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Carmelo Ciccia

Il mito d’Ibla nella letteratura e nell’arte

Con testo e traduzione del Pervigilium Veneris
e nuova interpretazione della Primavera del Botticelli

1a edizione - 1998 • Luigi Pellegrini Editore, Cosenza
2a edizione riveduta e integrata - 2018 • Literary.it

© Tutti i diritti riservati all'autore

In copertina:
La Primavera, opera di Sandro Botticelli (Firenze 1445-1510)

Alla memoria
delle mie sorelle Rosa e Maria,
prematuramente scomparse.

Indice

Premessa
Ibla nell’antichità
Ibla nella letteratura greca
Ibla nella letteratura latina
Pervigilium Veneris, culto della Venere Iblese e Primavera del Botticelli
Ibla in un canto medievale
Ibla nella letteratura italiana
Ibla nella letteratura angloamericana
Ibla nell’onomastica odierna
Riepilogo delle ragioni
Il miele ibleo
Conclusione: Mito d’Ibla e benessere della Sicilia
Bibliografia recente
Elenco delle persone nominate
Appendice
Pervigilium Veneris (testo)
La lunga veglia della festa di Venere (traduzione)
Figure

Premessa

Da 2500 anni (cioè da Eschilo al Novecento) nella letteratura si parla d’Ibla, delle città siciliane così chiamate, della loro ubicazione, di fatti militari e amministrativi attinenti ad esse. In particolare da millenni si parla della fertilità e bellezza del paesaggio siciliano, del suo clima, dei suoi fiori, della laboriosità delle api e del miele ibleo. Il termine “Ibla” è stato adoperato perfino come nome di donna. Eppure pochi lo sanno.

Questo studio, dopo un’introduzione su Ibla nell’antichità, presenta una rassegna di riferimenti a Ibla e al miele ibleo, tratti dalla letteratura greca, latina e italiana, soffermandosi in particolare sul Pervigilium Veneris, qui presentato con testo latino e traduzione a fronte. A proposito di quest’inno, si discute ampiamente del culto della Venere Iblese, s’indica la località della festa, s’identifica l’Ibla dell’inno con l’Ibla etnea e si fanno collegamenti con la successiva letteratura e arte del Rinascimento.

Dopo una digressione sulle proprietà del miele, e di quello ibleo in particolare, la conclusione del lavoro mette in evidenza il proverbiale benessere dell’antica Sicilia e i motivi della fortuna — attraverso i millenni — di questo tópos, fascino o mito che sia.

Le occorrenze del termine “Ibla” e derivati riscontrate durante il lavoro sono:

• 46 nella letteratura greca

• 52    “      “     latina

• 43    “      “   italiana

• 16    “      “     angloamericana

per un totale, quindi, di 157 occorrenze.

Questa ricerca costituisce pertanto il primo repertorio d’una tale consistenza. Con essa — che, sebbene attenta, certamente non è completa — si vuol fare cosa gradita agli studiosi e agli appassionati di cultura classica.

 Aprile 1998 e 2018

C. C.

 ° ° °

Ibla nell'antichità

In epoca greco-romana esistevano nella Sicilia Orientale almeno tre città di nome  Ibla, rispettivamente dette Maior, Minor, Parva: una alle falde dell’Etna, creduta l’Hybla Maior e identificata anche con l’Hybla Geleatis (ma anche Galeatis, Galeotis) o Gereatis, primo importante centro da Catania ad Adrano, lungo il Simeto; una a nord-nord-ovest di Siracusa, tra Augusta e Melilli, poi chiamata Megara ovvero presso cui — dopo la sua distruzione — sorse Megara, detta anche Megara Hyblaea; e un’altra nella parte più meridionale dell’isola, presso l’attuale Ragusa: questa, i cui resti sono stati individuati dall’Orsi sul suolo della parte inferiore di Ragusa [1] , era detta Hybla Heraea in onore della dea Era.

Però le fonti classiche e gli studiosi moderni non sempre concordano sulla quantità delle Ible, sulla loro esatta ubicazione e sui loro rispettivi titoli. Per qualcuno le Ible erano due, per qualche altro quattro [2]  e qualcuno ha identificato un’Ibla anche con l’antica Pantàlica, di cui resta un’imponente necropoli ad ovest di Siracusa e ispirandosi alla quale (Pantàlica=Hybla) Vincenzo Consolo compose uno dei suoi romanzi; per altri ci sarebbero state un’Ibla presso Melilli (SR), una presso Piazza Armerina (EN) e una presso Avola (SR); e per qualche altro ancora sarebbe stato detto Ibla ogni luogo fertile della Sicilia. Al riguardo, come vedremo più avanti, il poeta Claudiano qualificò “fertilis” Ibla già nel sec. IV-V d. C.

Strabone accenna anche alla fondazione di Taormina da parte dei coloni di Zancle (Messina) insediati nell’Ibla etnea.

Attualmente il nome Ibla è rimasto soltanto alla città di Ragusa, anzi ad una parte d’essa, e precisamente alla parte inferiore [3] .

