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Può un lutto gravissimo ammantarsi di bianco per contrapporsi al nero funereo che tra prefiche e parametri occidentalizza una prassi che l'oriente riveste di candore? Laura Piedicchi rievoca una stanza bianca, nel recupero della memoria infantile che nell'anamnesi della regressione infantile, riporta al bianco dell'innocenza e alla visione subliminale di valore "angelico", che stabiliva il contatto di un sentimento forte e purissimo verso il proprio genitore. Licenzia così un libro arricchito dalla copertina di Franco Rossetto che ferisce il bianco di fondo con segni-ferite della figura di Cristo e stralcia una composizione alternante tra corsivi e tondi, tra espressioni elementari in forma di filastrocca e versi secchi, irrobustiti dalla metafisica di un pensiero colto, che pareggia le due voci dell'anima, ora quella della fanciulla, ora quella della donna. La sua poesia risuona di calore e di parole, nel crepuscolarismo e nella forza dirompente della concettualità che annovera la poesia polisemica e polisignificante, nella quale la realtà esterna si confronta con l'irrealtà interna, nella risonanza nell'aura che avvolge e ammanta di mistero e di sacralità il silenzio e il grido, con pari rispetto e pari delicatezza espressiva. La puntuale prefazione critica di Attilio Carminati, sottolinea la valenza e l'emozione che accompagnano le pagine della Pierdicchi, dove alita il silenzio e vibra il sentimento ed il ritmo orchestra la parola. La verità che scopre il dolore non si rifugia nel dettato poetico, come consolatoria evasione letteraria, al contrario stabilisce uno stretto rapporto di sacralità tra il vissuto e il poetico trasporto teso a trascendere le vicende dell'umano. La qualità interiore della poesia di Laura Pierdicchi è un palpito intriso di dicibile e indicibile, di preghiera e di frantumazione del pensiero dinanzi al mistero insoluto della morte. L'emblematicità della poesia stimola echi che Laura Pierdicchi rivela di scommessa sofferenza e di trascendente speranza.

Recensione
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