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Laura Pierdicchi e la sua poetica
Incominciamo questo
colloquio con l’interrogarci su cosa si intende per poesia.
Poiesis, in greco, significa creare dal nulla. Questo è quello che fa il poeta:
crea. Non ha altri strumenti che il suo pensiero e le sue parole Crea dal nulla
con il suo immaginario, con le emozioni del suo sentire, con la sua cultura.
Fin dall’antichità la poesia infatti è stato strumento di pochi cantori, usato
per comunicare al popolo storie, fatti, fantasie e le emozioni che i poeti
provavano davanti agli accadimenti importanti della vita.
Fino al romanticismo, la poesia è stata espressa attraverso l’uso di una forma
raffinata di linguaggio legato alle rigide regole della metrica che permetteva
ai testi una musicalità codificata da ritmi che la distinguevano dalla parlata
corrente. Successivamente queste regole sono cadute lentamente in disuso, pur
mantenendo invece quelli che possiamo considerare, gli elementi fondamentali
della poesia, anche di quella moderna.
Quali sono? Il contenuto, cioè il messaggio, la forma sintetica, le figure
retoriche e il linguaggio che cambia da poeta a poeta.
Senza paura di essere smentiti possiamo dire che la poesia, quella vera, è la
forma più alta della scrittura letteraria, perché non può prescindere dal
pensiero di una mente razionale, da un‘anima attenta e sensibile alle emozioni
che vive. Elementi che si manifestano solitamente quando il poeta ha piena
coscienza di sé, delle realtà in cui è immerso e possiede una padronanza
linguistica notevole. Cioè ha occhi per vedere, orecchie per sentire, ragione
per porsi domande davanti ai misteri della vita e cuore per comprendere le
emozioni, ma soprattutto ha le parole per dirsi, per dire il portato complesso
del suo IO. Quindi ci rendiamo conto che scrivere vera poesia non è da tutti,
come non è da tutti scrivere musica, dipingere, scolpire, cantare in modo
egregio e danzare come una libellula, elaborare leggi matematiche e fisiche per
scoprire scientificamente l’origine dell’universo e per dimostrare, al di là
della fede, la presenza o meno di un Dio Creatore del tutto.
Poeti si nasce? Poeti si
diventa? Non è facile rispondere. E’ assodato che serva una certa
predisposizione naturale, ma questa deve essere sempre coniugata con una
profonda conoscenza dell’anima umana, con la cultura che ha saputo raggiungere e
con la padronanza totale della lingua che intende usare.
Infatti, come tutte le espressioni dell’Arte, il suo creatore, deve saper
comunicare sé stesso attraverso codici espressivi ed estetici tali che riescano
a connotarlo dagli altri. Questo è ciò che l’Arte esige.
Tutto ciò non vuol dire che un’anima poetica, sensibile non possa albergare
anche in un essere che non possiede tutto ciò. Ma un conto è possedere
sensibilità e pensieri, un altro è saperli tradurre in scrittura poetica.
Se provate a chiedere a chi si professa un poeta perché scrive in rima e va a
capo prima della fine della riga, il più delle volte ti senti rispondere: “Mi
viene spontaneo, è più facile”. Anche se poi la spontaneità e la facilità non
sono elementi sufficienti per rendere il suo elaborato una vera poesia. Il
testo poetico richiede ben altro.
Oggi, nel nome della libertà espressiva, c’è un uso smodato del linguaggio senza
regole, della licenza poetica, visto che Leopardi nella sua famosa canzone” Il
sabato del villaggio” per rispetto alla musicalità del testo, si è concesso
questa libertà. Ma Leopardi era Leopardi. E’ pur vero che siamo un popolo di
santi, di poeti e di marinai, ma la vera poesia esige il rispetto delle sue
caratteristiche peculiari e chi nega tutto ciò, invocando la libertà della
sperimentazione, sia linguistica che formale, e il diritto della licenza
grammaticale, non potrà mai essere un vero poeta né un bravo critico. Gli errori
di forma e di grammatica restano sempre errori, senza nessuna scusante.
Ora però parliamo di Laura Pierdicchi, che senza ombra di dubbio può essere
definita una vera poetessa, rara come lo sono i fiori nel deserto. Una poetessa
che ha alle spalle anni di studio, di pubblicazioni (ben quindici), di
esperienza, di ricerca, ma soprattutto ha l’umiltà di non sentirsi mai arrivata.