Nella cultura classica il termine “Ibla”, certamente d’origine preellenica, è solitamente inteso come “luogo fertile”: e ciò, con evidente collegamento al latino uber = mammella, fertilità, terreno o luogo coltivato [4] , considerato che il siculo era affine al latino arcaico; Stefano Bizantino, però, lo fa derivare dal re Iblone. Geleatis è letto anche Galeatis e Galeotis e si riferirebbe a Galeote (figlio d’Apollo), interprete dei sogni e presunto fondatore di quest’Ibla, dato che esisteva una corporazione di sacerdoti-indovini denominati Galeoti o Geleati [5] , ma potrebbe anche collegarsi al nome della città di Gela o al tiranno gelese-siracusano Gelone. Secondo il Ciàceri, la lezione Gereatis si riferirebbe alla natura della dea iblea di cui parla Pausania, poi ritenuta protettrice della fecondità e quindi assimilata a Venere: in tal caso il termine s’intenderebbe “fecondatrice, produttrice” e deriverebbe dal siculo gerra, in greco ghérra o ghérrai, espressione usata dai siculi per significare i genitali maschili e femminili e quindi la fecondità e la generazione. Gereatis poi fu attributo di Venere-Persefone [6] .

Pausania riferisce che nel santuario d’Olimpia c’era un’antica statua di Zeus con scettro ritenuta dono degli abitanti d’Ibla Gereatide, da lui definita “villaggio dei catanesi”. Egli però, conoscendo solo due Ible, attribuisce erroneamente l’appellativo di Maggiore ad un’altra Ibla situata nel territorio catanese, ma “del tutto abbandonata”: praticamente quella distrutta, presso cui poi sorse la predetta Mégara.

Ibla figura anche nell’Itinerarium Antonini, registro delle stazioni e delle distanze lungo le strade dell’impero romano (p. 89), e nella Tabula Peutingeriana, carta di tipo militare (tav. VI), d’incerta datazione.    

Alla voce “Hybla” nel Lexicon del Forcellini / Onomasticon del Perin è scritto: Est nom. montis in Sicilia inter Leontinos et Syracusas cum oppido cognomine, thymo aliisque floribus abundans et ob id apibus frequens, unde mel provenit sapidissimum et abundans. (“È il nome d’un monte in Sicilia, fra Lentini e Siracusa, con una città ugualmente nominata, ricco di timo e d’altri fiori e per ciò affollato d’api, da cui proviene un miele molto saporito e abbondante.”) [7]  

L’enciclopedia Treccani situa i monti Iblei dalla costa sud-orientale siciliana (tra la spiaggia di Lentini, dov’era la predetta Megara Hyblaea, e quella di Gela) fino alla piana di Catania [8] ; ma qualcuno li fa arrivare fino alle falde dell’Etna, praticamente in corrispondenza dell’allora omonima città etnea: l’enciclopedia Curcio [9] , dopo averli situati in provincia di Siracusa e aver ricordato i tipici prodotti dell’antichità (miele e cera), scrive che “Il monte principale, nella regione premontana dell’Etna, si chiama Paternò o Belpasso. 985 m.”. E non c’è chi non s’accorga dell’approssimazione di quest’indicazione: infatti, a parte il fatto che — come dicevamo — tali monti non sono solo in provincia di Siracusa, certamente questa provincia ed i monti stessi non arrivano fino alla regione pedemontana dell’Etna (che ora è in provincia di Catania); inoltre un monte principale avrà un suo nome sicuro, che non può essere vagamente “Paternò o Belpasso”, due città con un’altitudine erroneamente indicata. Se invece essa voleva riferirsi alla collina di Paternò, allora il discorso cambia, ma doveva essere fatto con maggiore precisione e chiarezza. A sua volta il dizionario di toponomastica della Utet li situa addirittura nella “Sicilia sud occidentale” [10] !

Ibla e termini derivati sono frequenti nella letteratura: fertilità e bellezza del paesaggio, fiori, miele, api e cera, buoi, greggi, pastori, poesia e confronti con Atene e l’Attica sono motivi ricorrenti, fino a costituire un tópos, un luogo comune. Gli scrittori ne parlano magari senza mai esservi stati e s’ispirano a questo luogo per similitudini o fantasie e nostalgie bucoliche. Ma c’è anche chi ne parla a fini storici, geografici, naturalistici.

Gabriele Castello di Torremuzza, famoso numismatico del sec. XVIII, ha ribadito che le Ible erano almeno tre e ha attestato di aver visto personalmente numerose monete d’Ibla Maggiore [11] .  Per lui una delle Ible certamente fu prossima all’agro catanese, non lontano dalla città di Paternò.

Ricordiamo qui che le monete d’Ibla, la quale ebbe rapporti anche con Delfi, erano (come quelle d’altri centri siculi) per lo più di bronzo.

Per dimostrare l’importanza delle antiche Ible, presentiamo qui una rassegna pressoché cronologica (e perciò indichiamo le date) di oltre 130 riferimenti riscontrati nella letteratura greca, latina e italiana, tratti dai più svariati autori.

È opportuno tener presente che per indicare gli abitanti d’Ibla di solito in greco si dice iblei (fa eccezione Esichio); mentre in latino e in italiano si dice iblesi o iblensi quando il termine è riferito a Ibla Maggiore, come attestano vari scrittori e vocabolaristi. Nel sec. XII, poi, in greco bizantino si ha eblato: il Cusa riporta un diploma siciliano del 1133, in greco e in arabo, con cui il re Ruggero accorda al vescovo di Lipari che vengano meglio descritti i confini d’un casale e in cui viene nominato un certo Eblato [12] .

Infine il nome personale Iblesio tipico di Samo ha fatto supporre che fosse in quest’isola egea quell’Ibla di cui parla Ateneo (vedi più avanti): in questo caso almeno un’Ibla sicula deriverebbe da essa e l’origine del nome sarebbe caria, considerati anche i fitti rapporti fra la Sicilia e l’Asia Minore e i molti toponimi carii in Sicilia. Altri invece hanno messo in relazione Ibla con l’antica Ebla siriana; mentre toponimo affine è il biblico Ibleam (in latino Ieblaam), città dell’antica Palestina (Canaan) nominata nei libri di Giosuè XVII 11 e XXI 25, Giudici 21 27, II Re IX 27 e XV 10, I Cronache VI 55 (in qualche traduzione di Cronache questo toponimo è scritto Ibleàm o Bileam).

