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Liceali. L'insegnante va a scuola
Colombi dirompenti nel cielo azzurro della vita
Un’opera scritta con amore e per amore, per i
giovani e con i giovani, l’interessante proposta letteraria di Francesca Luzzio;
un libro che più che appartenere ad un genere (e, dunque, a se stesso ed
all’autrice) è offerto alla totalità, ad una generazione nella quale si specchia
la coscienza di un’intera comunità, la responsabilità dell’uomo e della donna
adulti e moderni, che hanno frettolosamente apparecchiato una tavola sfarzosa,
ma povera di materie prime.
Ed è dal titolo, meglio, dal sottotitolo che
intendo partire perché sempre più chiaro appaia lo spirito che sostiene la
necessità di dare vita ad un lavoro di questa natura. La Nostra - professoressa,
ora a riposo, di italiano e latino nei licei - intesta così la sua fatica
letteraria: Liceali - L’insegnante va a scuola: bene - come detto -
trovo molto significativo quell’andare a scuola; un’azione che presuppone
qualcosa di diverso e si presta ad una duplice chiave interpretativa. Il recarsi
a scuola viene comunemente ascritto a chi la stessa frequenta per apprendere,
allo studente; nel caso in questione, però, anche e non meno, al docente, che la
raggiunge in quanto, ovviamente, sede del proprio impiego ma, altresì, luogo
dove egli stesso impara. È questa particolare sorta di conoscenza, che senza
imporsi diviene indicativa di un ammaestramento, a costituire la base solida e
sicura dalla quale si origina sia la scrittura in prosa che in versi di cui si
sta disquisendo: “La bellezza della letteratura, dunque - sostiene Gros-Pietro -
non sta nel fatto della pienezza declamatoria, ma risiede invece nella potenza
solutiva della comunicazione destinata a travalicare tutte le barriere…”. E gli
impedimenti ci sono, sono imponenti come catene di montagne insormontabili,
tanto invalicabili da smorzare, il più delle volte, persino la più decisa
determinazione a scovare il passo o a scavare il tunnel per raggiungere l’altro
versante: è nella vallata contigua che si trovano i nostri giovani; gridano, si
ribellano, si rifiutano di vivere nel pantano scegliendo paludi che nascondono
sabbie mobili ancora più pericolose.
La loro richiesta d’aiuto, però - perché di
questo in definitiva si tratta - resta inascoltata; lo scontro generazionale,
che sta nella naturalità delle cose, rischia di trasformarsi in mèra assenza di
confronto, in incomunicabilità. Ben venga, allora, chi va a scuola per imparare
ad insegnare, perché per tentare di sanare la frattura bisogna, prima
immedesimarsi nel dolore che prova chi ha le ossa spezzate, comprenderne le
cause e, poi, insieme, farsi forza per riprendere il cammino. Inizia, perciò,
col raccontare l’autrice: sono storie vere, drammaticamente vere, e occorre
prenderne atto subito (mi ripeto: è il primo passo, il primo colpo di piccone
nella roccia). C’è grande coinvolgimento, ma la discrezione, il tenersi in
qualche modo volutamente ai margini è - a mio parere - la nota dominante:
intendo dire che la Luzzio non interferisce, non prevarica intromettendosi nel
narrato; lascia la parola agli alunni, concede loro la massima libertà di
espressione per carpire ogni tenue raggio di luce che filtra da un cielo
plumbeo, troppo spesso uggioso e soffocato. Per ribadire il concetto, voglio
fare un sensibile balzo in avanti ed arrivare alle ultime pagine, per
l’esattezza alla 125, riservate alla poesia: vi si trovano i versi de Il
senso della vita, dedicati - come la scrittrice stessa dichiara - “agli
allievi che l’hanno compreso”. Li riporto quasi integralmente: “Ogni giorno buio
o banale che sia / contiene luce di verità. // Lo sa Maria che indora i sentieri
/ e vive inverni di primavera. // Lo sa Marco che annusa profumi intensi / di
amore che sillaba preghiere. // Lo sa Teresa che guarda cieli di bellezza / e
sazia la mente che sorbisce / granite di sole irradianti serenità. . .”cosicché
non si renda necessaria qualsiasi ulteriore spiegazione.
