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Voci tra le pieghe dei passi

La poesia di Laura Pierdicchi, non da oggi, segue vie personali: l’originalità di questo suo recente libro viene ben colta anche da Paolo Ruffilli che, nella prefazione, parla di “sceneggiatura teatrale in versi”. Condividiamo l’interpretazione, poiché le poesie appaiono davvero come lacerti di voci che emergono, drammaticamente, dalle quinte di uno scenario, stagliandosi nell’oscurità e assumendo di volta in volta rilievo.

“La prima luce sorge dal mistero”, si afferma all’inizio, e tutto prende forma in un rarefatto gioco di svelamento e occultamento, alternando emersioni e immersioni, realtà espresse ed altre appena adombrate. Frammenti evidentemente biografici, che risalgono indietro negli anni, s’accostano ad altri di carattere più enigmatico, riferibili ad un (parallelo) scavo interiore e analitico. “Errando in liberi spazi si scopre il luogo del pensiero”, seguendo “il respiro di ombre” e “il freddo lieve delle loro carezze”. Sullo sfondo lagunare (l’autrice è di Venezia), descritto in versi eleganti e musicali che costituiscono l’ossatura lirica del libro, la giovane protagonista prende progressivamente coscienza di sé, quando “sopraggiunge il consapevole esercizio dell’essere” e, appunto, “il seme della coscienza inizia a germogliare”. L’intreccio è complesso e il lettore, per dipanarlo, è aiutato dalla scansione tipografica, che inizialmente distingue quattro differenti livelli di discorso. Due si esprimono in versi, gli uni lirici –descrittivi e gli altri ad incarnare la “voce paterna” (ma potrebbero corrispondere al coro-commento della tragedia classica), e due per così dire in prosa, una “ voce materna” dal tono introspettivo (sorta di diario dell’anima) e una narrativo concettuale: “nei primi anni ogni attimo è conoscenza”, “si è scoperti e sprovveduti nell’offrirsi ad ogni mano tesa”. Forte, già qui appare il richiamo alla libertà non come svincolo dalle regole, ma come spazio di responsabilità individuale nei confronti della collettività, intesa come entità sociale.

Il primo tempo del libro si chiude con il passaggio dall’infanzia alla pubertà, sconvolgimento intimo e fisico, ma anche allegorico di una generale metamorfosi. Nel secondo tempo le voci diventano tre, è scomparsa quella paterna mentre quella materna è divenuta, più generalmente, “femminile” e corrisponde, evidentemente, all’autrice protagonista, ormai giovane adulta. “L’identità in cerca di risposte smuove tanta energia”: identità, risposte ed energia che si incanalano nell’incontro amoroso dapprima sereno e felice, poi deludente e ferito, “smisurato il carico / dell’equivoco e della finzione”. Passato l’amore “ci si risveglia nudi – indifesi – soli” e i luoghi stessi rispecchiano la desolazione dell’anima. Nel terzo e conclusivo tempo torna ad aggiungersi una quarta voce, quella sociale, che in un certo qual modo reincarna la voce paterna dell’infanzia. Ora “l’avvenire si svolge nei fatti del giorno” e “si chiude la porta del sogno”. Venezia non è più luogo incantato, ma offeso e ferito. La memoria si fa dolente, la quotidianità fragile. Emergono le contraddizioni del nostro mondo, la disuguaglianza delle condizioni (“miliardi di bocche /si spalancano al necessario”, mentre “tra gli opulenti il corpo / è un altare dissacrato), il pensiero di Dio con la promessa “di un domani oltre la vita”. Il terzo tempo è il nostro presente, dopo l’innocenza esploratrice dell’infanzia e la pienezza, sia pur delusa, dell’amore: “Innumerevoli approcci hanno aggiunto o sottratto valore all’esperienza. Ma tutto ciò che si è rivelato o nascosto è il nostro irripetibile atto unico”.

Si chiude così un libro significativo e profondo, la cui natura personale rivela in realtà spazi amplissimi di dialogo, confronto e condivisione con l’esperienza di tutti.

Recensione
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