Ibla nella letteratura greca

I riferimenti a Ibla tratti dalla letteratura greca riguardano essenzialmente situazioni geografiche, vicende storiche o osservazioni scientifiche. Le citazioni che qui facciamo sono a volte riassunte o parafrasate, a volte testuali. In quest’ultimo caso sono riportate fra virgolette e vi può anche essere indicato il nome del traduttore. Se non è espressamente indicato nel testo dell’autore greco, qui non si precisa di quale delle tre Ible si tratti, sia perché a volte è già evidente sia perché spesso sono sorte delle dispute.

Fra gli scrittori greci che trattano o in qualche misura parlano delle tre Ible siciliane o di qualcuna d’esse ci sono in ordine cronologico:

Eschilo (Eleusi, presso Atene, 525/524-Gela di Sicilia 456 a. C.) in uno dei frammenti papiracei — sembra del Prometeo liberato — riportato da Ateneo di Naucrati dice che

(32 “B” 334) I carii si recarono all’oracolo d’Apollo in Ibla per consultarlo sugli avvenimenti... (vedi più avanti).

Questo frammento è importante perché costituisce un documento dell’esistenza in Ibla dell’oracolo d’Apollo: cosa che dava più lustro alla città.

Eròdoto (di Alicarnasso, nella Caria, circa 484-425 a. C.) in Le guerre persiane:

(VII 155) Ippòcrate, fratello di Cleandro, al quale aveva usurpato il governo di Gela, morì presso la città d’Ibla, mentre era in guerra contro i siculi [13] .

Tucìdide (di Atene, circa 460-396 a. C.) nella Storia della guerra del Peloponneso:

a) (VI 4) Gli altri [megaresi] allontanati da Tapso, dietro invito del re siculo Iblone che offriva loro quella regione e ve li condusse, fondarono una colonia di megaresi detti iblei. Dopo una permanenza di 245 anni, questi furono scacciati da quella città e regione ad opera di Gelone, tiranno di Siracusa. Prima però di esserne allontanati, 100 anni dopo la fondazione di Mégara Iblea, essi avevano mandato Pamillo a fondare Selinunte.

b) (VI 62) Dopo la partenza di Alcibiade [14] , i generali ateniesi, sempre per mare, si recarono dagli alleati di Sicilia, incitandoli a mandare soldati; infine con metà delle loro forze mossero contro Ibla Geleatide, che era in guerra con loro, ma non poterono conquistarla. E l’estate volgeva alla fine.

c) (VI 63) Gli ateniesi prepararono l’attacco contro Siracusa e, siccome non assalirono subito la città, ogni giorno cresceva il coraggio dei cittadini; i quali, quando videro che quelli dirigevano le loro navi in parti della Sicilia così lontane da lì e che, partiti all’assalto d’Ibla non erano riusciti a piegarla con la forza, li disprezzarono maggiormente.

d) (VI 94) All’inizio della primavera dell’anno successivo, gli ateniesi che erano in Sicilia, levate le ancore dal porto di Catania, costeggiarono in direzione di Mégara, dove attaccarono una fortezza, senza espugnarla. Ritornati per mare a Catania, vi si approvvigionarono e con tutte le forze mossero contro Centuripe, cittadina sicula che costrinsero a scendere a patti; quindi si allontanarono, dando fuoco ai raccolti d’Inessa e d’Ibla. Tornati a Catania, vi trovarono i cavalieri venuti da Atene.

Filisto (di Siracusa, circa 430-356 a. C.), nella Storia di Sicilia (citato da Pausania) [15]: Gl’iblei sono grandi interpreti di prodigi e di sogni e i più pii della Sicilia.

Èforo (di Cuma, circa 405-330 a. C.) nelle Storie:

(III 2a, 70, 137) L’ateniese Teocle, invaghitosi della terra di Sicilia recentemente conosciuta, organizzò una spedizione di calcidesi, con alcuni ioni e anche dei dori, che per la maggior parte erano megaresi. I calcidesi fondarono Nasso [16] , i megaresi Ibla, o meglio la Mégara precedentemente detta Ibla. La Sicilia è un’isola molto prospera, e dicono che una volta fosse piena di gente barbara parlante una lingua diversa dalla nostra.

Diodoro Siculo (di Agyrion, oggi Agira -EN-, autore fra il 60 e il 30 a. C.) nella Biblioteca storica:

a) (XI 88, 6) “Ducezio, postosi a capo dei siculi, sottomise tutte quante le città della stessa stirpe in un’unica e comune confederazione, tranne Ibla, ed, essendo ardimentoso, cercò di approfittare della situazione” [17] ;

b) (XXII 2, 1) “Fintìa e Iceta, venuti in guerra reciproca, schierarono le loro truppe presso il [monte] Ibleo, e Iceta riportò la vittoria” [18] .

