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Maria Grazia Lenisa

Critica sì, ma quale?

In una poesia, degna di tal nome, il momento critico e quello creativo non sono separati.

Paul Valery ne tentava l’accostamento, mentre li divaricava Benedetto Croce.

Qualora un giovane autore produca casualmente un bel testo, di esso si dovrà davvero dire che ha “la bellezza dell’asino”, ossia che è naturalmente bello.

Solo quando il poeta vive nella consapevolezza “continua” della fusione dei due momenti, acquisisce autentico merito, in quanto non riceve, per felice casualità, il dono degli dèi, ma egli stesso è demiurgo, creatore.

Basti pensare a come venivano tenute in gran conto tutte le dottrine scientifiche, letterarie e musicali nei secoli passati, quando l’arte era una scelta scomoda ed alternativa al mestiere. Ora invece è sparito quel carattere di esclusività dell’arte che viene relegata al limbo delle esperienze frustranti e comunque rimandata a quei ritagli di tempo che le varie professioni retribuite concedono. È venuto meno proprio quel donarsi che accomuna l’arte alla Fede per l’intrinseco e volontario senso di sacrificio ed è subentrata l’opportunità del vendersi che l’ha ridotta a valore apparente e di consumo. La poesia ha subito eguale sorte, con la differenza però che il tentativo di commercializzarla non è riuscito come si avrebbe voluto.

È, forse, auspicabile il ritorno a quei valori che hanno animato autori giovanissimi, baciati dalla Musa, come Keats, Leopardi, Rimbaud, che erano spaventosamente colti ed avevano assai esercitato “l’ésprit de critique” e “l’ésprit de bonheur”.

Pensiamo ad Arthur Rimbaud, ai tempi in cui frequentava il collegio di Charleroy (ancora al discrimine tra infanzia e adolescenza), non era già un esperto traduttore?

Al poema Jugurtha, composto direttamente in latino, aveva apposto un pensiero straordinario di Balzac: “La provvidenza fa qualche volta apparire lo stesso uomo attraverso i secoli.”

La spontaneità in poesia è termine mediamente improprio, in quanto può soltanto sembrare tale e, se il linguaggio comune non è attraversato dalla spinta del “poiein”, la parola se ne muore, perdendo non solo il carisma, ma anche la “voce” svuotandosi del significato d’uso corrente. Più che di spontaneità, si dovrebbe parlare di spontaneo artificio per quella corrispondenza ideale tra l’uomo (attitudine alla spontaneità) ed il poeta (attitudine al “far versi”).

L’avvicinarsi e il fondersi dei momenti creativo e critico avviene per selezione dei materiali accumulati. Pre-esiste tutto un lavorio che alla fine (e pare un’operazione istantanea!) giunge all’evidenza di quelle parole che hanno la vocazione a farsi poesia.

Il poeta-critico non necessariamente è un catalogatore di movimenti letterari, di nomi… ma può anche essere soltanto capace di garantire con sicurezza e sensibilità, immediate e riflessive, il valore di altri poeti come il proprio.

Credo che Eliot abbia davvero ragione: “Nessun poeta, nessun artista di qualsiasi genere ha senso compiuto in se stesso…”, per questo Mario Luzi scrive di “eterno presente” che chiama in causa l’eliotiana comunità invisibile. L’ipotesi luziana è l’assolo del poeta vero che si stacca dal coro dei “poetanti”. È pure un tentativo di opporsi alle moderne ermeneutiche che parlano di contestualizzazione, di attualizzazione, di centralità del testo…, volendo queste isolare il passato, deprivarlo, banalizzandolo in un presente indifferente che fa fatica a contenerlo. Il rischio è quello di cogliere la pianta, strappandola dalle sue radici…

Lo scrittore di versi che non faccia anche critica, si deve seriamente interrogare se la sua non sia altro che una posizione di comodo o se, al contrario, non sia in grado, nei suoi stessi testi, di dimostrare quella fusione dei due momenti. In tal caso il suo potere di autocritica può seriamente essere compromesso. Troppo frequentemente capita a persone “intelligenti” il rischio della sopravalutazione: sono quelle che non accettano la critica negativa onesta che è sempre un atto di interesse e passione rispetto al voluto silenzio o al menefreghismo dei più.

