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“Canto solitario sul mare | e lucerne lontane | colmano le pareti della nebbia | e schiene curve mostrano sui remi: sono uomini che vanno alla deriva | o è la rotta giusta per tornare ?”.

Questa è il fotogramma immaginifico che più rappresenta l’opera qui in esame, fotogramma liquido che per uno scherzo tecnico si contorce ed espande come le gocce d’inchiostro multicolore di una tela suminagashi.

Le gocce sono domande, quaestiones che via via erompono invadendo gli argini delle riflessioni del poeta: “Chi corre lungo i margini dell’ombra?”, “Quali velieri osservano i fanciulli?”, “Chi accende la lanterna | nell’avanzante notte?”, “Chi traccia sentieri verso nuove albe?”, “Chi ruppe il calendario dei sogni | che ritmava il nostro stare insieme?”, “Verrà stagione che | non contenga l’ombra? | E i frutti avranno polpa d’universo?”, “Cosa incendia l’anima e l’abbaglia?”, “Chi colora la fronte della sera?”, “Quale mano chiude l’orizzonte?”,”E quale fiamma scalda l’Universo?”.

Raccogliendo questi interrogativi, frazionati e seminati nelle giuste distanze versicolari, le riponiamo in quella che diviene una gerla colma di sete sapienziale.

Il poeta riabbraccia il suo avo filosofo (così come un tempo anche lo scienziato trasse da qui le sue origini, a dire della centralità dell’ansia conoscitiva che si declina lungo i rivoli di arti e scienze, le più diverse) e si fa portavoce di quella che potrebbe essere la metafora della sua stessa esistenza, prossima ad una stagione crepuscolare (da cui il titolo, forse a simboleggiare la cosiddetta “terza età”), ovvero ricca di riflessioni e di arricchimenti lirici che da essa scaturiscono e non certo periodo arido e rinunciatario.

In effetti troviamo testimonianza di questa possibile lettura, nei versi: “Esaudito il desiderio | dei sensi, le acrobazie | del sangue nelle vene, | il gioco eracliteo | del fondere e dividere, | vado cercando la parte | che mi manca oltre | l’orizzonte dello sguardo | per chiudere | la circonferenza del viaggio”.

Proseguendo lungo i testi delle liriche, la metafora femminile e il paesaggio marino emergono quali due presenze costanti.

Donna amata e rimpianta, strappata da un torto dell’esistenza materiale, che si chiama tempo, e sconfina per i più nell’accettazione, per altri nella malinconia e nell’attesa, per altri ancora nella rabbia.

Donna perlopiù indagata nella sua simbologia classica relativa alla fertilità (“il tuo sorriso: | mammella colma di latte”) e al magnetismo sensuale di circeica memoria, ma in taluni casi rinnovata da figurazioni originali come: “Hai il capo adagiato sulla luna, | se ti guardo dal basso, | il viso nella schiuma delle ombre | sopra gli abissi della chiara notte”.

Intendiamo soffermarci, non tanto sui rimandi mito-storici di cui l’opera è intarsiata in giusta misura e che esemplificano la solidità culturale del nostro (già ottimamente esposti e rilevati da Eraldo Garello, nella prefazione), piuttosto su alcune efficaci metafore o raffiche che vengono esplose tra i flutti di una versificazione nel complesso gradevole.

Colpisce conoscere che “Una lepre s’è persa nel recinto | e spaventata nel prato s’avventura. | Uno sparo ne fulmina la fuga. | Restano gli occhi abbandonati al buio, la galaverna bagnata di sangue.”, colpisce perché dopo sono “Corpi, corpi in divisa | fucili sulle spalle. Croce uncinata. | Stivali che battono la marna. Ombre con righe, curve, fetore! | Stella segnata. occhiali rotti. | cristalli di dolore. | L’uomo nel fango!” e allora capiamo, così ci pare, che lepre ed ebreo si identificano nell’Auschwitz del Nostro.

Echi hemingwayani (v. Fiesta (il sole sorgerà ancora)) emergono nell’omaggio a Giorgio Bárberi Squarotti, Nell’arena, ove “L’occhio azzurro del toro | si posa mansueto | sul volto di chi abile | ne ha conquistato il regno, | la superba eleganza, | la poderosa unghia | che battendo la zolla | alza vive scintille | forse persa in un sogno | di stelle e di galassie”, ci lasciamo trasportare da quei “Tiepidi venti” che “salgono | dalle azzurre marine, | scompigliano i capelli | a superbe fanciulle | che in abiti discinti | invadono l’arena”, in una sorta di celebrazione del mito della virilità.