Strabone (di Amasea, nel Ponto, 63 a. C. - 19 d. C.) nella Geografia:

a) (VI 2, 2, C 267) Tra Catania e Siracusa, dove le ramificazioni dei corsi d’acqua che discendono dall’Etna si riuniscono e costituiscono con le loro foci dei porti sotto ogni punto di vista eccellenti,  sorgevano  un  tempo le città scomparse di Nasso e di Mégara... Èforo afferma che queste due città furono le prime colonie greche in Sicilia, dieci generazioni dopo la guerra di Troia... “I calcidesi edificarono Nasso e i doriesi Megara, prima chiamata Ibla, le quali città più non sono, benché il nome d’Ibla vi rimanga anchora, per la perfettione del miele ibleo.” [19]    

 b) (VI 2, 3, C 268) “Tauromenio... è stata fondata da coloni di Zancle insediati a Ibla. Catania perse la sua popolazione primitiva quando Gerone, tiranno di Siracusa, v’installò una nuova colonia e cambiò il nome chiamandola Etna [20] . Pìndaro lo indica come fondatore di questa nuova città, quando dice:

  Da’ ascolto alle mie preghiere,
  tu che sei chiamato santo
[21]
  o padre fondatore d’Etna.

c) (VIII 7, 5 C 387) “Esiste un altro fiume Selinunte presso i megaresi iblei, che i cartaginesi cacciarono dalla loro città.”  [22]

Dioscòride Pedanio (di Anazarbo, in Cilicia, sec. I d. C.) nel trattato Sulle medicine:

(II 82) “Fra il miele primeggia quello attico, e di questo quello detto imettio; poi quello delle isole Cìcladi e quello della Sicilia, detto ibleo.”

Per la sua importanza nel Medioevo Dante collocò questo famoso medico nel nobile castello del Limbo, fra gli “spiriti magni”: “e vidi il buono accoglitor del quale, / Dioscoride dico” (Inf. IV 139-140). [23]

Plutarco (di Cheronea, in Beozia, 46-120 d. C.)  nelle Vite Parallele:

(Vita di Nicia, 15, 3) “Dopo la partenza di Alcibiade, Nicia ebbe il potere assoluto in Sicilia. Egli invitò il poeta Sòfocle ad esporre il parere e il poeta disse: ‘ Io sono il più antico, tu il più anziano’. Dapprima fece il periplo della Sicilia, tenendosi molto lontano dai nemici e in tal modo dando loro coraggio; poi assalì la piccola città di Ibla, ma se ne allontanò prima di prenderla, e in tal modo si attirò il disprezzo generale. Alla fine si diresse su Catania, senza aver fatto nient’altro che conquistare la località barbara di Iccara, donde si dice abbia portato nel Peloponneso l’etera Laide, che era ancora fanciulla ed era stata messa in vendita tra i prigionieri.” [24]  

Pausania (di Cesarea, nella Cappadocia, sec. II d. C.) nella Guida della Grecia:

(V 23, 6 e 7) “Accanto al carro di Gelone c’è uno Zeus arcaico con uno scettro: dicono che sia dono votivo degli Iblei. Le città di Ibla si trovavano in Sicilia, l’una di nome Gereatis, l’altra la chiamavano “Maggiore”, come in realtà <doveva essere>. Conservano i loro nomi ancor oggi, ma la seconda, nel territorio di Catania, è del tutto abbandonata, mentre la prima, la Gereatis, è un villaggio dei Catanesi che vi hanno un santuario della dea Iblea, venerato dai Sicelioti. Credo che la statua sia stata portata a Olimpia da questi (Iblei): Filisto figlio di Arcomenide dice infatti che essi sono interpreti di prodigi e di sogni e che sono di gran lunga i più pii di tutti i barbari di Sicilia. Vicino all’ex voto degli Iblei c’è una base di bronzo su cui poggia uno Zeus: più o meno sembra alto diciotto piedi.” [25]

Ateneo di Naucrati (vissuto prima in Egitto e poi a Roma, sec. II-III d. C.) nei Sapienti a banchetto, opera preziosa perché ricca di titoli e brani d’opere scomparse di varie discipline, riporta il frammento d’Eschilo precedentemente accennato (vedi sopra): 

(XV 13.1) “Si narra che circa in quello stesso tempo i carii, pervasi da timor divino, si recarono all’oracolo d’Apollo in Ibla per consultarlo sugli avvenimenti; e il dio ordinò che essi personalmente pagassero alla dea una penale di loro scelta e senza gravosa imposizione...”

Erodiano (vissuto in Siria e a Roma, sec. II-III d. C.) nella Storia dell’impero dopo Marc’Aurelio:

(III 1) Re Iblone, da Ibla, città della Sicilia; [...] Erea è chiamata la minore delle tre città della Sicilia di nome Ibla; [...] Erea, così è chiamata Ibla la minore; [...] Ibla, città in Sicilia, poi detta Mégara dal re Iblone: vi sono tre città della Sicilia di nome Ibla.

Esichio d’Alessandria (sec. V d. C.) nel Lessico alfabetico:

(III y, 29.1) “Ibla: città della Sicilia.

  Iblese: indovino.”

Stefano Bizantino (sec. VI d. C.) in Nomi Etnici:         

(439-11) La sesta Mégara si trova in Sicilia, quella che prima si chiamava Ibla dal re Iblone, e iblei i cittadini.

(644-24) Ci sono tre Ible in Sicilia, una maggiore, i cui cittadini sono detti iblei, la piccola i cui cittadini sono detti iblei galeoti megaresi. La più piccola si chiama Erea.

(645-2) Ibla dal re Iblone. Una delle Ible è chiamata Styella. [26]  

Infine un riferimento a Ibla si trova anche fra gli Epigrammi dedicatori dell’Appendice all’Antologia Greca [27] :

(20) “O Febo, dall’araldo ibleo Archìa, figlio d’Eucle,
lo stesso che per tre volte bandì il gioco d’Olimpia 
senza dar segno con la tromba o avere amplificatori,
accetta di buon grado questa statua per il felice esito.”   

