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Una regia dell'invenzione della parola assoluta

Una lettura di un corpo di poesie cosi amalgamato e puro, circolante negli accreditati canoni della leggibilità, avviene di rado e quando avviene crea un cortocircuito ad effetto devastante. La materia trattata germina da una febbrile concitazione pervenuta da chissà quale solitudine disperata; può sembrare un paranoico inventare illimitato, e lo è, per spessore o per svuotamento cellulare e per metamorfosi.

Un'immensa macchina di parole, fiuto, di invenzioni relazionali, di stupori e viaggi surreali, tanto da raggiungere visioni di fuoco al centro della terra. La Lenisa si è posta con quest'opera quasi al limite del masochismo: L'ombelico d'oro è un viaggio fantastico nella sponda nichilista, badate bene, avendo la fiducia dell'uomo e, alla fine, la sua redenzione.

Il nitore di certe pagine, le vertiginose picchiate nell'erotismo, sono il frutto aulente di una dimensione indefinita che richiama e anela un dio dello sposalizio nei momenti di grazia. Il libro si presenta aforisticamente di una lucidità trasognata con aspetti prismatici, riccamente alessandrino, intriso in tutti i sensi da un potere dostoevskiano: la parola ha innumerevoli fili, diventa allotropa, si muove in una sfida stilistica che è cifra di cultura allusa e assolutamente inesibita.

Il piglio erotico già dimostrativo in altre opere lenisiane, qui assurge nella parola viscerale, senza produrre scandalo, affiorante da un verseggiare allusivo e parabolico: "Ada Lenisa, | Alessandria ti dona il visto come ad albanese | o slava per curare í fiori. Nessuno qui ti tocca | il pube, il seno | candido, pascoli come una mucca serena tra l'erbe | senza memoria dì parto. | La vita è pace, gioia, sono figli quelli che non hai fatto  | questi giovani dai ricci morbidi (Arthur, Hans, Max), | segnati dalla storia ai quali porti i lini dopo la doccia. | Ma si, non si nasce più, non si muore. Alessandria | è la città dell'amore sterile, | la città del dio". (Il Visto, p.33).

"L'ombelico d'oro, scrive la Lenisa, è "metafora del telecomando, per evocare tempi, personaggi, astrazioni immutabili..." (...)

Dunque, la parola ripetuta all'infinito, pure la risata scoppiata da un guscio inerte? Azione-deiezione per andare pure fuori strada con le munizioni necessarie. Lenisa possiede un bagaglio di congegni che sono le forme allitterate, le sinestesie, le sineddoche – pronte a scalpitare e intimorire il Linguita e, come disse Gianni Celati, – sulla traduzione dei linguaggi inventati – fare del silenzio un grillo parlante.Un libro che si articola nella supremazia della parola tumultuata, planetaria, che può sembrare "straniamento di Nomi" ma cosi non è, perché il fatto – accolto o respinto – diventa trama lineare in un continuum stilistico. Lenisa con quest'opera di forte spessore – anche il sarcasmo ha la sua grazia – riesce a pronosticare inventività di cose, di figure, di grecità; oppure memore della lezione di Mauriac, di Bernanos di una religiosità non virtualizzata ma posseduta. Io credo che questo prezioso scrigno L'ombelico d'oro si ascriva all'epitome lenisiana più rappresentata, avviata sul solco che ripercorre le orme di Omero. Mario Luzi seppe egregiamente apprezzarne il valore, scrisse: ..E' giunta a un punto, forse nel punto più alto di incandescenza del suo percorso"( ...).

Recensione
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