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Nel volume che porta questo titolo ho sott'occhio tutta la poesia finora scritta dall'udinese Maria Grazia Lenisa : un volume in ottavo, di 257 pagine, alle quali vanno per altro sottratte circa ottanta pagine di prefazione: una sontuosa prefazione di Aldo Capasso che analizza molte delle 153 poesie.

Centocinquantatrè liriche, non c'è che dire, costituiscono un ricco patrimonio di poesia per una poetessa che non ha ancora ventitrè anni! Nessuno potrebbe negare davvero che la ispirazione della Lenisa è una ispirazione feconda e, che più conta, un'ispirazione non ricercata, non sforzata, ma spontanea, schietta, cordiale, come una fresca polla sorgiva che fluisca giù dai suoi monti. Nè basta: questo volume è anche carico di allori. Tre delle quattro operette che lo compongono uscirono separatamente in tre tempi diversi, dal 1955 al 1957; e in questi due anni – due soli anni – riportarono ben cinque premi letterari: un premio di Battaglia Letteraria a Messina; un premio Ugolini a Palermo; il premio Ebe a Savona: il premio di Vallombrosa e il premio di Vado Ligure. Non sono molti i poeti che hanno ottenuto una così copiosa raccolta di plausi.

Ma forse c'è per la Lenisa un premio anche più ambito, anche più significativo, più caro; e fu di essere stata scoperta e additata quale «poetessa eccezionale» da Ettore Allodoli, che di poesia si intende ed è critico piuttosto esigente e di lunga esperienza: essere stata tenuta al fonte battesimale della poesia da Ettore Allodoli è cosa di cui pochi in verità possono vantarsi. E che dire del commento analitico, minuzioso, esauriente, in cui ogni poesia viene pesata con la bilancia dell'orafo, in cui quasi ogni parola viene saggiata con lo specillo che penetri più addentro nell'anima della poetessa, sì da sentirne tutte le vibrazioni e tutti i palpiti: alludo alla prefazione che Aldo Capasso ha dedicato a questo libro e che forma un vero studio critico, di ampia portata. quale il critico-poeta aveva finora dedicato soltanto ai grandi poeti?

In quanto a me, come potrei gareggiare con tali critici, senza ripetere letteralmente ciò che essi, con tanto maggiore autorità, hanno (letto e concluso? A me più conviene – e più piace – tentare una critica sintetica che cerchi di ricomporre a unità le varie impressioni che l'attento lettore prova alla lettura di queste poesie. E la prima e più sorprendente delle impressioni è che queste poesie, così diverse di toni e di accenti benchè tutte vivide di colori, tutte folte d'immagini talvolta anche lontane e ardue, scritte con espressioni tutte estranee al linguaggio convenzionale, che perciò richiedono in chi le legge raccoglimento, attenzione e uno sforzo continuo di comprensione, si lascino non di meno leggere senza alcun senso di stanchezza e anzi con crescente ansia l'una dopo l'altra, con cupida e insaziata curiosità, quasi che fossero unite – tanto disparate come sono – da non so che intreccio di cui si volesse sapere la fine, da non so che invisibile legame...

E il legame infatti c'è; ed è la personalità così spiccatamente originale, singolare, stupefacente, e, nell'apparente semplicità, pur così complessa e mutèvole dell'autrice, la quale appunto per queste qualità non comuni, s'impone al lettore come un enigma da risolvere.

Sotto la forza di una tanto potente personalità, ogni tema si frantuma per incantamento in una miriade inaspettata e insospettabile di immagini, di luci, di colori, di suoni. Ed è a questa magia sempre nuova che noi tendiamo col desiderio. Della quale magia, il capolavoro è forse La Vergine e il liocorno; dove in soli 17 versi si possono contare (quando l'esaltazione dà taci dal canto si acquieta e l'animo nostro può riacquistare tanta freddezza da contarle) ben nove immagini : la bocca della donna amata diventa fonte: l'anima dell'amante anfora; i capelli, foglie che trapelano sprazzi di sole; l'amore, un vento che vuole scoprire tra le foglie il riso e gli occhi dell'amata; il seno, un nido di tortore; le tortore, un tremore soave; il respiro, un alito di primavera: il grembo della donna, un altro nido: l'amante, un bianco liocorno ammansito dalla verginità.