Nulla di preciso sappiamo circa la collocazione di questa statua dell’ibleo Archìa; ma, poiché era costume adornare il santuario d’Olimpia con statue votive, è probabile ch’essa fosse collocata proprio ad Olimpia, dove quindi, oltre alla statua di Zeus arcaico donata dagl’iblesi, potrebbe esserci stata anche quella di Febo donata da questo araldo ibleo.

Ibla nella letteratura latina

 Cicerone (Arpino 106 - Formia 43 a. C.) accenna a Ibla nella sua seconda verrina (libro III De frumento, 43, 102) a proposito delle depredazioni e vessazioni varie operate da Verre e dai suoi scherani in Sicilia. Dopo aver annunciato che intende presentare tutte le città soggette a decima, scrive: Iam vero ex Hyblensium pactionibus intellegetis, quae factae sunt cum decumano Cn. Sergio, sexiens tanto quam quantum satum sit ablatum esse ab aratoribus. Traduce Vittorio de Marco [28] : “Già dalle transazioni stipulate dai cittadini di Ible coll’esattore Gneo Sergio, potrete rendervi conto che agli agricoltori venne sottratto un quantitativo sei volte maggiore di quello seminato.” È evidente che quest’Ibla è quella etnea e che il suo territorio era ricco di grano, com’è sempre stata la piana di Catania. Anzi, a proposito di questa piana, dobbiamo far rilevare che ad essa Cicerone — evidentemente dovendo trattare De frumento — rivolge un particolare interesse. Questa piana era allora dominata, oltre che da Hybla, dalle città di Aetna e Leontini, “due città con campagne le migliori e le più note fra tutte” [29] ; ad esse e alla vicina Centuripae dedica numerose pagine, fra i paragrafi 104 e 118.

Virgilio (Andes, presso Mantova, 70 - Brindisi 19 a. C.), che ha esaltato forse più di tutti gli scrittori la vita agreste e pastorale, non poteva non parlare d’Ibla nel suo Bucolicon Liber.

a) Nell’ecloga I, vv. 53-55, fa dire da Melibeo:

Hinc tibi quae semper vicino ab limite saepes
Hyblaeis
apibus florem depasta salicti
saepe levi somnum suadebit inire susurro.

Traduce Enzio Cetrangolo [30] : “La siepe vicina, da cui le api succhiano il fiore / dei salici, t’inviterà come sempre / col suo lieve sussurro a prendere sonno.” Il traduttore ha omesso arbitrariamente l’aggettivo “iblee” usato da Virgilio, anche se un pastore mantovano non poteva sapere nulla delle api iblee (particolarmente intelligenti e brave) e queste sono introdotte dallo stesso Virgilio sotto lo stimolo della sua cultura proprio per ricorrere ad un tópos.

b) Nell’ecloga VII, vv. 37-40, fa dire da Coridone:      

Nerine Galatea, thymo mihi dulcior Hyblae,
candidior cycnis, hedera formosior alba, 
cum primum pasti repetent praesepia tauri, 
si qua tui Corydonis habet te cura, venito.
 

Traduce Sebastiano Saglimbeni [31] : “Nerina Galatea, a me cara più del timo d’Ibla, più / bianca dei cigni, più bella dell’argentea edera, non appena / rientreranno i tori sazi alle stalle, se qualche / pensiero per Coridone ti prende, vieni.”  In quest’egloga c’è una gara fra pastori-poeti, e quindi il riferimento al timo d’Ibla fra i complimenti di Coridone alla sua amata è intonato e rientra nella logica del tópos, anche perché poi Coridone sarà proclamato poeta vincitore. Ricordiamo inoltre che Galatea era una ninfa sicula, figlia di Nereo, innamorata d’Aci (poi trasformato in fiume alle pendici dell’Etna). Si capisce bene che qui Virgilio è nello stesso tempo autore e protagonista, con la sua cultura e i suoi ideali, ed è ispirato da quelle Sicelides Musae (cioè dalle Muse Siciliane, e precisamente dal poeta Teòcrito di Siracusa) espressamente invocate nell’esordio della precedente ecloga IV.

Livio (Padova 59 a. C. - Padova 17 d. C.) nella III decade di Ab Urbe condita, libro XXVI, 21, 14, ci parla d’una defezione d’Ibla ai tempi della campagna siciliana della seconda guerra punica (214-210 a. C.): Ad eos Murgentia et Ergetium urbes defecere. Secutae defectionem earum Hybla et Macella et ignobiliores quaedam aliae. Agli 8.000 fanti e 3.000 cavalieri numidi, sbarcati dalla flotta punica dopo la partenza di Marcello da Siracusa, si consegnarono le città di *Murgenzia ed Ergezio. Seguirono la loro defezione, *Ibla, *Macella e altre città di minore importanza. (Le città contrassegnate da asterisco* sono situate dal Bellìa nella zona pedemontana dell’Etna). 

Ovidio (Sulmona 43 a. C. - Tomi 18 d.C.) si ricorda d’Ibla non solo nei momenti felici della sua vita, quando la spensieratezza lo porta a dare consigli d’amore, ma anche nei lunghi momenti di tristezza trascorsi nell’esilio senza ritorno sul mar Nero. Il rifugio in un’oasi sognata e irraggiungibile è forse il motivo per il quale questo autore è uno che ha fatto grand’uso del tópos d’Ibla (sette volte), spesso in similitudini.

a) Ars amatoria, libro II, vv. 517-519:

Quot lepores in Atho, quot apes pascuntur in Hybla,
caerula quot bacas Palladis arbor habet,
litore quot conchae, tot sunt in amore dolores.

