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Con questo volume di poesie Laura Pierdicchi affronta con apparente nonchalance, il terribile dilemma dell’uomo che combatte l’eterna battaglia del suo riconoscersi, del suo accettarsi soprattutto quale elemento unico e insostituibile della natura, in un quadro che tende a frazionare i periodi e le attese, che misura le voglie sul pentagramma frastagliato del tempo. La cesura non marca l’intervallo ma la sospensione (“attesa di una epifania non visibile” chiosa Ferri) dove “La nostra verità | si perde nel bianco della sclera | ovvero nel nulla”. E’ da qui che inizia la “divisione del tempo”, che non è temporale appunto, né aritmetica o semantica, ma un modo di essere, con un prima e un dopo, e quindi con la necessità del trapasso, o meglio del passaggio che non è netta, con punte di interconnessione che porta la nostra “sprovveduta coscienza” a uscire “nuda al nostro cospetto | per un giudizio adeguato”.

Giudizio che non può prescindere, come rileva acutamente Giò Ferri nella premessa, dallo stato naturaliter del poeta, ovvero la sua “solitudine”: “Laura Pierdicchi con questa insistita ricerca poetica (…) si ripromette con umiltà (….) di dar valore totalizzante alla solitudine come realizzazione, l’unica, di sé. Anche l’amore dell’altro e verso l’altro, in verità, trova la sua completezza nella solitudine. Che è la solitudine del poeta. Non sarebbe poeta colui che non fosse solo”.

Non è per la Pierdicchi un voler essere sola, quanto la constatazione dell’inevitabile distanza che si pone fra io e l’altro (un altro chiunque fosse pure Dio o un tempo prima e uno dopo), che rende il soggetto altro (chiunque sia) distante, anche se mai estraneo. Anzi si stabilisce, pur nella rispettiva solitudine, un’arcana simbiosi, per cui (e non a caso Giò Ferri parla di “ubiquità) tutto sembra mischiarsi, intrecciarsi, sovrapporsi, “e mi sento ragno | di una smisurata ragnatela | oppure cellula | fluttuante in rete”. Il linguaggio, lineare e semplice, individuato sopra come  apparente nonchalance, diviene così ordine stesso dello stato mentale, sinopia sulla quale si posano, a volte leggeri, a volte evanescenti, a volte pesanti, i tocchi del colore che danno vita alla rappresentazione di un gioco della vita, dove il linguaggio stesso, appunto, è struttura portante. La nostra condizione di vaganti è resa in modo magistrale dai versi “Nell’invisibile gabbia | della sconfinata ragnatela | ignari crediamo di scegliere || pensiamo di essere liberi | nel groviglio di azioni e pensieri | e andiamo | padroni dell’inganno”. La consapevolezza del proprio “stato” (non destino) dà forza all’agire, anche se, alla fine, il nostro agire viene paragonato ai movimenti inconsulti dell’insetto nella tela, pur nella consapevolezza di essere “padroni dell’inganno”.

La Pierdicchi non cerca soluzioni a quella che viene in fondo ritenuta una ineluttabilità anche se   “il canto nella mia pelle | scandisce il tempo eletto - | smuove dal fondo pericolosi | palpiti di nostalgia”. Il tempo eletto colmerebbe la “divisione”,  perché “di queste ore | e del battito a martello | di un piano ormai stonato lascio | solo il segno sul foglio tra gli oggetti | inanimati che mi sono accanto || non posso più né potrò”.

Purtuttavia, conclude Giò Ferri, è pur sempre un gioco e una rappresentazione – va detto senza cinismo e con partecipazione – in cui l’incertezza accentua il desiderio d’essere, noi, io, ancora una volta qui e altrove. Solo la poesia può renderci ubiqui. La ricerca dell’ubiquità (l’attributo del Dio, del tutto e del nulla) è la marca della scrittura di Laura Pierdicchi”.

“In punta di piedi | i burattini sull’invisibile filo | mentre il disegno in continua evoluzione | realizza innumerevoli forme | dal valore sconosciuto”.

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