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Si
comincia a leggere questo libro per fare onore alla Dickinson, si seguono le
pagine con qualche perplessità – vi manca la forza per costringere l'americana
in un angolo per poi proseguire in scioltezza? – e si raggiunge la fine con
un'altra domanda: l'intento sfiorato da Laura Pierdicchi poteva essere diverso?
Occorre cautela in questi casi: il rischio è quello di affrontare un percorso
che non sia quello giusto, il rischio è anche quello di liberare sensi troppo
lontani dal gusto dell'autore.
"...e senza forza | senza volere | mi lascio occupare." Queste poesie sono
quasi del tutto immobili di fronte all'evento, forse vorebbero cancellare le
ombre da cui nascono ma subito vanno verso una quiete che blocca ogni impeto,
ogni riflusso di fuoco. Eppure si sente un ronzio ininterrotto, una specie di
lavorìo avicolo che, non mutando, si capisce come possa dare origine a tutta la
raccolta. Non ci sono deviazioni in ogni sua parte, gli interessi e gli sguardi,
l'attesa e la "schiavitù volontaria" dell'autrice restano sotto la superficie
degli eventi – ne colgono puntualmente gli esiti ma non c'è volontà per
modificarli. Ecco come la Dickinson può emergere vittoriosa da questo stato di
cose, e come, forse, per Laura Pierdicchi sia esaudito un compito.
La distanza dal reale, che non è distanza dalla vita, confonde i passi, fa
assumere "atteggiamenti diseguali": questo suggerisce l'autrice in una delle
poesie più compiute del libro. Ma fino a che punto si può arrivare per ottenere
una via ai versi tanto stringente? Forse occorrerebbe ignorare la luce
abbagliante delle stanze per dedicarsi alla luce naturale del giorno. Il
coraggio di una metrica così secca, andrebbe dirottato sulle bufere terrestri.
Lontani dalla bonaccia, lontani dal sentimento mimetico, direbbe Pavese. Ma
questo, bisogna ammetterlo, è un piccolo punto di riflessione – molto piccolo,
per la verità.
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Recensione |
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