto, venne pronta la rima con Zanzotto | e senza veti | la più sfacciata rima: Sanguineti con quella | un poco stitica che fa rimare la poesia | in politica”. Poi, la stoccata finale, scherzosamente autoincensatoria: “E, rivolto a Lenisa: versi belli non fare più | se dormono gli uccelli” [anche qui, ponendo la cesura dopo “belli”, siamo in presenza di due perfetti endecasillabi - che in altro studio ho definito incapsulati - buttati lì con voluta nonchalance, ma specchio di una padronanza eccezionale della metrica e dello stile]. La lotta contro il consumismo e la civiltà dell’avere e del “benessere” (che è diversa da quella del “ben essere”) torna a più riprese: si pensi all’ironia contro la moda e le sfilate.

In Max Bender aprì a caso il libro II dell’“Ars Amatoria” di Ovidio, incurante della fedeltà del tradurre, Lenisa ci propone l’ironia anti-consumistica, sostenendo che è preferibile una donna al naturale a quella che veste firmato e cerca d’ingannare con artifici e orpelli: “Se si mostra col burqa, immagina rivalutato | il pube; se Valentino la veste, dille ch’è più bella | nuda.”. Ancora in Preparativi per una sfilata l’ironia si fa più raffinata e sottile. Già l’avvio è pesante e fa riferimento alle tante “galline” che popolano il pollaio delle sfilate: “Co co dè, prima provo lui, poi prendo te…”. Quindi ridicolizza l’aspetto falsamente “asessuato”, di un’ambiguità falsa, commerciale, dei vari “modelli” che vengono ritratti “col perizoma”, “col cranio di luna”, “con lunga chioma di donna”. Poi c’è la battuta più provocatoria “…e si tenga a bada | l’erezione | per educazione s’intende…”, per concludere che un certo giovane, il quale sfila portando come copertura una foglia di fico, stia attento a non coprirsi con una foglia di melo, perché l’albero del melo non sta per pudore, ma per tentazione (“La foglia del melo | non è copertura – risposi – della natura, | pudicamente dolente per costumata rima”). A riprova della sua condanna di un sesso consumistico, privo di intima pulsione e sincera passione, Lenisa presenta lo spettacolo dell’esibizione in Gli spogliarelli. A contrasto col verso petrarchesco “chiare, fresche, dolci acque”, viene introdotto un prezzolato spogliarellista, palpato da avide mani (è segno di falsa emancipazione e di femminismo fasullo l’assomigliare ai maschi nelle loro abitudini deteriori). Così, sopra il palco, come spada “il membro si sguaina”: l’espressione coglie del fallo l’elemento “guerriero”, fallito e fallace, non quello vitale e gioioso, capace d’inseminare e d’incantare con la sua potenza, quello che richiama le antiche Falloforie care a Dioniso.

Ben diverso significato assumono le analogie tra il corpo e gli elementi della natura, come avviene in Celebrammo l’Aurora essendo il gallo diventato roco. Qui si parte dalla citazione di Aurora, che gli antichi chiamavano “dalle rosee braccia” e poi si giunge ad assimilare corpo/cosmo, occhi/stelle: “Studio le ragioni di metrica e trovo che s’adegua | il corpo al cosmo | occhi stelle, ventre lacustre conca, spina dorsale | albero, i fiumi e le vene…”. Così la poetessa osserva che “La marea comporta il senso | del ritmo” e nel finale scopre che altre onde che non vediamo, quelle hertziane, s’inseguono e portano la voce e l’immagine sul video (“Sul video la voce dentro | somiglia a quella del mare, un inseguirsi di onde.”), accostando ancora, in modo esemplare, natura e tecnologia, intesa come “creazione” dell’ingegno umano. Lenisa, come l’artigiano che tiene in ordine i propri attrezzi, ama la lingua italiana che le consente di esprimersi e, in particolare, è legata al dialetto friulano, incluso nella lingua come “noce dentro il gheriglio”. Ritiene pertanto che la lingua vada preservata, affinché non venga “azzannata | da bastardi incroci”. Lei che, nel coma, ha parlato greco e aramaico, predilige la lingua italiana come “miele d’api in Parnaso” (Il poeta si ribella al declassamento della lingua italiana).

