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Il
libro di Laura Pierdicchi scorre lungo un percorso temporale: lucido, cosciente
viaggio condotto a ritroso, vissuto nel presente, proiettato nel futuro. Il
gioco del tempo è pilotato nei rapidi, fulminei accostamenti evidenziati in
neretto ora a evocare momenti perduti, ora a contrastare attualità e il neretto
accompagna tutto il testo con la funzione di attribuire tono a tono ma anche con
quella di agire da sottofondo corale: il pathos consumato nell'oggi ha radici
antiche, in ramate trecce e bianchi cavalli.
La Pierdicchi si osserva mutare, le ansie, i tumulti delle sensazioni dei
giorni chiari dell'infanzia e dell'adolescenza e poi la bambola curata che sente
spente in sé le emozioni che davano sapore al vivere, il freddo, la
consapevolezza di come anche gli affetti più cari potrebbero concludersi, gli
affetti che avrebbero potuto completare negati. È una rappresentazione tenera,
struggente dell'essere donna, amica, amante, sorella, è sentire che in ogni caso
ogni situazione è svolta, capita e che c'è sempre una ricerca di un qualcosa
d'altro intuito nella solitudine che si conclude come appunto si conclude un
viaggio: il Volto.
Dal gesto d'inizio ha quindi un significato che va oltre la
temporalità, è un'indagine del proprio esistere ma anche tensione verso valori
che oltrepassano il terreno e la Pierdicchi vi aspira, negli accostamenti
linguistici vedo/vivo in cui l'essenza del vivere è vedere, vedersi dentro,
vedere l'altro e vedere più in là. Gli accostamenti dei termini sono felici, a
volte completano un concetto, a volte lo contrastano e lo svelano:
estranei/strani, usati/gettati, stanza/casa.
La disposizione spaziale dei versi crea pause assonanze che sono volute ma
che determinano un contesto poetico costruito con agilità e sapienza tecnica ma
non solo.
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Recensione |
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