Traduce Ettore Barelli [32] : “Quante su l’Athos [33] vagano le lepri / e in Ibla l’api a chieder miele ai fiori, / quante sono le bacche al chiaro ulivo e agli scogli avvinte le conchiglie, / altrettanti in amor sono i dolori.”

b) Ars amatoria, libro III, vv. 149-152:

Sed neque ramosa numerabilis in ilice glandes
nec quot apes Hybla nec quot in Alpe ferae,
nec mihi tot positus numero comprendere fas est:
adicit ornatus proxima quaeque dies.

Traduce Adriana Della Casa [34] : “Ma come non conterai le ghiande su un folto leccio, né quante sono le api sull’Ibla, o quanti gli animali sulle Alpi, così a me non è possibile fissare con un numero i tanti tipi di pettinatura: ogni giorno che fugge aggiungi nuove fogge.”

c) Tristia, libro V, 6, vv. 37-41: 

Quam multa madidae celantur harundine fossae,
florida quam multas Hybla tuetur apes, 
quam multae gracili terrena sub horrea ferre 
limite formicae grana reperta solent,
tam me circumstat densorum turba malorum.

Traduce Francesco Della Corte [35] : “Quante canne palustri crescono nelle fosse ricche d’acqua, quante api alimenta l’Ibla in fiore, quante formiche, per sottile sentiero, sogliono portare nei loro granai sotterranei il grano trovato, così fitta è la moltitudine dei mali che mi circonda da ogni parte.”

d) Tristia, libro V, 13, vv. 21-23:

Cana prius gelido desint absinthia Ponto,
et careat dulci Trinacris Hybla thymo, 
immemorem quam te quisquam convincat amici.

“Dalle gelide regioni del mar Nero mancherebbe il bianco assenzio, e il monte Ibla di Sicilia sarebbe privo di dolce timo, prima che qualcuno possa mai provare che tu dimentichi il tuo amico.” [36] 

e) Ibis, vv. 199-202:

Nam neque, quot flores Sicula nascantur in Hybla,
quotve ferat, dicam, terra Cilissa crocos,
nec, cum tristis hiems Aquilonis inhorruit alis, 
quam multa fiat grandine canus Athos.

“Infatti non potrò dire quanti fiori nascano sull’Ibla di Sicilia, o quanti fiori di croco produca la terra della Cilicia, né quando il triste inverno freme sotto le ali dell’Aquilone, con quanta grandine venga imbiancato l’Atos.” [37]

f) Ex Ponto, libro I, 7, vv. 23-30: 

Crede mihi, si sum veri tibi cognitus oris 
(nec planis nostris casibus esse puter),
Ciniphiae segetis citius numerabis aristas,       
altaque quam multis floreat Hybla thymis,
et quot aves motis nitantur in aere pinnis, 
quotque natent pisces aequore, certus eris, 
quam tibi nostrorum statuatur summa laborum,          
quos ego sum terra, quos ego passus aqua.

“Credimi, se sai che dico la verità — e non si creda che lo dica solo dei miei casi manifesti — tu più in fretta conterai le spighe della messe di Cinifia e saprai con quanti fiori di timo fiorisce l’alto Ibla, e quanti uccelli, spiegando le loro ali, si levano nell’aria e quanti pesci nuotano nel mare, che se farai la somma delle nostre pene, che ho sofferto sulla terra, che ho sofferto sul mare.” [38]  

g) Ex Ponto, libro IV, 15, vv. 7-10:

Quae numero tot sunt, quot in horto fertilis arvi
Punica sub lento cortice grana rubent, 
Africa quot segetas, quot Tmolia terra racemos,         
quot Sicyon bacas, quot parit Hybla favos.

“Le quali sono tante di numero quante melagrane nell’orto del fertile campo rosseggiano sotto la flessibile buccia, quante messi produce l’Africa, quanti grappoli la terra del Tmolo, quante olive Sicione [39] , quanti favi di miele l’Ibla.”

Plinio il Vecchio (Como 23/24 a. C. - Stabia 79) nei 37 libri della sua Historia Naturalis fa dei riferimenti anche a Ibla:

a) nel libro III, 8, 91, descrivendo la Sicilia, fra le popolazioni soggette a tributo elenca Aetnenses (abitanti d’Etna, già Inessa, di cui parla anche Diodoro Siculo, secondo importante centro da Catania ad Adrano, lungo il Simeto), Erycini (d’Erice), Hennenses (d’Enna), Hyblenses (d’Ibla),  Hadranitani  (d’Adrano), Murgentini (di Murgenzia), Mutycenses (di Mòdica)... Qui le popolazioni sono elencate in un essenziale — anche se non rigoroso — ordine alfabetico, ma si desume chiaramente che delle tre Ible lo scienziato intende riferirsi a quella etnea, più importante per territorio e rendite, come abbiamo già  avuto occasione di notare.           

b) nel libro XI, 13, 32, tratta dettagliatamente del miele e conclude: Ibi optimus semper, ubi optimorum doliolis florum conditur, [Atticae regionis] hoc est [Siculae] Hymetto et Hybla [locis], mox Calydna insula. “Il miele è sempre speciale là dove si forma nei calici dei fiori migliori, e precisamente a Imetto e Ibla, luoghi rispettivamente dell’Attica e della Sicilia, e nell’isola Calidna.” Grazie al timo, il miele d’Ibla era famoso in tutta l’antichità.  Praticamente, secondo Plinio, il miele migliore del mondo era quello delle tre località da lui citate.

Columella (Cadice sec. I d. C.) in De re rustica fa l’elogio dell’agricoltura, continuando le Georgiche di Virgilio dal punto in cui Virgilio stesso ha lasciato incompiuta la sua opera affidandone ad altri la continuazione; e Columella dichiara di accettare di essere il suo continuatore, assumendosene il compito, peraltro svolto in modo dignitoso.