Le caratteristiche dell’Alessandria lenisiana vengono di volta in volta declinate, usando artifici e procedimenti canzonatori e divertenti: ad esempio, il senso d’incertezza e di straniamento da sé che tocca tante persone, viene ironicamente presentato in Ma di quale Alessandria si tratta? Di quella tolemaica o di quella ligustico-pedemontana? S’introduce in scena un comiziante (nato ad Alessandria del Piemonte) che, in puro stile sindacalese, esordisce con l’ottusa enunciazione autodefinitoria: “Sono tutto d’un pezzo” e drammatizza enfaticamente l’ipotetica controversia. A costui si oppone, con atarassica signorilità, “la bella città d’artisti”, mentre la “platea beata” lo ascolta con sereno divertimento, tanto che, ad un certo punto, il pover’uomo sente “suoni d’idiomi | di versi” (lingua che non è la sua, ma in Alessandria d’Egitto c’è anche una comunità di poeti che vive di versi) e “gli parve | di essere all’estero a promettere pane e lavoro”. Il dubbio si acuisce ed una voce giunge a dissiparlo: “Sei ad Alessandria d’Egitto”. Da questo momento in poi, il motivo comico-caricaturale si esaurisce e la composizione si fa estremamente seria, con l’esaltazione dell’incertezza, con l’enunciazione di una filosofia esistenziale, fino alla conclusione, che è tutta un canto alla sacralità della vita che s’identifica con la poesia: “La maschera più bella che ci sia, nasconde | la Parola: Dio-Poesia”.

Dal sindacato alla politica, il passo è breve, come analoga è l’ironia che la bersaglia. Ancora una volta si dimostra come Lenisa “usi” Alessandria, nello stesso tempo, per “attualizzare” la storia e la cultura del passato, ma anche per “storicizzare” il presente, già visto nella prospettiva del “dopo”. In tal modo, la sua critica non appare contingente e viziata da ostilità idelogiche preconcette (infatti è bene ricordare, con Camus, che “Le idee sono il contrario del pensiero”), ma fa parte di un semplice ragionamento, di un’osservazione analitica della realtà con l’intenzione di trarne conclusioni, possibilmente ironiche e intelligenti. È così che va vista la lamentela sul “tuo…suo…nostro” (ovvero sulle ruberie), l’ironia sul pallone (panem et circenses!), la confusione (“porto notizie confuse di tempi | confusi”), l’invito a scrivere elogi funebri (in gergo giornalistico “coccodrilli”), chiamati per ischerzo pescecani, ad ironizzare sulla voracità e sulla falsità di certi personaggi pubblici che sanno “sorridere bene con dentiera intatta” (La politica). Pari ironia viene rivolta alla strumentale fluidità di schieramenti e posizioni da parte delle forze politiche (“Sinistra – centro – destra…Vadano le destre | a sinistra e viceversa…”), fin forse a riesumare la fede “nel giovane Tempo | che aveva lo scudo crociato | sul petto”, ovvero la vecchia e tanto diffamata DC (Allestimento elettorale ad Alessandria). Così è ovvio che si ironizzi su un certo padrone di televisioni, “parodia” di Mecenate, che “Trasmette ottimismo da tutti i denti”. Nella città di Alessandria lo vedono grazie ad una magica parabolica, capace di rompere la logica del tempo: “Qui ridono sempre a guardarlo sul video” e qualcuno si diverte a colpirlo come “sagoma da tirassegno”, senza cattiveria e “non per fargli sgarbi” (nome che andrebbe scritto con la maiuscola per identificare un noto critico e politico militante nel Polo).

