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I graffi della luna

Il realismo immaginifico e misteriosofico di Roberta Degl'Innocenti

Dalla tradizione ermetica ed iniziatica che ci è pervenuta dall’antico Egitto, passando per il platonismo, neoplatonismo e simbolismo sia letterario che artistico, apprendiamo che la luna è simbolo dell’eterno femminino e vive di luce riflessa, quindi passiva, mentre il sole è simbolo dell’eterno mascolino e vive di luce propria, quindi attivo. Ogni individuo, sia maschio che femmina, possiede ambedue le componenti che, a seconda dei temperamenti, possono prevalere l’una sull’altra, andando a determinare precisi registri artistici e comportamenti umani e sociali. Roberta Degl’Innocenti, poetessa lirica e delicatamente simbolica, usa reiteratamente nelle sue opere il simbolo “luna”, sia nei titoli che nel fluire della scrittura poetica e narrativa, andando a stabilire, in tal modo, quale sia il suo “Mantra”, e cioè la sua cifra creativa e artistica, che da buona ragioniera sa organizzare attivamente e architettonicamente con spirito solare.

Ed è così che I graffi della luna, presenti nella raccolta divengono, per stessa ammissione e formulazione della poetessa: “… Indugio della veste, velluto nero il tremito dei fianchi, ricamo vagabondo, soffi leggeri, ombre chiare, farfalle adulte, cantilena dolce della neve, due labbra rosse invito della pelle, un sogno di coralli …” Tutte metafore e rappresentazioni di un linguaggio di emozioni che passano attraverso espressioni ritmiche del corpo e del mondo circostante, con il potere di forgiare, ascoltando lo spirito della terra, la stessa poesia, che è memoria ancestrale di una identità umana di frontiera, sia nella vita che nell’arte, piuttosto che essere costruita per frasi, forme sintattiche e grammaticali corrette e perfette, talora banali nella loro razionalità. Ma in un momento storico dialetticamente in movimento, dove spesso tutto è momentaneo e superfluo, talora volgare, ciò che più commuove nella raccolta I graffi della luna, è la profonda passione che la poetessa mette nel sacralizzare il tutto: il prossimo, la natura, il paesaggio, le città, l’amore, attraverso immagini rare e preziose, anche metafisiche e simboliche, riuscendo a mantenere sempre uno spirito fanciullo, dotato di naturale purezza, che sa essere gioiosamente lirico e canoro, ma capace anche di far scaturire il cuore, ben altra musica, ricca di tristi note, da controcanto, come si può apprezzare in “Vertigine di cielo”, quando ella scrive, relativamente all’ora antelucana: “… All’orologio guizza un’ora incerta, | resa del nero in perfido languore …” sottendendo le condizioni di chi, per pendolarismo lavorativo, si trova in strada per andare a faticare. Poesia, questa, ancora in divenire, dal sotteso segno escatologico, forse anche destinato a rimanere eterno futuro proprio per quel mondo amato in quanto “Teofonia” che sa cogliere l’infinito nella quotidianità quale polo soffuso del ritmo della vita, capace di conciliare il divino con l’umano, anche se la poetessa preferisce non dichiararsi apertamente a proposito, ma di cui ella avverte tutta la fragilità dell’esistere e la accetta a partire da se stessa per arrivare alle cose che animano l’universo.

Ed è proprio nell’intendere il creato che ella acquisisce voce e coscienza, mentre per il modo di comprendere il circostante si apre alto stupore per cromia e note musicali, sviluppando sentimenti di rispetto e custodia, riscontrabili in tutte le liriche, compreso quelle delle precedenti raccolte. Citeremo alcuni versi per bellezza estrema come “Il campo dei papaveri è indulgente, | perdona sempre vinti e vincitori, brucia nel rosso amore, si fa viaggio” (Faber for ever) o come “La bambola che parla è invenzione, | le pagine di viole sono assorte” (Pagine di viole), parole atte a testimoniare come una cultura animistica propria, espressa con semplicità, possa rendere universale la poesia, ben al di là di ogni apparenza. Una “via amoris”, questa, tracciata dalla raccolta I graffi della luna che permette all’autrice di passare dall’amore per il sé, all’amore per l’altro e per il bello, realizzato per versi e partiture musicali, alla Chopin, e trovare quindi, punti di convergenza sui i valori propri dell’esistere, che Roberta ricerca, anche attraverso l’amore per il marito Stefano, al quale dedica i suoi versi più belli e l’intero libro. Altrettanto si dica per l’amore verso belle città tra cui Firenze, città d’arte e di poesia, per la quale Roberta, da sempre, compone versi colmi di suggestione. Una “Voie regale”, questa, dove c’è sonorità del visibile come si evince dalla lirica “Rossomiele” delle ottobrate fiorentine, non meno belle di quelle romane, sia per il colore dell’aria tersa che quello intenso della vite americana, abbarbicata ai muri che va a defogliare e divenire rossomiele, appunto, nell’equilibrio di verticali architetture, come si apprezza in “Capriccio della luce” nella quale il colore si fa forte e va, ossimoricamente, a contrapporsi alla leggerezza della città e al “fiato di gazzella” del Ponte Vecchio. Meravigliose metafore che si ripetono tuout court al processo creativo, baluardo del Romanticismo, e posto in essere da una poetessa neoromantica del Terzo Millennio che di sé dice: “Scrivevo sempre i sogni, mai la vita, | in carezze leggere, pareti cristalline … (Scrivevo sempre i sogni), quasi a fare una dichiarazione di poetica ed innestando in un naturale e catartico ritmo interiore, un linguaggio poetico legato sia al mondo onirico – surreale che al romanticismo, ancor più che nelle precedenti raccolte. Ma in “medias res” de I graffi della luna c’è uno straordinario intersecarsi, fondersi e confondersi di tematiche che la poetessa ordinatamente dispone in sezioni dal titolo: Turchina; Ragazzi e sogni; Omaggio a Fabrizio De André; Il sogno della neve; Rossomiele; Viaggi indiscreti, La casa dei mattoni rossi, che vanno a chiarire la funzione narrativa del testo, che pur esiste.

Dirò a conclusione che Roberta Degl’Innocenti si riafferma, con questa nuova opera, poetessa di natura che sa afferrare la metafisica delle cose, calandosi profondamente nel suo destino d’anima, in virtù di una propria attitudine estatica e visionaria, lo fa attraverso una scrittura che è sangue stesso del suo pensiero, della sua estasi nei confronti della natura, del canto, della favola, tanto da privilegiarla e farla divenire espressione e regola di vita, secondo un’azione di un “elan vital”, fluido spirituale e vitale capace di rigenerare lo stesso universo, mentre dal punto di vista strettamente formale sono frequenti le metafore, i neologismi, gli ossimori, le figurazioni retoriche e allegoriche che, unite ad una fervida invenzione poetica, costituiscono la vera architettura della poetica Deglinnocentiana nella fusione dell’astratto con il concreto, dell’attivo con il passivo, quale espressione di sincronia generativa di nuovi scenari di vita che, dell’universale hanno tutto il sapore, l’afrore e l’aura inafferrabile e mistoriosofica. Come da sempre detto, da parte mia, la cifra Deglinnocentiana è riconoscibilissima e non imitabile, a rischio di apparire: “Deglinnocentiani che tirano quattro paghe per il lesso” cosa che è accaduta molto miseramente, più volte. Segno, tuttavia, di originalità, di chi vuol scrivere solo i propri sogni e non la vita, quale rifugio di un mondo migliore e un’isola di beati, da abitare con passione e amore.

Recensione
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