Appare sbagliato ritenere che il poeta autentico non sia critico di sé, se pensiamo che il critico, solamente tale, non fa che esprimere l’anelito alla fusione dei due momenti, specie quando il suo operato non risulti esso medesimo un apprezzabile esempio di creatività. Per questa ragione egli cerca una sua protesi virtuale nei testi poetici, onde consentire, dissentire, se qualcosa ostacoli questa fusione, superando ogni possibile limite personale che riguardi il gusto.

Ho letto critici seri, fortemente limitati dal loro gusto e dalle esperienze di determinate poetiche che li rendevano prevenuti, se non ostili, e comunque poco permeabili al libero rapporto poesia-critica. Infatti il critico si serve dei “materiali” e degli “strumenti” dei poeti per “spaziare” ed è ben grave se costruisce per essi le ali di Icaro o, peggio, le stampelle. Un poeta, creato dal nulla, se cade il critico che l’ha costruito o i contesti storico-politici o le mode d’élite, ha scritto per il piacere proprio e del suo critico.

Penso sia importante che i giovani di oggi curino lo studio di testi divergenti e convergenti con il loro gusto, ampliandolo e che si abituino a questa libertà dai condizionamenti che piovono dalle esemplari banalità che i maestri di stile (minimalisti o altro…) spacciano per modelli di poesia. Così facendo, acquisteranno pure un potenziale critico, utile per se stessi, se sono anche poeti e mai si acquieteranno in una determinata forma che li comprime, a torto definita stile, forma che rischia unicamente la maniera ed il pregiudizio semantico.

Riconoscere un testo di poeta troppo facilmente, specie se contemporaneo, può voler dire tener conto di qualità esteriori che un buon imitatore saprebbe riprodurre.

- Come si riconoscerà allora il puro stile di un poeta?

- Come si riconoscerà la poesia autenticamente ispirata da quella emulata?

- Come si riconoscerà la critica, svincolata da ogni interesse particolare, da quella partitocratrica, aggregata ai giochi di potere e all’editoria masmediale?

L’unica possibile risposta è rinsaldare le proprie intime motivazioni, andando oltre le comode apparenze, spesso dettate dal proprio “ego” e dallo stesso mestiere che non si arrischia in giudizi approfonditi, fuori dalle rotte già segnate.

Personalmente non sono per le separazioni manichee, per i ruoli pre-definiti, legati all’estrinsecazione di un potere o condizionati da una scuola. Il rischio è grande, esistono solo i Maestri di stile che prima vanno abbattuti e poi adorati, quando si è sicuri del proprio.

Ritornando ai critici mestieranti, si può dire che alcuni di loro non sentano più “il brivido della poesia” e neppure che la cerchino, per non turbare il loro sonno. Giocano su quel terreno “sicuro”, arato di finti i valori acquisiti, poiché si convincono che, di questi tempi, sono rari i Rimbaud, i Keats… e ammettendo “a priori” che non ci sono, sicuramente non si troveranno. È questo il caso di un certo studioso che sembrava cercare Rimbaud e, bussando “questi” alla sua porta, non lo ha riconosciuto.

- Che, forse, costui si aspettasse un’evocazione spiritica?

È difficile crederlo!

Se anche un genio avesse bussato alla porta di quel tale che “costruisce” il poeta su commissione, è lampante ormai che in lui – il tale – si sia spenta del tutto la possibilità materiale di cercare davvero il valore poetico. Ed anche chi elabori una tra le molte improbabili “sovrascritture” del testo, potrà, sì, innestare qualche lusinga, ma ciò che non potrà fare mai, sarà riuscire a creare il poeta, al di fuori del poeta stesso e della fede incrollabile che ha in sé e nella sua ispirazione.

In questo panorama di rigurgiti di poetiche (che ricerca all’estero i valori migliori da proporre), c’è chi vede nel poeta-critico (nonostante i fortissimi esempi sotto i nostri occhi) il più pericoloso dei confusionari, un elemento turbativo dell’ordine, quando invece, se confusione c’è, è quella creata dai critici, commissionati dalle case editrici che pescano il solito pesciolino indigesto con una rete piccola, a maglie larghe e, qualificati per la perla, ci offrono la madreperla, vale a dire il suo guscio che ha pure qualche iridescenza.

- E degli altri pesci, fuori dalla rete?

- Della balena azzurra, in via di estinzione, viva e bella del suo altissimo zampillo?

Forse l’unica risposta possibile ci verrà dalle aree protette, perché ai margini della marginalità.

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