Una che non cerca i riconoscimenti prezzolati, ma il giudizio della critica
vera, cioè di quella che sa distinguere l’oro dalle patacche e che quando si
esprime non lo fa per piaggeria.
Laura nella poesia ha saputo trovare il mezzo a lei più consono per comunicare
con il mondo esterno e con chi del mondo sa mettersi in sintonia con lei. Una
donna semplice ed umile come lo sono i grandi.
La conosco da molti anni e ho seguito la sua crescita artistica.
“Quando hai cominciato?” - le ho chiesto una volta.
Mi ha risposto con candore: Ho cominciato quasi per gioco. Mi ricordo che da
bambina, avrò avuto sette anni, mi divertivo ad inventare cantilene,
filastrocche, composizioni spontanee, quelle che i bambini creano dal nulla
quando giocano felici.
Poi ho incontrato la poesia di una grande, Emily Dickinson, e ne sono rimasta
travolta e incantata. Ecco la sua prima vera maestra. E che maestra!
Stiamo parlando della grande poetessa americana dell’800, vissuta quasi in una
voluta clausura nella sua casa, apparentemente staccata dal mondo esterno, ma
così immersa nelle realtà del mondo da farle penetrare nel suo universo
interiore. Grande nella storia della letteratura mondiale per l’eccezionale
temperamento artistico, per la capacità linguistica, per la sensibilità, per la
forza del suo dire, qualità che ha saputo usare per segnare un confine netto tra
il passato decadente, in uso allora, e il suo presente che, proprio grazie a
lei, è ancora oggi il presente più aulico della poesia. Donna dotata di
temperamento, di una capacità estetica e di una forza espressiva tale da
influenzare tutta la poesia moderna. Bellezza, freschezza, profondità sono
costanti nelle sue opere e pertanto diventano espressione di un ego capace di
una potenza poetica unica, direi senza tempo.
Laura ha imparato presto il
suo insegnamento. Ha imparato che le parole in poesia, anche le più semplici, le
più abituali, hanno la magia di moltiplicarsi in una pluralità di significati se
usate con cognizione di causa e con la giusta misura. Tanto che la
caratteristica che colpisce immediatamente un lettore attento, è proprio la
misura che esprime una leggerezza espressiva sapiente, collegata in modo
contrappuntistico ad una profondità emotiva e razionale eccezionale. Laura ci
insegna che gli aggettivi non devono mai essere abbondanti, ma misurati, che gli
orpelli retorici potrebbero far deviare dal messaggio puro del suo pensiero.
I suoi testi eccellono infatti più per sottrazione che per sovrabbondanza di
parole, perché troppe parole frastornano e potrebbero far fraintendere le
emozioni deviando il lettore dai sentimenti che vuole esprimere. Leggerezza,
misura, coerenza e profondità, sono le caratteristiche che emergono
immediatamente nella sua poetica, poi a queste dobbiamo aggiungere l’amore, il
dolore, la memoria di un passato, la solitudine, il tutto condito da una
ricerca, che si potrebbe definire filosofica, delle verità universali per
trovare possibili risposte ai misteri della vita e della morte. Uno scandaglio
incessante di quel mondo di cui abbiamo percezione e bisogno, ma impossibile da
raggiungere nella dimensione terrena.
Per esiguità di tempo, non mi soffermerò su tutta la sua produzione sempre
accolta dalla critica con note positive.
Vorrei invece dedicare un
po’ di attenzione ad un libricino, passato quasi in sordina, scritto da lei in
occasione della morte del padre “Bianca era la stanza”. Un poemetto che Attilio
Carminati nella prefazione definisce un oratorio.
Pur nel rispetto del compianto maestro, mi permetto di dire che il testo in
questione, a mio parere non è un oratorio, e non solo perché il termine oratorio
mi rimanda ad una litania religiosa e un po’ lugubre, ma perché, sia per il
contenuto che per la forma, mi riporta alle laudi che si usavano in epoca
medioevale. Per me infatti è un inno sublime dell’amore filiale.
