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A tutto Tavor

“malapasqua”

Pasqua, una festività simbolicamente importante, un giorno in cui sostare nel desiderio di rinascita interiore, di pace con se stessi e il mondo.

Per trovare nel rito questa intima risonanza, ogni anno – è quasi tradizione – tre amiche vanno alla messa grande in un’antica abbazia benedettina nei pressi di Padova. I frati lì sono stanziali e per la cerimonia partecipano tutti, giovani e vecchi, una trentina. Un campanellino ed entrano in coppie, senza rumore, la testa abbassata in modo abituale. Infatti, fuorché i novizi, son tutti ormai un po’ curvi di “complessione” (direbbe mia mamma). Poi ognuno va al proprio scranno di legno intarsiato; tutti gli scranni fanno così in semicerchio un abbraccio all’altare del sacro banchetto.
Pochi gli orpelli, i paramenti. I fiori composti sono tutti intonati.

L’aria lentamente si addolcisce di quell’incenso che ora fanno ancora più speziato. Dagli alti rosoni lungi fasci di luce si animano di spire e volute azzurrognole, di profumi. La chiesa è ormai colma di gente attenta e silenziosa. Dal fondo, dall’oscurità, ecco: dapprima in modulazione breve, poi cresce e si espande, intenso, limpido, il loro canto gregoriano.

All’inizio una sola voce chiara, in una scala musicale con cinque toni e due semitoni. Il Paradiso - ho sempre pensato - è annusare una gardenia ascoltando un canto gregoriano.
Momenti per “essere”, per conciliarci al tutto. Cercare almeno.
Ma... ma il religioso silenzio non è per tutti. Dal fondo della chiesa, gioiose e giovani grida, libere corsette e saltibiralti tra i banchi: due fratellini uno più paffuto dell’altro, fan nascondino. E ridono, ridono…

Il canto e l’incanto si perde, riprende, vorremmo inseguirlo ma, come si fa…
Il tormento è durato per l’intera messa…hanno sempre giocato e corso e gridato.

Credete: due ore sofferte di rumori molesti, risatine acute coprivano le parole, confondevano i canti. Spezzavano il filo di ogni pensiero diverso. L’essenza di quella giornata pasquale cercata nel clima dell’antica abbazia era purtroppo tutta sfumata.

All’offertorio il maschietto piangeva. Eravamo tutti seccati, tanti si erano girati più e più volte, lo sguardo crucciato ma – (quasi duecento persone) sono comunque rimaste composte da beneducate.

Nel rito dell’Eucarestia volevo anch’io essere un’invitata – ma il cuore è ormai impuro – così mi dirigo in fondo alla chiesa per rendermi conto, vedere chi sono i “bravi” tutori di quei ragazzini. Eccoli lì: il sorriso beato ai loro due pupi che ancora ci davano dentro saltando a pie’ pari, entrando e uscendo da una cappella.

Ma, mi chiedo, dagli ultimi banchi e durante tutta la messa qualcuno si era lagnato con quei genitori? Sembra di no, perché quando mi sono portata alla loro presenza, si sono guardati, poi – attoniti e sgranando gli occhioni innocenti - mi han detto : “..ma.. ma.. sono bambini!”– “Loro sì!” ho risposto piccata. “E se alla festa volete portarli a messa, in ogni parrocchia c’è la messa del fanciullo, fatta apposta per loro. Maleducati!”
Un poco sbollentata me ne sono tornata al banco ricevendo lo sguardo solidale di chi s’era accorto della sortita, e delle due amiche anch’esse sfinite.

Al termine della funzione, sentendo gli altri uscire borbottando, ci siamo fermate ad accendere tre candeline per riconciliare il cuore.., pensando così fosse tutto finito. No, che fuori, dall’alto della gradinata, vedo giù in fondo –lì che mi aspetta - il papà modello tronfio e impettito, pronto per dirmi (credendomi sola) quanto poco cristiana, quanto poco materna io sia non lasciando che i pargoli vadano a Gesù.
Tre donne scendono decise la lunga scalinata: è bastato il loro sguardo… se n’è andato zittito.
Ed era Pasqua, Pasqua di pace, di resurrezione.