Peccato che l’enfasi tracimi, opinabilmente, in un brindisi metaforico tra toro e torero che “Nel cerchio della lotta, | avvolti nella vampa | che dagli astri discende, | toro e torero innalzano | un canto armonioso | e alle fanciulle porgono | ghirlande di bellezza, | colme di ebbrezza, | la danza della vita”, generando una dissonanza, che nasce dalla discordanza fra volontà e costrizione, tra i contendenti attori sulla scena.

Con riferimento a quanto detto in apertura, il Chiellino effettua la sua ricerca filosofica attraverso i versi, ammantati da quest’atmosfera di luce calante: ben paragona, e poi differenzia, “Tulipani, narcisi e giacinti”, ai “nostri cari nelle loro fosse”, che “hanno radici esposte” “e non apriranno più nuove corolle | ma ci mandano le loro immagini | sbiadite, le loro mute parole | e con filo sottile di memoria | ci legano all’eterno | e a noi basta”, mentre i primi, “che sembravano scomporsi” mentre “i loro bulbi”, invece, “hanno messo nuove radici per succhiare | gli umori della terra”, per parlarci, forse, di un ponte sull’aldilà, costruito su archi di memoria.

Il poeta confida, buon per lui, nella memoria quale àncora di salvezza perché “Per mia fortuna nessuna lama | uccide la memoria” e, forte di essa, quasi fosse lucente Durlindana o bastone di quercia millenaria trova la forza di avanzare nello spazio del tempo: “L’anima è sospesa a un dirupo | sostenuta da memorie di luce | sopra i cupi abissi della notte”.

Egli si fa pescatore di ricordi (“L’amo s’immerge | e pesca in acque fonde | dove passano rapidi i ricordi: un nastro rosso | fra i capelli biondi, | una perla lucente | fra le ciglia | e una promessa | sul fuoco delle labbra” ci fanno sognare per un poco, per poi aprirci gli occhi (o aprirli a se stesso): “Quanto silenzio | fra la spiaggia e l’amo! | E il tempo è ala | di volo che rapina”.

Ci piace rilevare, in quest’opera che offre diversi spunti, ancorché non risulti avvinta ad un corpus focale così solido come in opere precedenti (forse già nelle intenzioni creative, di diverso orientamento e respiro, come evidenziato da Eraldo Garello) come La lucciola e il fanciullo suggerisca qualche affinità con la metafora della “lanterna di Diogene” quando, lungo il percorso lirico, dopo aver subito la fascinazione luminosa di quella “lucciola”, che “nel cuore della notte | prova una memoria di astri | e inventa i campanili del mattino”, ritroviamo il bimbo “Col suo lumino acceso fra le dita” che “supera anfratti, supera fossati, | lacera il manto nero che l’avvolge.”

Altri affreschi lirico-descrittivi emergono dallo scorrere piano di versi amabili, tuttavia, alla nostra percezione, avari di rapimento. Su tutti apprezziamo con convinzione gli apici di Rodi: la valle delle farfalle e Capo S. Lorenzo, mentre sul versante più squisitamente sentimentale e prevertiano, amiamo molto la lirica Il nostro fuoco, autentica sintesi di una parabola esistenziale di coppia che non è banale curva di massimi e minimi, bensì massimo discontinuo (le vette dell’innamoramento, per lo più picchi destinati a risorgere e sprofondare ciclicamente) che trova la saggia misura (“le profonde e quiete rughe del saggio”) per tramutarsi in “fiamma bassa che perdura”, svelando il segreto di un amore che si evolve, matura e rinnova la sua linfa vitale attraverso lo scorrere dei decenni.

Una poesia “senza grilli per la testa”, quella di Giovanni Chiellino, classicamente impostata, amabile con sferzate di brio, che troverà riscontri e apprezzamenti nei lettori “più di maniera”, affascinati dagli scorci liricamente paesaggistici, così come dalle estrinsecazioni della sua vena sentimentale (su tutte, Le viole) o filosofica, a tratti attratti, o tratti altrove, dai suoni fascinosi di versi quali: “Ultimo venne il vento | e porto via le parole, portò via il tempo. | Rimase il nodo delle nostre attese | e l’azzurra criniera dei cavalli di mare”.
Recensione
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