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L’esperienza di Emerico Giachery è maturata in fruttuosi anni d’insegnamento in Atenei italiani e stranieri. Si è espressa in volumi dedicati a scrittori come Verga, Belli, D’Annunzio, Pascoli, Ungaretti, Montale, Antonio Baldini, Albino Pierro; e inoltre a problemi della musa dialettale, della parola poetica da Petrarca a Luzi, dell’interpretazione di testi letterari e anche di sogni. Significativo, già nel titolo, il volume Letteratura come amicizia, dedicato a incontri e amicizie con scrittori. Ora, il succo e il senso di un lungo cammino è racchiuso nel complesso e sfaccettato volume Abitare poeticamente terra.

Centrale, nell’uomo e nello studioso, l’interesse per la poesia nel senso più lato e ricco del termine, come si vedrà.

Intanto, la poesia è stata il cemento della nostra amicizia e reciproca stima, grazie alla quale mi ha onorato con la colta e apprezzata prefazione al mio recente libro Alchimie d’amore. Poesia, che nel volume di Giachery, non è relegata “a un genere o supergenere letterario”, ma è anzitutto “poesia come spiraglio sull’Essere”. Non questo soltanto, tuttavia.

Postasi la domanda se la sua è stata “una vocazione cogente, ineludibile per la letteratura”, l’autore risponde: “Ho ragione di ritenere che difficilmente sarei riuscito con qualche costrutto a occuparmi d’altro”. Racconta poi giocosamente in che modo le lettere dell’alfabeto sono state nutrimento della sua prima infanzia: “Sgranocchiavo biscotti in forma di lettere dell’alfabeto, che i miei sempre premurosi genitori mi porgevano per farmi presto familiarizzare con gli elementi della scrittura. Mi pare a volte di risentirne il proustiano sapore; e mi rivedo nel lettino dalle sbarre di legno, intento a riconoscere ciascuna delle lettere prima di portarla alle labbra. Presagio di un destino di scrittura? Mi divertirebbe crederlo. Però...”. Seguono pagine sui mal riusciti tentativi teatrali e narrativi dell’adolescenza e nella prima giovinezza,

Un titolo, secondo un’affermazione di Mario Luzi, è quasi sempre un mantra, qualcosa di misterioso che viene da molto lontano. Abitare poeticamente la terra è titolo colto come un fiore in un lungo sentiero iniziatico e letterario, spuntato nello specifico da un testo attribuito a Friedrich Hölderlin, che asserisce: “poeticamente abita l’uomo su questa terra”.Ora, “abitare poeticamente” significa, secondo Heidegger, “essere alla presenza degli Dei ed essere toccati dalla vicinanza dell’essenza delle cose”. Sulla traccia di una pagina del filosofo Carlo Sini è anche evocata l’età remota in cui gli uomini ascoltavano la voce della natura non ancora desacralizzata ed è affermata l’importanza del recupero memoriale di queste origini, in piena libertà rispetto ai pregiudizi e ai dogmatismi della logica, della linguistica, della società delle comunicazioni, nell’attuale desacralizzato rapporto dell’uomo col mondo e con la natura.

Dunque l’humus dell’umano esistere risiede in uno stadio di primigenia purezza, che è fondamentalmente poetico. Da questo assioma Giachery inizia la sua personale indagine, non coartata da alcun progetto, ma con la disposizione heideggeriana di “lasciar essere l’Essere”, cosicché le immagini si affollano da sé in una vendemmia ricca di spigolature e di illuminanti riflessioni.

Sono evocate vite esemplari di poeti. Hölderlin, che in alcuni suoi passi, per dirla con Giorgio Vigolo, “comunica uno stato di grazia, d’illuminazione, di veggenza, di purezza come i più alti testi mistici, le sante scritture”. Rilke, che in alchimia pura compie una trasmutazione della vita in poesia come “essenza spirituale”. Una pagina di Rilke, dai Quaderni di Malte, c’introduce, col suo largo respiro, alla potenziale poeticità della vita. «I versi, sono esperienze. Per scriverne anche uno soltanto, occorre aver prima veduto molte città, occorre conoscere a fondo gli animali, sentire il volo degli uccelli; sapere i gesti dei piccoli fiori, quando si schiudono all’alba. Occorre poter ripensare a sentieri dispersi in contrade sconosciute; a incontri inattesi; a partenze da lungo tempo presentite imminenti; a lontani tempi d’infanzia ravvolti tuttora nel mistero; a nostro padre e a nostra madre, che eravamo costretti a ferire, quando ci porgevano una gioia incompresa da noi perché fatta per altri; alle malattie di puerizia, che così stranamente si manifestavano con tante e così profonde metamorfosi; a giorni trascorsi in stanze silenziose e raccolte, a mattini sulla riva del mare; al mare; a tutti gli oceani; a notti di viaggio che scorrevano, altissime, via con tutte le stelle. E non basta».