Insolito nell’insieme della sua produzione, ma che rappresenta uno dei momenti
di maggiore liricità. E’ un testo di facile comprensione che appare al lettore
come uno splendido e toccante canto d’amore nato nel momento estremo della vita
del padre. Un testo dove l’amore si coniuga costantemente con il dolore, con la
nostalgia di un mondo che sta finendo definitivamente.
Il momento è tragico, la sofferenza è insopportabile, tanto che Laura vorrebbe
fuggire da quel peso di cui solo lei è consapevole. Il dolore che vive è una
corda stretta che imprigiona il cuore. La poetessa cerca di trovare un rifugio
nel passato, cerca di farsi bambina nuovamente, quando cantava le filastrocche
innocenti. E’ pertanto la memoria del passato, come paradiso perduto, a rendere
insolita la forma, ad allentare l’angoscia del lettore. Il passato che è
rappresentato dalle filastrocche, dalle canzoncine che come un flash
interrompono il racconto creando delle pause irreali.
Tutto inizia come una fiaba. C’era una volta una città … Una fiaba di
cui lei è la protagonista prima sia dei momenti felici del passato, sia nella
tragicità del presente. E’ lei che, sentendosi braccata dalla morte immanente
del padre, cerca di esorcizzarla con l’innocenza dell’infanzia.
Ma il tempo incalza, il male non demorde, e la memoria del paradiso vissuto, nel
nome dell’amore paterno, non riesce a scacciare la morte.
Il luogo della tragedia umana è la famiglia e quella stanza bianca di ospedale
che accoglie il corpo sfinito di un uomo ormai vinto.
Bianche sono le notti di veglia. Il bianco è il colore che predomina nel testo.
Ed è il bianco del lutto che acceca, del nulla che ci aspetta dopo la morte.
Ma il bianco è anche il colore della speranza suprema: l’amore non può finire
nel cupo abbraccio della morte perché continuerà in lei.
Il bianco è la purezza del sentimento che unisce padre e figlia in un tutt’uno e
che non conoscerà l’ombra scura della fine. E’ la speranza di un dopo oltre la
vita.
Padre risorgi, scriverà negli ultimi versi. Padre rinasci! perché
la morte non potrà distruggere i nostri sentimenti, la natura delle nostre
molecole, perché la mia carne è la tua carne.
Altrettanto bella e
importante è la raccolta “Il tempo diviso “dove, come dice Giò Ferri nella
prefazione, Laura si interroga su Dio, su ciò che solo la fede rende visibile e
quasi materiale, quel DIO che è il punto di riferimento sommo per chi crede.
L’esistenza di Dio che è il rovello dell’umanità fin dai suoi albori. Chi è,
cos’è, dov’è, com’è sono domande eterne per l’uomo che neppure oggi ha trovato
delle risposte certe.
Per chi crede, Dio è speranza di un al di là, dopo l’impatto con la morte, Dio è
l’Assoluto, il tutto. E’ bellezza, è amore, è consolazione, è energia che tutto
muove, quella che riusciamo a cogliere nella natura che ci circonda, nel soffio
del vento, nelle stelle lontane, nella vita quotidiana che rinasce a primavera.
Nell’uomo, opera somma del Padre, che da millenni riproduce la vita. Dio è
potenza, è verità, è giustizia, è bontà, anche se noi non possiamo coglierla
completamente nella nostra imperfezione. Per questo ci aggrappiamo a Lui in una
continua affannosa ricerca di affermazioni per fugare i dubbi che assillano.
Dio è poesia? Sicuramente sì, se partiamo dal principio che Dio è l’Assoluto e
quindi è anche Arte nel senso più alto del suo valore.
Per questo, dice Giò Ferri, ci dobbiamo avvicinare alla poesia in condizione
mistica, nel senso di atteggiarsi al mistero, senza la minima pretesa
visionaria, quando per visione si intende vedere con gli occhi della facile
ricezione retinica.
Dio è oltre ogni capacità umana ed è inutile accusarlo del male che l’uomo
compie. Non è esiste un Dio nel male perché il male è sempre opera dell’uomo.
La ricerca di Dio, di
comprendere Dio al di là della fede, è una fatica immane che anziché trovare
risposte, pone domande all’infinito. Possiamo solo immaginarlo e, abbandonandoci
in Lui, credere che oltre la morte comprenderemo ciò che ora ci è impossibile.
