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Importante
non è che Bianca era la stanza sia un poemetto – come vuole l'autrice – o
un "oratorio", come lo definisce Attilio Carminati nella lunga e affettuosa
prefazione; importante è, invece, che sia poesia, scaturita dal profondo
dell'animo per un dolore indicibile, confuso, contrastato, nei momenti di più
acuta lacerazione, da uno zampillare di dolci ricordi.
Bianca era la stanza è il dramma della malattia e della morte del
genitore dell'autrice, scoppiato all'improvviso, come un temporale che oscura un
sole stupendo e distrugge una famiglia unita e felice. A questo dramma sembra
partecipare la città di Venezia, prima specchiata "tra acqua e cielo", con corti
"colme di bambini", saluti, il brusio d'amore, l'intonare "ogni tanto una
canzone"; poi – a morte avvenuta –, con la solitudine ghiaccia, la taciturnità e
"l'acqua" "silente | un liquido elemento...".
Il narrato, a quadri, parte dal momento in cui l'intenso e penetrante amore
filiale scruta "il viola" che "si accendeva" – segno di grande sofferenza –
intorno agli occhi del padre seduto al bar. È il primo, vero, tragico incontro
con la malattia già vestita di morte, subdola, che a lungo sfugge pure a una
esatta diagnostica. Poi, il calvario delle visite, delle degenze. L'inevitabile
fine. Il mondo crolla e il dolore lancinante, sovrumano, vertiginoso, potrebbe
portare alla follia se, a salvare l'autrice, a soccorerla, non venissero il
rigurgito dell'infanzia (con le sue cantilene/filastrocche, anche da noi udite
recitare da nostra madre e dalle nostresorelle) e gli altri momenti felici: vero
e proprio balsamo, il lenimento più delicato ed efficace.
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Recensione |
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