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Prefazione a
Voci tra le pieghe dei passi
di Laura Pierdicchi

la Scheda del libro

Paolo Ruffilli

Ecco un libro originale, nel taglio, nell’orchestrazione, nelle figure e nelle situazioni: una sorta di sceneggiatura teatrale in versi, a più voci giocate a ricomporre il quadro storico ed umano del secolo passato. E il percorso si compie integralmente attraverso la poesia e perciò il testo si dispone all’interferenza consapevole/inconsapevole di quell’operazione intellettuale che, nella molteplicità e contraddittorietà dei suoi atteggiamenti psicologici, esprime l’ossessione, l’incubo, il dubbio, accanto al sogno, alla speranza, alla logica. Ogni racconto della realtà così detta oggettiva di ogni singola voce passa attraverso quel viaggio onirico che ne fa materiale di deriva. Ma la deriva, qui, ha il moto di un’oscillazione più propriamente periodica; con la dolcezza, sia pure angosciosa e angosciante (quale dolcezza non lo è?), di una memoria ostinatamente ritornante, relativamente a quei preludi del passato e relativamente a quei tanti “io” e “tu” di continuo evocati e di continuo perduti, di cui sono intessuti i discorsi di queste pagine.

Già dal titolo Voci tra le pieghe dei passi discende l’oscillazione di cui si diceva, anticipata dalla rivelazione a monte di quei passi e dall’allusione a quelle pieghe tra le quali qualcosa è destinato comunque a perdersi, sul limitare dei sentimenti, nell’immagine che si accende e poi si spegne svanendo. E il riscontro di questa presenza/assenza si definisce in una specie di dissociazione benigna in cui i due volti (o le due parti) di una stessa personalità (l’autrice e il suo alter ego, ogni volta), interferendo inevitabilmente tra di loro, lo fanno, il primo – l’io sé –, in modo spontaneo e diretto (insomma, riflettendosi) e, il secondo – l’io altro –, con la consapevolezza addirittura propedeutica della regia e dell’imposizione di rotta (organizzando, insomma, il filo del discorso).

Il tutto è alimentato da una coscienza femminile enigmatica, che consegna alla trasparenza del linguaggio una stratificazione di significati continuamente rimessi in gioco da un’ansia profondamente morale.

Sprigiona da queste pagine una poesia come luce segreta che dalle cose rimbalza improvvisa verso la decifrazione possibile del mistero e come ansia che punta zigzagante a doppiare la meta della condizione incognita. Il disagio delle singole voci si trascrive talvolta in invocazione, qualche altra in stupore o nell’incertezza, si accende di un fuoco che, tra accenti di sofferenza e di passione, fa rivivere sulla pagina l’avventura di corpi e di cose alla deriva nel tempo.

La vita appare sbarrata dal presente apparentemente assurdo e incomprensibile. Eppure l’impossibile corteggia l’uomo con i suoi soffi inafferrabili, con i suoi lampi dal buio, che lasciano intravedere una comune misteriosa salvezza dell’ultima sponda. La morte che tende agguati in ogni piega del giorno, adulata, esorcizzata con la magia della parola, sovrasta comunque uno scenario di paure ataviche. Ed è proprio a proposito del tema della morte che si registra una delle novità del libro, nel segno di una maturità degli estremi per cui la vita e la morte si toccano e proprio nella morte, dentro lo spazio visionario della poesia, si ritrova la vita.

La contiguità con il dolore e con la morte segna Voci tra le pieghe dei passi, ma si dichiara più che nel grido o nel soffocato commento, nell’inventario dilagante degli oggetti di una quotidianità stranita. Il ricorso all’elenco delle cose, nella sottolineatura involontaria dell’exsistere, del balzare fuori di ogni oggetto, suscita indirettamente il senso religioso di ansia, quasi nel contrappunto del vuoto che assedia le cose. Ed è questo contrasto tra pieno e vuoto a riproporre, con crescente intensità, un’opposizione tra immagine e oggetto che è, più propriamente formulata, un’inedita contrapposizione tra anima e corpo senza soluzione di continuità, senza speranza di conoscenza.

Sono stati i critici precedenti come Bárberi Squarotti a indicare il salto per cui la poesia di Laura Pierdicchi ha convertito in forza di avvertimento la debolezza, invertendo con un piglio niente affatto accademico, imposto si direbbe dalla stretta dell’età e dalla durezza dei tempi, l’accento depresso in enunciato di tenore drammaturgico, dalla vibrazione lirica. E la forza della poesia della Pierdicchi sta nella pronuncia melodica in cui si traduce l’ansia morale, in un dettato fermo e insieme sinuoso, dentro al quale riescono a convivere partecipazione e distacco.

La poesia della Pierdicchi è commisurata a regole precise, a canoni addirittura classici. Limpida, lucidissima, sul piano della forma, ma densa e avviluppata in grossi nodi drammatici, quanto a sostanza. In questo senso, la contrapposizione di situazioni divaricate e diversificate (anche attraverso l’evidenza di prima istanza della differenza dei caratteri) è una costante della natura di questo frantumato canto esistenziale corale.

La fuga del tempo, il defilarsi delle occasioni e delle circostanze, il dissolversi graduale della vita nella Storia più generale puntualizzano e contraddistinguono in larga misura tutto il libro. È una poesia drammaticamente consegnata alla consapevolezza dell’incontro paradossale tra l’eterno e il tempo, tra il finito e l’infinito. E l’aspetto stilisticamente più rilevante che vi si attesta è l’equilibrio sorprendente tra il senso dell’abisso e la compostezza delle superfici.

Materiale
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