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Voci tra le pieghe dei passi
Giustamente Paolo
Ruffilli, in apertura della Prefazione, afferma che questo libro è “originale,
nel taglio, nell’orchestrazione, nelle figure e nelle situazioni”. Infatti, per
certi versi, Voci tra le pieghe dei passi è opera sperimentale, in bilico
tra la poesia pura e la prosa poetica e, rispetto al contenuto, tra cronaca e
storia, in un discorso che ingloba le diverse sfumature della realtà e della
metafora, del dolce e dell’amaro, dell’ironia velata anche e del tragico. Un
gioco in parte enigmatico – tipico aspetto, d’altronde, della poesia – che
lascia varchi diversi all’interpretazione, che suggerisce, sicché al primo
significato lineare se ne possono aggiungere altri. E’ colloquio e soliloquio e
le parti sono distinte anche graficamente, con l’utilizzo del carattere normale,
del corsivo, del maiuscoletto. Vario è pure il verseggiare – lungo, breve,
brevissimo –; vario l’utilizzo degli spazi; le fughe destra/sinistra;
l’alternarsi verso-prosa; improvvise le scudisciate immaginifiche e il mutare di
tono. Così, si ha l’impressione di stare nel raggio di una girandola, e non solo
per la forma, ma anche per i significati. Viene, spesso, cioè, smentito quello
che un attimo prima era apparso certezza, quello che la poetessa aveva
presentato come verità assoluta. Contraddizioni tra personaggi e tra lo stesso
personaggio, che poi, non sono e non è che l’autrice stessa. Si è spiazzati, ma,
alla fine, si comprende che la Pierdicchi ha voluto dar corpo alla confusione
del mondo e dell’uomo che si dibatte tra materia e spirito, tra verità e
menzogna, tra sublimità e aberrazioni, alla continua ricerca di un equilibrio
sempre lontanissimo.
Il poemetto
– che
di poema si tratta – è strutturato in una breve premessa e tre tempi. Nel primo
partecipano la voce paterna, la voce descrittiva e quella materna; nel secondo,
la voce descrittiva, la voce femminile e la concettuale; nel terzo, infine, la
voce concettuale, la femminile, la descrittiva e la voce sociale.
Dicevamo di cronaca
e storia. Alla vicenda personale – la più marcata – se ne associano altre,
comprese storie terribili – così ci sembra di capire – di ebrei veneziani (“piccole
botteghe”, “case unite dalla storia”, “Uomini
| caduti nell’ombra -
smarriti bruciati | colpiti in nome di un assurdo potere”. Ma è il mondo
quotidiano di una donna che la moviola ci srotola, ora accelerata (quando, per
esempio, descrive il formarsi del corpo dall’”involucro di cellule in
evoluzione” al “consapevole esercizio dell’essere”), ora lenta, in un
narrato mutevole, tra rime (rio/sciacquio, tensione/trasformazione) e assonanze
(tetti/merletto, cristalli/campielli) esterne, ma anche interne
(previsioni/tensione).
Il primo, è il
tempo dell’infanzia e dell’adolescenza; il secondo, della giovinezza e della
passione col “caldo sangue del pensarti”; il terzo, della maturità, con i
tanti dubbi, le ferite nel corpo e nello spirito che portano alla consunzione: “La
peggior morte | è quella che sposa il vivo || il vivo che agli altri sorride | e
dentro | non si contano le croci”. E si allude, forse, anche a una nascita
mancata: “E il fiore non sbocciò”. Turgida, in precedenza, l’immagine di
lei che “andava | in assoluta libertà di pensiero”; lacerante la “scissione
anima | corpo” che “chiede | di distinguere”, perché “Il bene e il
male si presentano | all’udienza”. Il mutare del sentire è a seconda la
stagione temporale ma anche interiore, aperto sempre, comunque, “come la
finestra a primavera”.
Ci piace mischiare
i vari cicli vitali: infanzia-giovinezza-maturità. La donna si sente “luce -
sole nascente | per una possibile solo (sua) | arroventata strada”; i
suoi occhi vedono in modo diverso e lei ora assapora “il caldo
tepore | dell’amoroso inganno”, ora la carne non è “ben definita”, ora
il cuore conduce “la guerra dentro” (trasformazione costante che la fa
maturare ogni giorno), ora è la natura che tutta la confonde: “Sono il
fiore. || Tu il prato | dove sfoggiare i miei colori”. Le figurazioni sono
sempre calzanti e altamente evocative. La città prima coinvolge, poi è
coinvolta: “Venezia è intristita”. Alla fine, l’immagine di Venezia è
completa, con i suoi rii, i suoi colombi, i gabbiani, i riflessi, le ombre, le
calli, i ponti, i palazzi come ricami nello splendore della luce o nella bruma
che rende ogni cosa irreale.
Il terzo tempo è
quello più vicino al nostro sentire, per quella carica scoperta di sociale,
perché più marcate sono le contraddizioni della società moderna. Diciamo, per
esempio, della folla di turisti che trasformano la città in “Una nuova
Disneyland”; dell’altra folla, quella degli immigrati in fuga “da paesi dove
i figli/germogliano in sproporzione”; della sua casa abbandonata, nella quale “un
nuovo piede un piede estraneo entrerà”; del disfacimento di tutto ciò che è
stato il suo mondo, i suoi respiri, i suoi sogni; il vedersi trasformata anche
fisicamente in sua madre, con i suoi stessi geni, forse i suoi stessi pensieri,
perfino i suoi stessi vestiti. Diciamo della fede in Dio, al quale la poetessa
innalza “la (sua) parte serena | per piangere anch’ (essa)
trasparenti rugiade”.
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Recensione |
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