In quest’opera egli fa due riferimenti a Ibla.

a) libro IX, 14, 19: Nec minus in Sicilia, cum ex reliquis partibus in Hyblaeam [apes] conferuntur.

Riferisce che il grande medico Celso (sec. I d. C.) nega che dopo la primavera gli sciami debbano essere lasciati fermi; ma, assunti i nutrimenti primaverili, siano trasferiti in quei luoghi in cui le api possano alimentarsi più proficuamente coi fiori tardivi, quali quelli di timo, orìgano e santoreggia. Ciò può avvenire in Grecia... “e parimenti in Sicilia, quando [le api] sono portate dalle altre parti dell’isola alla [zona] iblea”.  Accanto al tradizionale timo qui figurano altre piante utili alla formazione del miele, come l’orìgano e la santoreggia.

b) libro X, vv. 169-170: 

Nunc et odoratae peregrino munere plantae     
Sicaniis croceae descendant montibus Hyblae.

Traduce Giangirolamo Pagano [40] : “Scendan pur or del croco le odorose piante, dono stranier, dalle Sicane montagne d’Ibla.” 

Calpurnio Siculo (sec. I d. C.), imitatore di Virgilio, in Bucolica IV elogia le zampogne d’Ibla ben adatte alla musica, e per esse la poesia pastorale iblea:

Tityrus hanc habuit, cecinit qui primus in istis 
montibus Hyblaea modulabile carmen avena.

“Titiro, che per primo su questi monti compose un canto con una modulabile zampogna iblea, ebbe questa.” In quest’ecloga — canto amebeo di Coridone e Aminta, due poeti apprezzati da Melibeo — c’è una ripresa della IV ecloga di Virgilio: anche qui si loda un principe celebrato come un dio, che riporta sulla terra l’età dell’oro.

Seneca (Cordoba qualche anno prima della nascita di Cristo - Roma 65 d.C.), nella tragedia Oedipus, vv. 600-602 e 607, descrivendo la discesa di Tiresia all’Ade, fa dire da Creonte:

Non tot caducas frondes Eryx,
nec vere flores Hybla tot medio creat,
cum examen arto nectitur densum globo
[...]
 
quot ille populus vatis eduxit sonus.

Traduce Giancarlo Giardina [41] : “Non fa spuntare altrettante foglie Erice, né altrettanti fiori nel pieno della primavera crea l’Ibla, quando un denso sciame d’api si avvolge in un fitto globo, [...] quante genti fece uscire dall’inferno la voce del sacerdote.”

Lucano (Cordoba 39 d. C. - Roma 65) nel suo Bellum civile seu Pharsalia, libro IX in cui l’anima di Pompeo scende in Bruto e Catone, vv. 288-292, fa questa similitudine:

        Phrygii sonus increpat aeris,          
attonitae posuere fugam studiumque laboris    
floriferi repetunt et sparsi mellis amorem:    
gaudet in Hyblaeo securus gramine pastor 
divitias servasse casae.

Traduce Renato Badalì [42] : “Nello stesso modo le api [...] se risuona, richiamandole bruscamente all’ordine il bronzo frigio [43] , smettono sbigottite di fuggire e ricominciano, applicandosi diligentemente, a cercare il miele qua e là tra i fiori: gioisce allora il pastore nei prati iblei e si tranquillizza per aver salvato la ricchezza della sua umile capanna.”

Petronio Arbitro (? - Cuma 66 d. C.), l’apparentemente spensierato e gaudente autore del Satyricon, parlando della fallacia dei sensi, accenna al tipico prodotto ibleo in uno dei Fragmenta ricchi di pensosità epicurea, il frammento XXXI (29, 5): Hyblaeum refugit satur liquorem, / et naris casiam frequenter odit. “Chi ha mangiato in abbondanza rifiuta con sprezzo il liquido miele d’Ibla, e il suo olfatto spesso odia la cannella.”

Silio Italico (vissuto a Roma, 26 - 101), che Concetto Marchesi definisce poeta privo d’originalità, mediocre e inutile per aver nei suoi Punica mescolato storia seguendo Livio e mitologia seguendo Virgilio, ha tuttavia degli esiti felici quando fa poesia lirica. In  realtà  egli  è  più  un poeta che uno storico, in quanto che come storico, seguendo si può dire pedissequamente Livio, non ci dice nulla di nuovo; ma sono poetiche certe sue descrizioni, come — ad esempio — quella peraltro solenne all’inizio del libro XIV in cui racconta che un tempo la Trinacria era congiunta all’Ausonia e poi, sotto la violenza dei venti e delle onde, ne fu staccata con un colpo di tridente (caeruleo propulsa tridente) da Nereo,  il quale tuttora con agitazioni marine impedisce che essa si possa ricongiungere al continente.

In questo libro, dedicato alla conquista di Siracusa da parte di Marcello, si ha l’impressione che al poeta interessi di più la descrizione del paesaggio, magari coi suoi miti, anziché la guerra. Ciò, se lo può far credere dispersivo rispetto all’assunto, gli dà la possibilità di esprimersi meglio: a volte gli bastano poche pennellate per rendere vivo l’ambiente, come al v. 26 quando afferma che in Sicilia il miele ibleo gareggia con quello dell’Attica (nectare Cecropias [44]  Hyblaeo accedere ceras), concetto ripetuto ai vv. 199-200 (tum quae nectareis vocat ad certamen Hymetton / audax Hybla favis) chiamando in causa questa volta il monte Imetto, altro luogo comune della poesia; e per questo non esita a definire “audace” l’Ibla.