Dopo la digressione,
tuttavia, prendo di nuovo in mano i racconti e ascolto quelle voci: sono macigni
che cadono, mi feriscono ma non esistono altri modi per instaurare una
comunicazione. Già dalla lettura dei primi testi si entra nel vivo delle
problematiche esistenziali del mondo giovanile, ed è come fare un bagno in un
mare agitato da tempeste che a volte si scatenano in tutta la loro irruenza,
altre agitano la superficie, altre ancora sembrano togliere qualsiasi speranza
di placamento. Ma è un mare in cui dobbiamo immergerci se non vogliamo rischiare
di annegare veramente: penso a Buttiamocela, una storia d’amore nella
quale s’intrecciano sentimenti contrastanti; il marinare la scuola
(“buttarsela”, appunto, nel linguaggio loro congeniale) è l’occasione giusta per
una coppietta d’innamorati per vivere intensamente una travolgente passione. La
descrizione del luogo scelto “in silenzioso accordo” dai due prospetta una
natura armoniosa, che cattura e protegge, che gode di quelle carezze (“Alice e
Giovanni si sentono come nubi vaganti nel cielo che forte vento spinge a unirsi,
ad amalgamarsi…”), un vento che “soffia leggero tra i rami che (anche loro)
sussurrano parole d’amore (mente) pudico, lo scroscio delle fontane sorride.”.
Fin qui, nulla di nuovo sotto il Sole: sono momenti pervasi da afflati
“mistico-carnali” che molti di noi hanno dimenticato ma tutti abbiamo vissuto;
neri nuvoloni, però, si affacciano all’orizzonte (“Sai Giovanni, io, io aspetto
un bambino, le precauzioni prese non sono… - confida la ragazza al ragazzo, il
quale “con arroganza, dandole… uno spintone” replica: “Che dici? Ma chissà con
chi l’hai fatto…, sei una puttana chi sa con quanti ti sei messa! - e scappa via
come un toro infuriato.”. Dov’è finito il Sole di quella giornata straordinaria?
Perché, adesso, il canto della natura è sovrastato da rumori assordanti? Perché
la bellezza è coperta da cumuli di nefandezze, di sudici detriti? Ecco, allora,
che iniziano a bruciare le ferite: la signora Maria (la madre di Alice) si rende
conto che per proteggerla ha finito col perseguitarla, giungendo a farsi
ingannare; non le resta che rimediare accogliendo “con comprensione amara” non
soltanto sua figlia, ma il nuovo germoglio di lei.
Sono
problemi, oggi, all’ordine del giorno e, quello citato, non è che uno dei tanti.
Ovviamente non posso soffermarmi (anche per non togliere il gusto della lettura)
sui singoli episodi, ma ciò che li accomuna e su cui è doveroso e importante
riflettere, per assumerci le nostre responsabilità, è l’errore della nostra
generazione. Non dico certo nulla di nuovo asserendo che le colpe dei genitori
ricadono sui figli, ma è indispensabile fare autocritica (basta leggere le
parole del padre di Mario, durante il Consiglio di classe della IV F, a
pagina 27). Se proprio si vogliono ricercare le cause per risalire all’origine
del disagio giovanile, queste non vanno (lo dico con assoluta convinzione)
rintracciate nei loro comportamenti, nella loro ribellione; occorre, invece,
‘andare in pensione’ con l’emozione di essere - come la Nostra limpidamente
scrive nella poesia riportata in quarta di copertina - “Esaminatrice
esaminanda”, di “chiedere e soffrire”, di “gioire in voi per voi, / colombi
dirompenti / nel cielo azzurro della vita”.
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Recensione |
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