Brevissima nota

E’ un malcostume pensare che la Messa non abbia bisogno di concentrazione, silenzio, buona educazione. Il rito è partecipativo non mero momento passivo. E’ malcostume che ciascuno possa entrare, uscire, rumoreggiare a suo piacimento; così come portare i bambini troppo piccoli lasciandoli poi correre e circolare liberamente maleintendendo - fraintendendo in modo semplicistico - il famoso brano della buona novella:” lasciate che i pargoli vengano a me”.

(…Nelle iconografie Gesù, quando lo disse, era seduto sotto un albero in un bel prato verde...)

AbcVeneto, maggio 2007


Come stai?

Capita sempre più spesso, sarà l’età che cresce, di trovare che certe amiche che si conoscono da una vita, quelle che hanno diviso tante serate conviviali, incontri in cineteche, pizze “acculturate” -perché condite da sagaci e intelligenti osservazioni sui temi più svariati – ora, quando a fatica riescono ad incontrarsi a casa di qualcuna, magari per un compleanno, dopo i soliti convenevoli, alla domanda che viene naturale – e che si è sempre fatta senza complicazioni – che è “Come stai?”, la smorfia che ricevi in risposta non presagisca niente di buono. Cambiando la domanda in: “Come va?” forse si amplia l’orizzonte… ma siamo lì…

– Non parlarmene, ho avuto un periodaccio col lavoro. Sono sempre di corsa.
– Eh già, corriamo, corriamo, e poi per andare dove, mi domando…
Giovanna stasera non è venuta. – Poveretta ha una brutta lombosciatalgia che l’ha messa ko.
– Vi prego, chiudete la finestra: c’è uno spiffero giusto giusto per la cervicale.
– Ma Carla, nemmeno tu segui la terapia sostitutiva? E come fai per le ‘caldane?
– Uhmm, che buone ‘ste tartine - passa passa le olivette.
– Uhmm..
– Cin-cin ragazze!

variante

Capita al telefono …che:

Se ti scappa di dire che stai male, che hai l’influenza, o il mal di schiena, o degli esami da fare ecc. ecc., tolte le persone amiche intelligenti e discrete che si informano con tatto sulla tua salute, ce ne sono alcune, parenti o affini, che – appunto – dopo aver fatto a te la domanda: “Come stai?”, ti tengono quaranta minuti (visto che: “si trovano così bene con quell’ abbonamento dove non pagano le telefonate al pomeriggio”), e ti spiegano lungamente, minuziosamente e per la decima volta come stanno loro dalla cima della testa alle unghie dei piedi. E sono davvero gentili, ti telefonano spesso, quasi tutti i giorni, per vedere se poi t’è passato, per sapere come stai.

P.S. Si è capito: non è che dicendo che stai benissimo ti risparmi i quaranta minuti …


Cinema… "che passione”

Vuoi mettere i vecchi cinemini ricavati al piano terra di certi palazzoni in centro città? Anche quelli di periferia avevano un’unica sala magari con un soppalco che era sempre ambito perché, a differenza della sala giù, lo schermo ti stava dritto-dritto davanti e non dovevi dinoccolarti il collo per seguire il film.

Ora nei nuovi cinema ci sono sale piccole medie e grandi, (si chiamano infatti multisale), a seconda dei tipi di proiezioni, a seconda del genere di film: epico, thriller, d’essai . Già all’entrata di questi megacomplessi sei come in aeroporto: fare il biglietto è come fare il check-in, occorre capire subito dove mettersi in fila, poi studiare il tableau con gli orari e le sale di destinazione. E, mentre ti arriva alle narici il profumo fragrante dei pop-corn caldi appena sbocciati, delle ciambelline appena sfornate, non devi farti sviare, ma prestare la giusta attenzione se vuoi imboccare, fra le scale che scendono e quelle che salgono, quella giusta che è solo la B e che attraverso il corridoio B2 ti farà approdare alla Sala F del seminterrato.

Oramai è tendenza (lo dico all’italiana) che il neo architetto sia un tipo essenziale che ami però, come è appunto di moda, le contaminazioni. Tutto il complesso viene allora giocato fra grezzo cemento, pareti in nero antracite, griglie di ferro a far da soffitto, e tubi d’acciaio, tiranti e sfiati copiati al Beaubourg. Ma quando si entra dentro la sala più grande: che meraviglia! Che schermo gigante: un doppio magnifico Cinemascope. E le ampie poltrone con poggiatesta tutte imbottite: appena seduti ci fanno uscire un sospiro d’attesa: irraggiungibili per almeno due ore, mille immagini per una storia che ancora non sai, un sogno come solo il cinema può dare, tutto nuovo e tutto ad occhi aperti.

