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Assolvenze… dissolvenze
Una dialettica tra
luci e ombre, questa avvincente silloge di Augusta Romoli che fin dal titolo,
attraverso un lessico cinematografico, ondeggia in un continuo dualismo tematico
chiaroscurale, anche se solo apparente, sulla transitorietà del vivere.
La struttura esterna
del libro si dipana attraverso un ideale spartito musicale diviso in tre sezioni
che tradiscono la pregressa formazione settoriale della Romoli, studiosa di
Teoria musicale, Armonia e Pianoforte: alla prima sezione, la più estesa, “Il
tessuto del tempo”, sottotitolata con la dicitura “andante”, seguono le altre
due, “Reminiscenze” e “Fantasia con fuga”, rispettivamente definite dai
movimenti “adagio” e “presto”.
La nomenclatura del
registro musicale delle sezioni sta alla forma, cioè al fluire dei versi e alla
scansione ritmica delle immagini, nello stesso rapporto in cui il lessico
cinematografico del titolo della silloge sta al suo contenuto, al suo tema
portante, come sopra accennato, cioè l’unione dei due opposti, luci e ombre,
sole e tenebre. Ed è in questa serpeggiante intersezione, per l’appunto, di
“Assolvenze e dissolvenze” che la Romoli tesse la sua tela poetica e conoscitiva
attraverso un sofferto cammino spirituale dove l’alta frequenza di certi lessemi
si fa solco netto e visibile per la meta. Innumerevoli sono i termini legati
alla notte, intesa nella duplice accezione sia di mancanza di luce che di
fulgore (buio-stelle). “Lampada ai miei passi è la Tua Parola, Signore”:
il versetto del Salmo 119 occupa la parte centrale della lirica d’apertura,
Logos, a voler additare al lettore l’equivalenza della “parola di Cristo”
con la “Luce”, (termine dalla poetessa non a caso evidenziato con la maiuscola),
della “via da seguire” verso una “Armonia divina”. Più o meno inconsciamente, la
Iluminatio, una delle tre vie conoscitive del percorso d’estasi mistico,
guida l’autrice fin dall’incipit dell’opera nel doppio binario logos
divino e parola poetica. La lirica intitolata Poesia (p. 30), ci fornisce
infatti la giusta lettura metapoetica dell’involucro verbale in cui la Romoli si
muove: dal “tunnel oscuro del nulla” che ingoia attimi e anni di vita,
“corteggia, circuisce / il tempo la poesia” fino a dilagare in “prisma di
luce-spettro”. La luce (anche quella della parola poetica) scaccia le tenebre,
ma lungo e tortuoso è il tragitto da seguire, o meglio, da vivere, in una specie
di catabasi alla quale l’uomo è condannato prima dell’ascesa finale, la “sublime
immensità” (Oltre l’alba, p. 31) nella quale si scioglie l’opposizione
buio-luce. La notte stessa si fa quindi “serena sintesi degli opposti” (Notte,
p.48), nel “buio tramato di sciami lucenti” (Nuclei incandescenti, p.
43) e rievoca, in una dimensione di lontane affinità e assonanze sia pur
casuali, la notte mistica di san Giovanni della Croce, notte che, “più grata
dell’alba” e con veemenza persino maggiore della luce meridiana, guida il grande
poeta spagnolo verso l’unione mistica con Dio. Parimenti, la nostra poetessa si
affida alla forza conciliante dell’ombra con quest’intimo atto di abbandono
consolatore “tra le tue braccia notte / m’acquieto: fratto era il mio cuore” (Notte,
cit.). Altrove, in chiusura della lirica La volta dei sogni (p. 52), ci
viene posta la domanda retorica “È dell’Io la notte vera esistenza / autentica libertà dal giogo
diurno?”.
L’immagine di
copertina della silloge (un tortuoso corso di ruscello, opera del figlio della
poetessa), indica, attraverso il motivo del “flumen vitae” il percorso del
vivere, un percorso che, nei versi della Romoli, non è mai scisso dall’abbraccio
con la natura. Innumerevoli sono, secondo un canone di ascendenza romantica, i
riferimenti espliciti e reiterati a un paesaggio voracemente scrutato e voluto
sub specie aeternitatis, quasi alla ricerca di un’ultra-natura nella
materia. Una poesia dei sensi ma non per i sensi, vettori di sintesi e
compiutezza conoscitiva. Emblematica è al riguardo, tra molte altre, la lirica
Sistema aperto (p. 44), dove il verso si apre a una speculazione più
marcatamente filosofica nella visione di “quel filo oltre la fisicità” di “un
sistema chiuso” e “al di là del retiforme spazio/tempo” nel quale “il vuoto
assume forma /…/ di un nuovo sistema aperto / senza tempo”.
