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L'impatto
con la morte, specie di una persona cara, è uno dei traumi più coinvolgenti e
sconvolgenti. Lo struggimento del dolore e della nostalgia si dibatte con il
bisogno di confessione alla pagina e anche di consolazione nella scrittura.
Facile è cedere alla tentazione di un vissuto che reclama udienza e alla
necessità di superare il rimpianto, e magari il rimorso, in uno sfogo personale.
Ma Laura Pierdicchi in Bianca era la stanza riesce a superare una
situazione così privata e intima, come l'esperienza della morte del padre, e a
controllare con il rigore dello stile la intima tensione emotiva. L'autrice
mantiene la linea sicura, già documentata dalle precedenti prove, di un
linguaggio che riflette un'opzione ben radicata nel suo temperamento e nella sua
cultura. La raccolta è sì, diario esistenziale, confessione, dibattito
interiore, ma filtrato dalla ricettività dei minimi valori della parola, dal
sospetto nei riguardi della spontaneità della passione.
Contribuisce a decantare la tensione e a mediare il rapporto fra la
quotidianità e la memoria la complessa architettura della composizione. Il
poemetto è costituito da tre parti intercalate da sezioni metricamente compatte,
come compatta in una città unica è la famiglia unica. Ma un anello della catena
si è staccato per sempre e la famiglia e la città non sono più le stesse.
Diverso è il ritmo dei tre atti e dell'epilogo, costruiti con varietà di
versi e due voci che si alternano anche tipograficamente. Mentre il neretto
segue le constatazioni, le riflessioni, il corsivo si abbandona a divagazioni
che recuperano perfino le filastrocche dell'infanzia, naturalmente con
riferimento allusivo alla partecipazione paterna al gioco. Nei versi compaiono,
come una giaculatoria che rimanda a Jacopone da Todi, le lodi del genitore:
"padre trovato | padre adorato | padre lasciato | padre cercato | padre curato |
padre giocato | padre perduto | padre mio padre mio padre mio".
Più incisive, senza gratificanti cedimenti, le strofe portanti denunciano il
calvario nella bianca stanza, nel bianco letto, protetto dal Cristo del
ritratto. Il refrain "tu non sapevi – gli altri non sapevano" diviene ormai
"tutti sapevano – solo tu | forse non riuscivi a capire". Ma la sensibilità
della figlia recepisce la generosità del padre: "davvero non sapevi? oppure era
amore | il solito gioco per non farci male?".
Controllata è l'emozione dell'ultimo saluto: "coperta di dolore | annullata |
ti ho baciato la fronte | ultimo bacio || con fatica | ti ho sfilato la fede |
ultimo tocco". Ma nell'epilogo la meditatio mortis si eleva con
connotazioni metafisiche: "e voglio dirti che vivere è morire | morire è vivere
| perché tutto ha la stessa matrice".
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Recensione |
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