La sala lentamente si spegne. Subito sobbalzi: partono violenti e assordanti la musica e il parlato della prima inevitabile pubblicità. Tre minuti e ne arriva una seconda ancora più pressante e aggressiva. Pazienza così fino alla quinta.

Il film inizia finalmente.
Scene d’interno. Nel silenzio, stacchi brevi sugli sguardi, l’atmosfera configura da subito una tensione fra i due protagonisti ( l’attrice inglese ha vinto un premio davvero prestigioso per questa interpretazione); via-via il dialogo va in crescendo, diventa carico, intenso di implicazioni: percepisci che c’è un segreto, ora è evidente. Vai ad immaginare…poi ti lasci portare…

Mi si siede accanto - un poco di soppiatto - una giovane coppia; lui in una mano ha un coca-cola che nel silenzio frizza-frizza bollicine, sull’altra - come la compagna - un enorme barattolone di profumati e croccanti pop-corn .

E’ proprio un piacere. Un piacere dei sensi seguire nel buio le scene salienti del film con in sottofondo i vari maneggi, le masticature, i sorseggi dei due e.. pardon!… l’incipit di un salutare ruttino. Anche se – non c’è che dire- tutto fatto con la dovuta buona educazione: questi non sono di quei ragazzotti che sbagliano sala, questi sanno che è un film d‘atmosfere, senza rumorosi effetti speciali, e perciò gentilmente… masticano piano…

Il cibo purtroppo negli ultimi anni, ci accompagna dovunque. E’ diventato il ciucciotto che abbiamo lasciato soltanto da poco perché "ormai siamo grandi".


Privacy

Non ricordo da quanto la conosco. Graziella Altieri è un’amica di famiglia, sempre vista negli incontri conviviali sotto le feste. Elegante, snella e giovanile; una persona riservata ma egualmente pronta e gentile. Il suo stile, si direbbe quasi “all’inglese”. L’età me l’ha detta giorni fa durante una lunga camminata. “Quasi settanta! ma stai scherzando? non sembra proprio...”. Mai sposata, ma ugualmente tanto amata e ricercata. Ha avuto da sempre un dono, una passione tutta di cuore nel sapere risvegliare dal torpore delle medie tanti alunni arrivati al suo Liceo. Una scuola cittadina di prestigio proprio per la materia che insegnava: Lettere classiche.

Io e lei ultimamente siamo entrate in confidenza, forse da quando i nostri genitori son mancati. Ci siamo allora ritrovate non più per quei riferimenti di famiglia, ma per certe nostre già intuite affinità. Sapendo di alcune sue preoccupazioni, di certi suoi timori per un problema di salute (“un piccolo ma invasivo esame medico”, di più non dice) che deve affrontare, mi propongo volentieri per quel giorno di accompagnarla, di farle compagnia. Lei, così restia e discreta, un poco mi sorprende quando accetta la mia offerta.

La clinica fissata per lo scopo è sotto-tono, muri da ri-tinteggiare, arredi da rimodernare, ma ha fama di personale medico di buon livello, ed è proprio lì nel suo quartiere. La sala d’aspetto è unica, è tutta in comune. Le sedie di fòrmica verdina attaccate strette-strette le une alle altre, sono disposte a mo’ di raggiera, così ognuno ha gli occhi puntati di quello che gli sta giusto di fronte. Qualche colpetto di tosse e si scruta il tavolinetto posto nel centro. Alla rinfusa spiccano un po’ stropicciate Stop, Novella 2000, Chi, Gente, tutte riviste da parrucchiere per soddisfare l’imperante gossip tanto di moda.

In queste strutture, come nei grandi ospedali, ci sentiamo davvero un po’ tutti sperduti, straniati dal resto che abbiamo lasciato girare lì fuori. La luce fredda, giallognola dei tanti neon rende spettrale anche il più roseo incarnato. L’aria pesa, si sente la mandorla amara di certe pomate, gli asettici odori di alcool e crosoti; spesso, nell’ora dei pasti, frammisto e pregnante c’è anche quello di verdure bollite, quell’odore dei refettori, degli anni in colonia.