È, nuovamente, l’incontro fulgido e mistico con l’assoluto, con il
conseguente annientamento di “spazio/tempo”. Di qui che l’autrice più volte e,
crediamo, non casualmente, disponga l’endiadi “spazio e tempo” in una versione
tipografica con la barra obliqua, motivo per cui, anche altrove, le coppie
“luci/ombre, “colpa/non colpa”, “inganno/apparenza”, “bene/male”, più che figure
retoriche formali, spesso ossimoriche, paiono piuttosto deliberate
contrapposizioni tassonomiche volte a un’esplorazione quasi scientifica
dell’universo.
Altrove, l’indagine
cambia registro e si addentra nei territori dell’impegno civile, non solo in
termini di tutela della biodiversità e dell’ecosostenibilità (si vedano
L’arca della salvezza, p. 8 e La preghiera dei coralli, p. 37), ma
anche in un’ottica allargata a foschi orizzonti etici che la spingono alla
composizione di un poemetto finale L’isola dei poeti, occupante l’intera
sezione ultima Fantasia con fuga, nella quale, da una prospettiva storica
futura, parla di un infausto passato già avvenuto (“In seguito la morte dei
valori / universali rese afflitta l’umanità”). Ma il tono più austero e
perentorio è da lei dedicato (crediamo, in onore del padre) a un concetto
inedito di Resistenza, quella degli Internati Militari Italiani, designati con
l’acronimo IMI, che nel loro “NO (all’unisono) / all’asservimento nazista”
furono i “veri / ‘resistenti’ di un’altra guerra”, silente e purtroppo ancora
misconosciuta. “Erano seicentomila, / ‘erano giovani e forti’ / (per fame 50.00
nei lager / sono morti)” (Quale Resistenza? (nuova luce, 25 aprile 2020).
p. 38
Torniamo ora a quella certa temperie romantica dei versi
della Romoli che sovente la sospinge a increspature ricche di pathos, ma
mai scomposte. L’ombra di Leopardi (invocato in epigrafe nella lirica Il
sipario a primavera) sembra allearsi con la potenza immaginifica degli
Inni alla notte di Novalis, in particolare nell’annientamento dicotomico di
tempo-spazio, ma queste icone di non premeditata e pedissequa assimilazione,
risultano agenti vivi nell’ampia messe di letture e studi di cui la nostra
poetessa si è via via nutrita anche in virtù di una non comune frequentazione in
settori eclettici del sapere. La sua tenace consonanza con la natura presenta
una forte connotazione visiva che si manifesta persino attraverso un reiterato
schema formale nel quale il paesaggio, veicolato in apertura delle liriche da
un’accumulazione vorticosa di aggettivi e da frequenti asindeti, fa da eco
ritmica al gioco di allitterazioni, enjambement, sinestesie, rime interne (“un
languidore traversò le mie ore”, in Isolamento-tempo di Coronavirus), e
da una certa classicheggiante impostazione delle orazioni che vede nel genitivo
anticipato un espediente di marcata musicalità. Molteplici sarebbero gli esempi
da citare nei quali la meditazione in overture sul paesaggio si apre a
una musicalità distesa e avvolgente per poi approdare a una riflessione
circostanziata sulla vita. Ma, fra tutti, non possiamo non soffermarci sulla
bellissima lirica Si spenge la bellezza di Firenze (p. 60) compresa nella
sezione Reminiscenze dedicata al ricordo del marito. Già nella precedente
poesia Fuga dalla vita (p. 59), la poetessa si riferisce alla sua
vedovanza come a “questo tornante tormentato / pur prezioso della via terrena” e
anche adesso, davanti alla splendida veduta di Firenze (un tempo condivisa in
“doppio sguardo”) ribadisce il suo “tornante / di nuova solitudine” nel quale,
purtuttavia, il ricordo vivido dell’amato, la sua “ombra / si fa guida di nuova
via, / l’unica sognata, anelando l’Infinito / luce che si fa nuova scia / dal
dissolversi del finito”.
È
con serenità e con saggezza che Augusta tramite la poesia “sensazioni ritrova di
gioia” e “come una moviola / ferma quegli istanti, ora presenti” (Pioggia di
foglie (p. 57). Spesso affiora il vecchio leitmotiv della vita come sogno,
come “visione onirica / nell’azzurro infinito spazio” (Primo suono, p.
62), ma è un sogno che non naufraga mai nella ingannevole apparenza del
quotidiano, alimentandone, al contrario, l’indagine metafisica oltre la soglia
del fittizio. “Senza desiderio arriva il saggio alla meta”, recita un vecchio
adagio taoista e, senza forse averne consapevolezza, la nostra autrice ha
raggiunto il mirabile equilibrio tra dolore e speranza, tra rimpianto e
accettazione: “ma dalle feritoie del dolore / intravedo il valore / nelle
piccole cose: / ora il mio sguardo si fa lungo / sul corso delle acque luminose
/che si dileguano lontane”. (Lungo l’Arno) (p. 26).
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