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Il primo verso
che dà il titolo al libro è di Laura Pierdicchi; nella pagina che segue si
leggono quattro versi di Emily Dickinson, in traduzione, che introducono la
prima parte della raccolta; altri versi della poetessa americana precedono la
seconda e la terza parte. Sono evidenti i richiami alla poesia della Dickinson
da parte della Pierdicchi, più marcati nella prima che in altre due, perché
specialmente in essa il mondo delle piccole cose familiari dickinsoniane trova
spazi e sentimenti affini anche al mondo di Laura Pierdicchi.
Leggo per intero
la poesia che apre e presenta tutta la raccolta: “Dal gesto d’inizio | ad
azione compiuta | il nostro presente | è passato. | Così passato e futuro |
hanno lunghe dimensioni.” Nella pagina che segue, sono i versi della
Dickinson a continuare il discorso poetico: “Una volta ero perplessa | Perché
una volta fui bambina anch’io - | Decider non potevo come l’atomo | Cadesse – ed
il cielo stesse fermo –“.
I motivi della
ricerca linguistica e psicologica sono evidenti nelle due poesie e riguardano le
eterne interrogazioni sui significati di un mondo che si apre, un rimando
immobile in superficie, in realtà percorso da movimenti sotterranei fra passato
e futuro, tra atomi e cielo, in un dialogare tra forme apparenti e forme della
memoria; la ricerca di significati profondi che porta in superficie il ricordo
di oggetti minimi: crochi, foglie, primule, stelle filanti, cotillons. Cose
rimandate “nell’oasi di quelle ore” in cui “l’infanzia germogliava oro”,
ed anche in un altro tempo “Un tempo che incide pazzia” in cui vengono
messe in evidenza le “lunghe dimensioni” del passato e del futuro, dimensioni
che, non trovando sicurezze nel quotidiano, scoprono l’estrema fragilità del
presente: “Assetata ho cucito | una pelle fragile | così le cuciture si
aprono spesso”.
Poesia di
un’infanzia mitizzata e di una sofferta maturità, nel gioco delle passioni e
della memoria il linguaggio si muove per scarti minimi, per allusioni, per lampi
d’immagine, per rapide metafore. Vi sono poche concessioni ai luoghi comuni, ai
banali sentimentalismi, ai giochi poveri di futuro delle nostalgie. Vi si trova
una misura del verso che non concede alla parola se non lo spazio delle sue
sillabe, scandite, essenziali: di qua e di là di esse, gli oggetti, i
sentimenti, le persone sono evocati, spogliati da qualsiasi riferimento
descrittivo. La collocazione di un sostantivo, il movimento di un verbo riescono
a trasformare il colore delle cose, a dare il profumo di una stagione, lo
scorrere del tempo, in ritmi che si iscrivono nel bianco della pagina con suoni
di riti lontani. A rendere più scarno il discorso poetico della Pierdicchi
contribuiscono anche il non frequente ricorso agli aggettivi e l’uso attento
dell’ossimoro.
Non tutte le
poesie sono ad un alto livello, specialmente nella seconda parte in cui mostrano
una ricorrente sentenziosità; la parola allora si fa opaca e l’immagine perde la
sua luce metaforica: “Il giorno che mi lascerai | sarà pioggia di stelle | ad
illuminare la notte | e il mio pianto”. Si avverte il pericolo del luogo
comune e della banalità dei sentimenti nei versi che aprono la seconda parte
della raccolta. Ho notato che le poesie eccedenti i dodici versi, oltrepassando
la misura abituale della Pierdicchi, sono quelle che risentono di un dettato più
debole e di una maggiore monotonia del ritmo, anche se mostrano più di uno
spunto felice.
Gli
appunti negativi valgono solo per alcune poesie comprese nel testo: nel
complesso una voce, quella di Laura Pierdicchi, tra le più interessanti che mi
sia stato di ascoltare nel panorama deludente della poesia italiana degli ultimi
anni ottanta. Una voce solitaria unita ad altre voci solitarie. Ma la poesia è
come un bosco invernale, bastano quelle poche voci e ailluminarlo.
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Recensione |
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