Un altro esempio altrettanto evidente: Sunio, con soli tredici versi. Ma anche qui quante immagini, quanti colori! Sunio è un promontorio orientale dell'Attica, sul Mar Egeo. Ho qui dinanzi a me, mentre scrivo, una fotografia a colori di questo Capo Sunio, una fotografia veramente bellissima, che tuttavia non dice nulla al mio cuore di ellenista. Per avere un concetto esatto di Capo Sunio, debbo rileggermi per la quinta volta la breve poesia della Lenisa. Solo essa mi dà l'aspetto vero, vivo, soleggiato, commosso del divino paesaggio. E badate: nella fotografia c'è íl mare, c'è il cielo, e nel cielo le nuvole, le rupi, il verde della macchia mediterranea, tutto... ma tutto è freddo e morto. Nella poesia della Lenisa c'è poca cosa: un capretto che bruca l'erba tra le antiche pietre rovesciate nel verde del prato, e il pastore che dorme e sogna bianco latte e lana da poter regalare alla fanciulla che ama. C'è anche un ragazzo (e io lo vedo seminudo col corpo color del bronzo, ma la poetessa non lo dice) che canta invocando nella sua canzone le ninfe; e finito il canto, tende l'orecchio ad ascoltare se, per avventura, qualche ninfa raccolga il suo invito e risponda. E basta: non c'è altro in questi tredici versi, non e'è mare, non c'è cielo, non ci sono le rupi che scendono ripide verso l'acqua. Niente. Eppure io sento che in questa poesia c'è veramente la Grecia ; che questo, sì, è proprio il Capo Sunio.

E che musica in queste due poesie e in tutte le altre! Non alludo alla solita musicalità del ritmo, che c'è, si, ma è di sua natura una musica tutta forma e in superficie, una specie di accompagnamento in sordina all'altra musica. a quella vera, interiore, che sta sotto alle parole stesse: una musica esoterica che sveglia in noi sensazioni che completano il testo e lo rendono vivo, efficace, comprensibile, atto a farci sognare : la musica che c'è in ogni vera poesia e noi la sentiamo, ma non è definibile. Ebbene questa musica io ho sentita, non dirò in tutte, ma certo in numerose poesie della Lenisa, e, naturalmente, nelle due poesie che ho sopra citate. Come esempio, basterà riportarci per un momento alla poesia Sunio. Ho già detto sopra che in quei tredici versi, in quelle quarantacinque parole non si parla affatto del mare: eppure, se leggerete attentamente, magari un paio di volte, quei pochi versi, voi sentirete certamente il fragore cadenzato delle ombre che battono, sollevando spume e spruzzi, contro le rocce.

Nella poesia non si parla nemmeno di vento eppure del vento sentirete quel rombare afono che stordisce senza quasi avvertirlo. Come anche sentirete lo zampillare monotono della fonte vicina, di quella fonte da cui dovrebbero rispondere le ninfe. Sentirete soprattutto il silenzio divino di quella quiete quasi elisia, lo scorrere lento dell'eternità, l'armonia panica del paesaggio, e, sospesa nell'aria, l'aspettazione estatica di un intervento soprannaturale, forse di ninfe o invece di egipani.

Questo sogno di esatta grecità era nel cuore della poetessa e la poetessa è riuscita a comunicarcelo col minor numero di versi possibile, col minor numero di parole. Questo è appunto il miracolo dell'arte: di raggiungere il massimo effetto coi minimi mezzi. Questa è la soluzione esatta di quell'enigma che costituiva per noi lettori la prepotente personalità di Maria Grazia Lenisa.

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