Ungaretti, impegnato a costruire l’insieme della sua opera come Vita d’un uomo, afferma: “Il poeta scrive da sé la vita. Nelle poesie di un vero poeta, voi vedrete sempre apparire un uomo e vedrete che questo uomo illuminerà tutta la storia dei suoi tempi”. Accanto a poeti illustri è ricordato, per l’irriducibile fede nella poesia come vita, un amico poeta, caro a molti e scomparso un paio d’anni or sono: Elio Fiore, che visse in povertà quasi francescana e riuscì “ad irradiare onde di risonanza poetica”.

Ma abitare poeticamente la terra non è certo appannaggio esclusivo di quanti si esprimono in poesia. Tutt’altro. Giachery rievoca diversi esempi di persone anche molto semplici, dato che “poeticamente” significa soprattutto “con sentimento poetico della vita, con slancio e apertura d’orizzonti, senza calcoli e meschinità”. Un esempio: Eugène, suo carissimo amico d’Oltralpe, “tassidermista” (cioè preparatore di animali impagliati per un museo di storia naturale). era capace di “offrire positività, costruttivo ottimismo, benevolenza. Con serena e sorridente schiettezza, senza ombra di retorica, sapeva rendere omaggio alla vita, all’amata compagna, alla bellezza dei luoghi, perché potessero diventare paesi dell’anima”.

Abitare “poeticamente” la terra significa anche abitarla “pleromaticamente”, e cioè in tutta la sua pienezza, iniziando dall’amore della casa che deve impregnarsi d’anima, diventare negli anni “casa con l’anima”, la quale deve contemporaneamente respirare con il cosmo.

In questo senso così lato, la “poesia” del vivere è inseparabile dalla pietas, ovvero dall’attenzione contemplativa, dalla benevolenza, dalla capacità di entusiasmarsi, dal piacere di ringraziare, dal capire e amare ciò che è spiritualmente alto, sia nella gioia sia in quella malinconia che a Benedetto Croce pareva “il volto stesso della bellezza”.

 Il viandante-letterato Giachery, poeta del vivere e poeta dello scrivere, forse a sua stessa insaputa si lascia trainare dalla curiositas nell’andare al fondo del significato del suo mestiere di uomo, come dice definendosi con modestia: “Sono soltanto uno che cerca”.

La sua ricerca di verità autentica trova realizzazione e compimento attraverso il genere letterario della saggistica, rivelatasi a lui, nella freschezza dei vent’anni, redigendo uno scritto su Alfieri.

La scrittura saggistica “non ha minor dignità e qualità di quella del narratore o del poeta. Al pari di qualsiasi altra scrittura letteraria, richiede ritmo, arte del concertare, finezza di passaggi, sensibilità semantica e persino immaginazione di una qualità particolare. Movendosi su più piani, ha vocazione sinfoniale. In essa, aperta a dimensioni memoriali e meditative, mi esprimo con compiutezza, riesco a dire tutto o quasi tutto”. Così sostiene con veemenza l’autore; e continua: “non ho alcun rimpianto per non essere diventato poeta, narratore, drammaturgo. L’attività di scrittore interprete e saggista mi aiuta a capire la vita e la storia e noi stessi, a individuare rapporti. Nessun limite in essa a libertà e pienezza. Sua remunerazione preminente è un singolare impasto di saggezza e d’intima musica”. E ancora: “Se amiamo la disciplina di cui ci occupiamo e l’autore che stiamo interpretando, da questo amore nasce gioia”. È la gioia da cui prende vita Gioia dell’interpretare, ossia il libro pubblicato nel 2006 da Giachery per i tipi dell’editore Carocci.

Operazione complessa, quella dell’explication de texte, alla quale è dedicato in gran parte il libro appena ricordato, senza peraltro dimenticare che ai sogni interpretati come testi Giachery aveva dedicato, pochi anni prima, per l’editore Stango, il volume L’avventura del sogno, nella consapevolezza che, scandagliando l’inconscio, si desumono dati importanti per la decodificazione dell’altro, che diviene a sua volta decodificazione di sé stesso.

Animo filosofico, quello di Giachery, rigoroso e coerente, che nell’etica e nell’estetica, nella natura e nella musica, nel sogno e nell’amore trova la corretta declinazione del proprio essere e di un mondo migliore.

Recensione
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