Mentre si aspetta, è presente in ognuno – e in qualcuno di più – l’acuta distanza da tutti quegli altri che gli sono vicini. Ognuno è calato dentro sé stesso con un tema centrale: l’esame da fare, l’esito da mostrare, i dubbi da chiarire: essere capiti, rassicurati da un medico gentile e paziente; e in tutti ugualmente la voglia impellente d’essere altrove, scappare da là. Riprendere fiato e scrollarsi di dosso tutti quei mali…

Ogni tanto dal lungo corridoio sbuca un dottore – diverso a seconda della specialità – e chiama per nome e cognome il paziente già iscritto nella sua lista. Graziella è un po’ tesa, cerco parlando di tranquillizzarla ma la vedo sfuggente, imbarazzata per tutta la gente, gli sguardi. Mi dice qualcosa e poi intuisco: si avvicina, in tutta l’altezza e con sorriso smagliante, un bel giovanotto: “Professoressa, che piacere rivederla. Anche lei qui?” “Io devo farmi una lastra al ginocchio, ...sa, giocando a calcetto...”. Ora l’amica, pur riluttante, è entrata nel “ruolo”, e mentre si informa sulla carriera del suo ex alunno, anche lo sguardo le torna curioso.

Dal fondo del corridoio qualcuno chiama il suo nome. Graziella si appresta ad alzarsi mentre saluta con un sorriso composto il suo giovanotto. Nella sala gremita di gente un’anziana infermiera si affaccia, gira lo sguardo un po’ infastidito e sillabando computa con voce squillante: “Gra-zi-ella Al-tie-ri, la signora della retto-sco-pia”.


Bagno Perla

Già alle nove del mattino la sabbia scotta nonostante l’infradito. E’ il primo giorno di una settimana di ferie al mare con un’amica. S’intende, un mare vicino a casa, tutto veneto e casereccio: Rosolina. Come in un ranch texano si entra nella proprietà, in questo caso la spiaggia, passando sotto un’insegna che non è un giogo o due corna taurine ma una cartonata e pudica Venere che esce dalla conchiglia: “Bagno Perla”, appunto.

Per sentir la brezza e lo sciacquìo dell’onda - “Due lettini in prima fila” - l’abbiam detto e accaparrato già d’aprile.

Tolti i veli dei parei sgargianti, assestate nel costume le abbondanze, un respiro fondo e uno sguardo a 180° per godere di una spiaggia ancora indenne, ci sistemiamo sui lettini con riviste e quotidiani non prima di aver stretto gli occhi all’orizzonte, cielo e mare che è un tutt’uno verde-azzurro molto sfumato.

Eccoci pronte. A degustare i mille abbozzati pensieri che vagano sciolti, si mischiamo al salso, frullano al volo in controvento del gabbiano, poi al ritmo di un’onda che viene (e viene anche la rima).. da lontano. Ma sì, lasciamo le remore del pensiero coerente del prima e del dopo per darci vacanza, per mollare l’ormeggio e stare un po’ al gioco di quel che verrà…

“Caro! Caro!” E’ arrivato Niccolò nell’ombrellone accanto. Un mese, non di più. Lui lo odia quell’unto olietto protettore che gli han spalmato un po’ dappertutto. Ce lo dice con vibranti acuti e strilli perforanti. Dopo mezz’ora, ancora non demorde, non si calma. Dovrebbe invece, almeno per emulazione: “Non vedi, Cocco-bello, quanto sono tranquilli e si godono il bel sole la tua mamma e il tuo papa’? E, sentono l’altro fratellino?” 7/8 anni - con tre amichetti - stessa età - che ingaggia una battaglia sulla sabbia appostando, in buche e dune contrapposte, soldatini, carriarmati, rambi e cannoncini. Il dialogo – visti gli attori in campo – è molto trendy, all’insegna della moderna pedagogia televisiva dell’aggressione che, con l’aggiunta di un giusto tocco creativo, pressappoco risulta: “Vieni, fatti sotto che ti rompo i mar…”(cognome di un noto politico). “Uccidilo, uccidilo, tagliali il pisello”. “Sei morto e sventrato”. E così molte altre dolcezze.

Chissà che frasette intelligenti avranno scritto questi ragazzini nel compitino dato per casa dalla maestra sul tema della pace! Poi – non ci sono dubbi – nel loro terrazzino la bandiera arcobaleno è certo sventolante… magari accanto a quella tricolore ...quella dei campioni.