Immaginarlo, credere e sperare su questa terra con le possibilità e i limiti dei
mortali. Per comprendere le grandi verità dopo la fine.
E qui gioca la fantasia del
poeta, e chiaramente Laura, lo dice nella brevissima poesia di pag. 59 della
raccolta. L’immaginario si accende di visioni tanto che l’illusione di ciò che
è impossibile si concretizza in visioni. E tutto ciò per lei diventa poesia.
Non una poesia qualsiasi, ma la sua forma più autentica di rispondere ai dubbi,
alle paure. In questo modo la poesia diventa strumento per realizzarsi, per
donarsi, vincendo il naturale pudore, per vincere la ritrosia che talvolta le
impedisce di parlare.
E’ la poesia che ci apre le porte del suo mondo interiore ricco di domande che
cercano risposte, di memoria, di capacità di cogliere il presente che la
circonda, che ci circonda, che circonda l’uomo che sa guardare e vedere; che sa
sentire il mondo cantare e colorarsi nella bellezza della natura. Ma nello
stesso tempo, e con la stessa intensità, percepisce anche quel mondo che piange,
che soffre.
Cioè il mondo degli umani perennemente in esilio, ma che non smettono mai di
interrogarsi davanti all’ immensa realtà del Creatore. Una realtà che spesso
avvilisce il limite umano sulla terra che non trova risposte e allora il
silenzio interiore si tramuta in solitudine. Quella solitudine che è propria del
poeta, così come il dolore, elementi fondamentali perché nella poesia è solo
l’Io del poeta che si esprime e che tenta di dare voce al suo immaginario per
superarli. Un mondo meraviglioso e infinito che si disvela all’uomo che si
interroga da dove viene e dove andrà dopo il tempo che gli è dato in sorte,
oltre quella soglia che tutti dobbiamo varcare.
Anche lei, come tutti gli
uomini che cercano di avvicinarsi a Dio attraverso la loro capacità creativa, lo
cerca in ogni istante del suo tempo.
In Laura ora si fa rimpianto del passato, ora si fa capacità di percepire ciò
che non è da tutti percepibile, ora si fa nostalgia tenera e dolente,
E’ Il tempo infatti che tramuta tutto in ricordi. I ricordi che solo dopo la
morte, troveranno o un significato più ampio, più sublime, oppure saranno
cancellati per sempre.
Il tema della morte, come vediamo, è un altro tema onnipresente. La morte cioè
l’attimo della separazione ineluttabile dalla vita. La morte come fine, ma anche
come principio di una diversa vita per chi, come lei, crede; attimo di
ricongiungimento con chi abbiamo amato, fusione totale in quell’al di là che
sulla terra non possiamo conoscere perché appartiene alla sfera di Dio.
Per chi ha l’anima del
poeta, vivere consapevolmente in questo continuo affanno sarà un morire
continuo, ma anche una continua rinascita nella parola poetica. Un succedersi
inesorabile che non conosce tregua, ma che può dare tregua, consolazione e
catarsi.
Per legge terrena tutto
diventa bagaglio di memoria continuamente evocato, tanto da sentirlo come
materia viva dentro di noi. Nel poeta la memoria trova anche le parole giuste
per esprimersi, per narrare la potenza del suo io e in tal modo diventano il suo
ideale strumento di purificazione. Le parole lo aiutano a trovare uno sbocco
come fa l’acqua del fiume che si versa nel mare e lì si confonde, si mescola, si
trasforma per rigenerarsi in nuova acqua pura che disseta, L’acqua benefica,
salvifica dunque altro non è che la poesia che cerca sempre un altro da sé che
la comprenda, che cerca completamento nell’anima degli altri per condividere
quel sentire vivido di colui che l’ha prodotta.
Parlare di Laura vuol dire parlare dell’artista, non di una donna qualsiasi, ma
di colei che produce arte, che la crea, che la forgia, come fa una madre quando
genera un figlio e nel metterlo al mondo gli dà vita. Perché la vera poesia è
sempre vita e sfiorando i limiti umani, ha il dono di rimanere viva, anche oltre
il tempo e lo spazio del suo autore.
Seconda parte
Ed eccoci all’ultima raccolta, IL PORTALE
quella del compimento di un lungo percorso di vita e di ricerca letteraria e
filosofica, ma forse, anche quella della sua rinascita. E’ infatti quella
scritta nel 2021, dopo 5 anni di silenzio e di grande dolore. Quella che segna
la sua raggiunta maturità poetica.