La conclusione è graffiante: “Naturalmente la voce dal video commenta:| tutto va meglio”, ad indicare l’ottimismo di maniera; “Se ti volti a sinistra, nessuno è sveglio”, esprime la delusione per un’opposizione appiattita e addormentata (TG con antenna parabolica). Anche in Notizie sporadiche s’ironizza sulla Lega Nord e sul suo antieuropeismo: “ubriachi barcollano e gridano | vanno al mercato a vendere porci | purché compratrice non sia l’Europa”, mentre Alessandria non fa con essi commerci, quasi a voler preservare la propria “integrità”. In Alessandria si vive un clima di poetica complicità, si pensa all’amore, immaginato come un “amante-vasaio” che plasma vasi attici e ti accarezza i fianchi (Che nostalgia credere ad un unico amore!). Ma amore e morte, intimamente connessi e speculari, fanno sì che si possa pensare anche al “dolce vaso, teca cineraria” e a questo punto si prova orrore per la solitudine, fino a sentirsi “…solo | come una pianta non classificata a ciglio | d’un abisso senza nome”. La similitudine è di tale forza e struggente intensità, che Lenisa sente il bisogno di stemperare il finale con una battuta in cui si gioca sul ridere “bene”, riferito allo scomparso attore Carmelo Bene, maestro di anticonformismo e d’ironia: “E buttati – gridarono dal fondo, truce | Carmelo bene rise. | È ovvio”. L’idea della morte, complementare alla vita, è sempre presente alla mente degli abitanti di Alessandria, tanto che perfino Venere appare snaturata, gonfia, lei - divinità immortale - aggredita dai vermi della decomposizione (I sotterranei di Alessandria).

Tutto, dunque, finisce: così Alessandria, simbolo di vita e di cultura. Tutte le immagini, vere o virtuali, gli angeli, gli uomini, i versi e gli uccelli, il variopinto mondo alessandrino, ad un certo punto scompaiono (Addio Alessandria) per effetto di un’eruzione, esplodendo o implodendo, in un affascinante caleidoscopio di forme e di colori, con la stessa misteriosa magia che li aveva miracolosamente generati e che aveva “arpionato” il cuore e l’intelligenza del lettore. Forse è il sogno che finisce: “Appollaiata la città è inghiottita, scoppia in lapilli, | all’intorno fa luce”. Solo “le stelle dei poeti in alto brillano, coronano la notte”, e si stagliano sull’universo, eterne e incorruttibili. Ha scritto Pascoli: “Il sogno è l’infinita ombra del Vero”. Dunque, se crediamo alla capacità dei poeti di andare “oltre”, di intravedere e presagire future realtà, non ci meraviglieremo leggendo che di recente è stata inaugurata la Nuova Biblioteca di Alessandria, nata come Fondazione internazionale e presieduta da Suzanne Mubarak, moglie del Presidente della Repubblica d’Egitto. Quando Maria Grazia ha iniziato a lavorare sul libro, nulla si sapeva di questa grandiosa opera, il cui significato è quello di rilanciare l’idea di pace nel Mediterraneo e di integrare le due culture confinanti: l’islamica e la cristiana (e in un momento storico in cui al dialogo tra culture si preferisce lo scoppio delle bombe, credo che tale intuizione si riveli ancor più rilevante).

Ecco che acquistano maggior forza e significato le idee di “sincretismo”, di alessandrinismo, di “ponte di cultura tra Oriente e Occidente”, perché tali concetti vengono non solo sentiti, ma anche vissuti dall’Autrice e da lei profetizzati. Infatti, come la Biblioteca alessandrina, la poetessa si è fatta ponte tra “culture”, tra mondi reali e immaginati, tra Quotidiano ed Eterno, tra la realtà fenomenica e uno spiazzante mondo archetipico, tra essere e dover essere. Forse bisogna credere a Poe quando afferma: “Coloro che sognano di giorno sanno molte cose che sfuggono a chi sogna soltanto di notte”. Quelli che sognano di giorno sono proprio le persone come Lenisa, le quali possiedono, oltre al carisma della poesia, delle speciali “antenne”, ovvero una straordinaria intuizione che consente loro di intravedere ed anticipare tanti sparsi brandelli di realtà, tante verità nascoste ai più. Forse, come dice Freud, “Il sogno è il tentato appagamento di un desiderio” e il desiderio di Maria Grazia Lenisa è quello di vivere in un mondo fatto di poesia e di sfrenata immaginazione, di gioioso e maturo erotismo, di amore profondo e valoriale, di autentica e generosa amicizia.

Un mondo in cui non ci sia spazio per le lacrime, se non per quelle desiderate.

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