Il cappuccino

E’ un rito del mattino: preso il giornale - prima di iniziare la giornata - degustare il cappuccino. Non dev’essere troppo caldo, super bollente ma neppure - per piacere - acqua morta. La schiuma: non proprio tanta ma densa sì al punto giusto. Se il caffè è di marca buona, eh no, non si sente in retrogusto l’acidino.

Ma, trovato tutto a perfezione, questa delizia del mattino ha bisogno di silenzio o almeno solo, in sottofondo, diciamo, un chiacchiericcio, un tramestio. Invece no che dietro al banco tutti son eccitati giocolieri. Impilano piattini e cucchiaini, tazzine sporche o calde-calde appena terse, lasciandole cadere una sull’altra con quel classico rumore di ceramica robusta, tutto sopra un verde piano marmorino. E via così per trenta volte. Dita precise, professionali, calcolano tutto, anche il secondo perché il cliente deve far presto e lasci il suo posto ad un altro avventore. La sosta è vietata. Diventa l’ingollo di una calda bevanda che serve a svegliarsi, a mettersi in ciclo, in riproduzione; nel ’68 era “forza lavoro”.

Mentre aspetti che venga il tuo turno con un fare tranquillo, di persona normale, di quella che –in fondo- non bada di certo a queste quisquiglie, vicino-vicino, sul bancone lucido d’acciaio, finalmente, con una studiata scivolata – perfidi – te lo sbattono il piattino. L’occhio è torvo e guardi intorno per non lanciar freccette avvelenate al cameriere che, proprio lì davanti a te, sta adesso rumorosamente caricando le tazze sporche dentro il cestino. “Ma, davvero, mi stresso solo io?” Vicino a te tutti normali. La calma più piatta. Nessuno ha il guizzo, la smorfia d’un leggero fastidio. Uno guarda il suo giornale, l’altro paga sorridendo, una addenta soavemente la brioche e tutti, tutti come te - hanno perforante nell’orecchio, -proprio ora l’hanno acceso- quell’orrendo, infernale macinino che tritura sibilando i neri grani di caffè.

Solo i cani sostano nei bar, i savi gatti sono troppo-troppo sensibili d’orecchio.


Vittorio, da poco pensionato

Sabato pomeriggio di fine luglio, di ritorno a casa dopo un pranzetto gustato in una ruspante trattoria sui colli Euganei a base di “bigoli al ragù” e pollo (appunto ruspante) ai ferri; leggermente ma benevolmente appesantita dal cibo – giusta gratificazione godereccia di una settimana lavorativa e di dieta attenta alle calorie, (come i vari tuttologi non smettono di consigliarti) – eccomi appunto a chiudere il cerchio di quel kilo con un breve riposino che solo nel fine settimana ci si può permettere.
Ma… ecco: stesa, e assestata sul lettone, pronta ad un caldo Morfeo tutto estivo, romboante, trapanante e sferragliato quel rumore. Mi dico spalancando gli occhi al buio: “E’ il da poco pensionato!”. Annoiato dalla tv, alle tre del pomeriggio avrà pensato, guardando quella siepe un poco incolta (due metri per un metro non di più) del giardino condominiale accanto al mio: “Questa adesso me la faccio!”.

Con la moglie in terrazzino che gridando lo guidava:”Vittorio, un poco a destra – sopra, là, no a sinistra, Vittorio, un po’ più su.” Col motorino della sega a tutto gas, spento e acceso, smanettando ancora, ancora, poi di più –. Quasi due ore son passate per livellar due metri di foglie verde intenso smeraldino. Un bel lavoro veramente! – gliel’ho detto – quando infine alzando la persiana mi sono affacciata alla finestra sconsolata.

Sabato prossimo, ma no, forse anche domani visto che è domenica e siamo in casa rilassati, raserà con il rosso e super-schioppiettante tagliaerba anche il giardino che: “Si vede - è cresciuta già un bel po’ l’erbetta dalla scorsa settima”.

Nove le famiglie in condominio: circa 25 in totale le persone, tutte mute, tutte grate a Vittorio “il da poco pensionato” che, poveretto, almeno lui si dà da fare e “non ci occorre il giardiniere”.


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