Già il titolo importante,
imponente, aulico ci dà l’idea di una scelta quasi sacra che nel susseguirsi
delle pagine ci porta lungo una strada da lei stessa tracciata per tentare di
uscire dal bozzolo in cui si era rinchiusa. Una strada lastricata di dolore, di
solitudine, di rimpianto.
Non la porta che tutti dobbiamo attraversare, ma qualcosa di maestoso perché
presuppone il suo ritorno alla vita e che nello stesso tempo esprime l’idea di
ciò che racchiude gelosamente. Un titolo che potremmo definire ambivalente, se
non ambiguo nei suoi significati. Il portale è l’approdo ultimo. Oltre c’è
l’ignoto, ma c’ è anche la possibilità di una resurrezione. Viene quindi logico
interrogarsi: E‘ fine o è principio?
Ecco l’ambiguità nel paradosso. Può essere le due realtà contrapposte che non si
elidono. Una negativa e l’altra positiva; due realtà ben diverse. Per Laura può
essere però anche il diaframma che solo lei può aprire per mettere in
comunicazione il mondo esterno e la grandezza del suo universo interiore.
Il portale lo ha aperto per lei e per noi, perché ancora una volta Laura ci
chiama come lettori per vivere assieme a lei un processo di evoluzione, di
mutazione. Ci viene presentato avvolto nel mistero di ciò che è grande e non
ancora esplorato del tutto. Oltre la barriera del portale aperto ecco infatti
apparire il mondo complesso, ricco, profondo, sacro del suo Io, capace di
interrogarsi e di rispondersi sui perché della vita e della morte e degli
accadimenti di cui è stata protagonista prima.
E’ evidente in questa raccolta la ricerca di una ulteriore chiave espressiva che
miri all’essenza del “Verbum”, della parola poetica, per dire l’immensità di
quel tutto che l’anima finalmente possiede. Ora è certa dell’esistenza di un
mondo nuovo e diverso dopo la fine dove troveremo tregua o tormento in eterno.
Laura ci invita a metterci accanto a lei per partecipare ad un processo di
purificazione dolorosa, catartica, indispensabile però per ritrovare l’essenza
della vita. Non ci sono distrazioni in questo percorso che volutamente esclude
qualsiasi altro elemento poetico. Si procede attraverso pronunce che spesso
suonano come laceranti affermazioni, quelle che solamente chi ha vissuto fino in
fondo il dolore di vivere, di soffrire, di confrontarsi con il mistero della
morte, può fare.
Ora non ho bisogno di
attraversare il deserto / in cerca di una goccia/ che interrompa la mia sete. /
Ho creato un’oasi / che rimpiazza l’arsura…
Passato, presente e futuro
si intrecciano, si fondono, si allontanano per ricomporsi ancora in un continuum
di fotogrammi dove il passato si mostra quasi fosse un sogno che permette di
comprendere che pure essendo sempre gli stessi, siamo sempre costretti a mutare
per affrontare ciò che la vita ci offre nel presente e potrà offrirci domani.
E’ quindi ancora quel filo rosso del tempo e dell’amore già presente nella
raccolta che l’ha preceduta “OLTRE”, scritta in onore di Franco. Il filo rosso
dell’amore che ci accompagna nell’eterna evoluzione che è la vita dell’uomo, di
chi nel mondo è poeta e vive profondamente immerso nei sentimenti contrapposti
della gioia e del dolore che obbligano ad espansioni e a dolorose cadute. La
gioia si vive gelosamente. Il dolore si canta per liberarsene.
Anche in questa ultima raccolta è infatti ancora l’amore per Franco il
protagonista indiscusso. Quell’amore che l’ha forgiata nel tempo e che ora nel
presente si muta in ricordi per riuscire a dare corpo al già vissuto facendolo
vibrare nel silenzio e rendendolo percepibile anche dai nostri sensi.
L’amore che in questa
raccolta si fa parola affermativa, indiscutibile, vera, per mostrarsi a noi.
Il verso “e ti sento”. della poesia di pagina 21, rende concreta anche a
noi la presenza di chi a quell’amore ha dato corpo e forma. E permane oltre il
tempo. Anzi risponde al bisogno di chi continuamente, sfidando la morte, lo
chiama, lo invoca, lo desidera, a maggior ragione di chi continua ad amarlo e
possiede capacità sensoriali ed evocative tali da cogliere i piccoli segni, le
minime vibrazioni, i giochi di luce e di ombra che produce.
Segni visibili a lei e a chi si mette nella sua stessa lunghezza d’onda per
coglierli attraverso le sue parole. L’obiettivo è giungere oltre, approdare al
di là della barriera del Portale per vedere la luce fievole che sta in fondo,
quella luce che permette il ricongiungimento con l’amato.
Una speranza che si fa tangibile, visibile, percepibile in una dimensione
superiore al tempo perché tutto esiste da sempre/ senza tempo/ in un eterno
presente. L’eternità garantisce anche ciò che umanamente è
impossibile.
Il cammino non è facile, mille pericoli rendono difficoltoso procedere “fulmini
squarciano il cielo/ in questa notte di tempesta… Il riposo non ha spazio/ e le
pietre del mio vuoto/ sbattono tra loro.
Fulmini e tempesta sono i
tormenti del dubbio che attanaglia l’anima perché nessuno possiede certezze di
resurrezione.
quando attoniti vagheremo/ tra l’abbaglio e l’oscuro/ con il pesante
fardello / di una vita da espiare.
Il non sapere crea anche paura. L’ignoto allora è come un tarlo che rode ogni
tentativo di avvicinarsi alla luce. Noi non sappiamo cosa siamo e quando
cerchiamo di indagare a fondo / il nostro corpo / diviene un cosmo
sconosciuto. E’ la triste realtà dell’uomo, obbligato a cercare sempre la
verità oltre l’apparenza, consapevole che ogni suo sforzo sarà come puntare lo
sguardo verso un orizzonte che si allontana sempre più, perché ogni sua ricerca
sarà immancabilmente l’inizio per una ricerca successiva, senza mai trovare la
fine. Oltre i limiti della vita non è possibile andare.
Eppure la percezione che la Verità stia proprio oltre la morte ci spinge a
proseguire.
Non è un cammino facile. I dubbi, la coscienza dei limiti umani diventano
barriere insormontabili. La nostra speranza potrebbe essere solo un inganno,
un’illusione.
E’ logica quindi la domanda che ci poniamo costantemente “Dopo l’ultimo
respiro, le aspettative mai appagate su questa terra, potranno trovare
compimento?
Come? Nessuno sa rispondere. Solo la morte lo è. La morte che è il vero limite
del vivente, per questo siamo chiamati mortali. Questo è il destino tragico di
tutti gli esseri su questa terra.
Forse per un attimo di pietà o forse per un immenso disegno di egoismo, la
natura ha dato ai viventi la possibilità di generare altri esseri simili a loro
in una rotazione continua di vita e di morte. Ognuno possiede solo il breve arco
di tempo che gli è dato in sorte, misurabile però paradossalmente nell’istante
della fine.
Soltanto l’uomo, in una mera illusione di potenza, sogna di essere eterno pur se
consapevole che comincia a morire già dal primo istante di vita. Vita e morte
altro non sono che i due attimi fondamentali del suo tempo, strettamente
correlati tra loro al punto da prendere significato l’uno dall’altro.
Eppure la morte non è veramente la fine per tutto e per tutti. Per chi crede
in Dio è solo l’attimo del transito verso un mondo promesso. Nessuno ne è
sicuro, ma per non di-sperare, il credente crede e lo professa sempre. Per
questo ci nutriamo di speranze, per questo ci abbandoniamo alla disperazione
quando la speranza crolla.
Per questo ci alimentiamo di fede.
La fede, ciò che dà sostanza alle cose non parventi, ha scritto un grande
filosofo dell’antichità. La fede è il dono che Dio ha dato all’uomo per non
disperare.
La pianta, il fiore non hanno fede, ma sanno che devono morire per ritornare a
vivere. Sanno che i semi dei loro frutti immersi nelle zolle torneranno piante e
fiori sulla terra per altri frutti e altri semi. Non importa dove li porterà il
vento. Sanno che il loro destino è rinascere.
Chi non crede nell’aldilà, è
costretto ad affidarsi alle regole della natura, a quella legge del “nulla si
crea, nulla si distrugge, tutto si trasforma, che garantisce comunque un
ritorno. Nessuno sa come, quando, dove. Ma la speranza di un ritorno sostiene la
fatica di vivere.
Qualcuno è entrato…/ Qualcuno tra me e te…/ Qualcuno ha divelto il tetto / ha
lasciato libere le ali / di andare nel mistero
Questa è la speranza che sostiene l’umanità. La paura di finire si fa
speranza di un dopo luminoso, che trasforma il silenzio del presente in un
abbraccio caldo e accogliente anche se i segni dell’assenza sono come frasi che
frastuonano.
Nel mio grigio ogni tanto una luce rischiara.
Ed è proprio nella continua
ricerca della luce che Laura ha trovato il “verbum “ dirsi.
E sono sempre parole d’amore per chi ha dato un senso alla sua esistenza.
L’amore è quel filo che ancora si dipana per lei, ora dopo ora. L’amore che ha
saputo creare meraviglie, che ha tramutato l’aria pesante in brezza che ristora.
L’amore che si fa materia per essere colta dai sensi, che diventa presenza pur
nell’assenza, che le dà la forza di pronunciare il suo nome per dare voce al
silenzio, per tramutare in luce l’ombra di un vuoto, che permette ancora, al
limite dei reciproci orizzonti, quella fusione emozionale e spirituale tra le
loro anime, che riesce ad andare oltre il limite umano. E non è solo ricordo. E’
reale.
L’amore per Laura, ha un solo volto, un solo nome.
Tra gli abiti / è rimasto
l’odore / a trascinare la mente / alla meraviglia di un tempo / a tramutare /
l’aria pesante / in fine brezza marina. / Continuo a parlare / a pronunciare il
tuo nome/ nella presenza-assenza/ necessità / per dare voce al silenzio. / Un
modo per dare luce / allo spazio dell’ombra- così / al limitare del nostro
orizzonte/ ci penetriamo.
E’ questa la poesia più
bella, quella che maggiormente giustifica la fatica di questo nuovo cammino, che
dà un senso vero allo scandaglio sistematico della sua anima nel susseguirsi
delle pagine, che si rivela nelle sue riflessioni, che ci guida passo dopo passo
ad essere compartecipi della sua sofferenza e delle emozioni che ancora
continuano vive.
Tutto il mondo di Laura sta in questo amore totalizzante. Questa è la fabula
vera della raccolta, questa è la verità, attorno alla quale ruotano le altre
verità universali, tutte funzionali per capire la dimensione di questo
sentimento. In questo modo gli accadimenti, gli elementi del mondo, le risposte
già date si trasformano in un corollario necessario per comprenderne la forza e
la grandezza.
Laura, ancora immersa in questo sentimento non riesce a staccarsi, per trovare
le altre forme d’amore che pure esistono in questo mondo.
Questo è il suo limite di donna.
Questa la sua grandezza di poetessa che nell’amore e nel dolore, riesce ad
inserire tutti i perché di un’umanità che vaga incredula e confusa in un
presente che è sempre più privo di punti di riferimento e di certezze. Lei il
suo punto di forza lo ha trovato da tempo ed è l’amore.
Verso quell’amore che è ormai trasceso dai limiti terreni, tanto da farsi luce,
continua i suoi passi.
La raccolta si conclude con la speranza di un dopo che premi la fatica.
Ed è un’attesa che si nutre però del ricordo dell’attimo primo, quello che per
entrambi è stato la scintilla del sentimento umano, ma anche la fonte di
ispirazione artistica, momento di nascita e di creativa fusione, quello da cui è
iniziata la loro esistenza.
La strada che intraprende quindi riporta all’inizio. Una linea curva chiusa, un
cerchio dove ha inserito il tutto della sua anima che si racconta in modo sempre
più profondo.
Attendo tra il mio sguardo e il tuo / avvolto nell’etereo- / che l’aria
rifranga un cenno / arretrato nella storia / dove la scintilla tra me e te / era
fuoco d’ispirazione. Mai la materia /
ardeva tra le ceneri / di un tocco antico - ma sempre / latente il desiderio /
era necessità di un fondersi continuo / tra il tuo volere e il mio.
Spinea,15 aprile
2023
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