Il poeta accenna a varie località siciliane e a vari miti anche a scopo paesaggistico o poetico, e spesso, come nel caso d’Ibla, li fissa meglio con un episodio, una frase, un aggettivo: l’altus Eryx, l’eccelsa Centuripe (e vertice celso Centuripae), Tyndaris, Etna, Aci, Polifemo, Galatea, Simeto, Palici, Enna. Di Catania dice che è troppo vicina all’ardente Tifeo ed è famosissima per aver generato i due Fratelli Pii che salvarono i genitori dalla lava [45] , per Selinunte fa (come Virgilio) riferimento alle palme e di Camarina dice che per volere del fato non prosciuga le sue paludi. Naturalmente per Siracusa ha un riguardo particolare, con un elevato elogio alla sua poesia (vv. 29-30):

sacras qui carmina silvas,
quique Syracosia resonant Helicona camena.

Traduce Onorato Occioni [46] : “e dai boschi sacrati inclito echeggia / in Elicona il Siracusio canto.” La poesia siracusana echeggia sul monte Elicona con pari dignità rispetto a quella greca: e questo è esaltante per l’antica civiltà della Sicilia, che è essa stessa civiltà greca.

Insomma, in questo libro, in cui si parla d’Ibla, a volte Silio dimentica il suo intento epico-storico e resta incantato di fronte ad un paesaggio o ad un mito. E questo ne fa un poeta sognatore e lirico. 

Stazio (nato a Napoli fra il 40 e il 50 d. C., vissuto a Roma, morto a Napoli dopo il 95) fa tre riferimenti a Ibla.

a) Silvae, libro II, bozzetto 1 intitolato a Glaucia, giovane prediletto di Atedio Meliore, vv. 45-48:

Blandis ubinam ora arguta querelis
osculaque impliciti vernos redolentia flores
et mixtae risu lacrimae penitusque loquentis    
Hyblaeis vox mixta favis?

Traduce Antonio Traglia [47] : “Dov’è più quella tua bocca così arguta nei tuoi graziosi risentimenti, quei baci di quando abbracciavi, che avevano il profumo di primavera, quelle lacrimucce miste al riso e quella voce che, quando parlavi, aveva in sé tutta la dolcezza del miele ibleo?”

b) Silvae, libro III, bozzetto 2 (“Carme augurale per il viaggio di Mezio Celere”), vv. 117-118:

Duc et ad Emathios manes, ubi belliger urbis   
conditor Hyblaeo perfusus nectare durat.

“Conducilo anche a vedere i resti dell’eroe dell’Emazia, dove il bellicoso fondatore della città sta ancora intatto, imbalsamato col nettare ibleo.” [48]  

c) Achilleidos, libro I, vv. 554-557:

Laxantur coetus resolutaque murmure laeto     
agmina discedunt, quales iam nocte propinqua
e pastu referuntur aves, vel in antra reverti
melle novo gravidas mitis videt Hybla catervas.
         

“Si scioglie l’assemblea e con lieto mormorio le schiere, messe in libertà, si allontanano come quando l’Ibla dal dolce clima vede tornare negli alveari gli sciami delle api piene di novello miele.” [49]  Nel ricordo d’Ibla è presente quel tono idilliaco che, insieme con quello sentimentale e patetico, si nota in tutta l’opera.

Marziale (nato a Bìlbilis, nella Spagna Tarraconese, intorno al 40 d. C., vissuto a Roma per più di trent’anni, con soggiorni anche in Emilia, morto a Bìlbilis tra il 102 e il 104) è lo scrittore latino che nei suoi Epigrammata presenta più riferimenti a Ibla (otto).

a) libro II, 46, 1-6:

Florida per varios ut pingitur Hybla colores 
cum breve Sicaniae ver populantur apes
sic tua subpositis conlucent prela lacernis,       
sic micat innumeris arcula sinthesibus, 
atque unam vestire tribum tua candida possunt          
Apula non uno quae grege terra tulit.

Traduce Giuseppe Norcio [50] : “Come l’Ibla ammantata di fiori si tinge di vari colori, quando le api sicule fanno bottino dei fiori di breve durata, così le tue soppresse brillano dei mantelli che stanno sotto, la cassapanca risplende per gl’innumerevoli abiti e le tue bianche toghe, fatte con lana dei ricchi greggi dell’Apulia, potrebbero vestire una tribù.”

b) libro V, 39, 1-3:  

Supremas tibi triciens in anno
signanti tabulas, Charine, misi:     
Hyblaeis madidas thymis placentas.

“O Carino, a te che fai testamento trenta volte l’anno, ho mandato focacce inzuppate di timo ibleo.” [51] 

c) libro VII, 88, vv. 1-10 (intero): 

Fertur habere meos, si vera est fama, libellos 
inter delicias pulchra Vienna suas. 
Me legit omnis ibi senior iuvenisque puerque
et coram tetrico casta puella viro.
Hoc ego maluerim quam si mea carmina cantent        
qui Nilum ex ipso protinus ore bibunt;   
quam meus Hispano si me Tagus impleat auro  
pascat et Hybla meas, pascat Hymettos apes.
Non nihil ergo sumus nec blandae munere linguae     
decipimur: credam iam, puto, Lause, tibi.
 

“Si dice che la bella Vienna [52] , se è vera la fama, tiene i miei libretti fra le sue delizie. Là mi legge ogni vecchio, giovane e fanciullo, e anche la casta fanciulla in cospetto del suo severo uomo. Io avrei preferito ciò, piuttosto che declamino i miei carmi coloro che bevono il Nilo direttamente alla sorgente stessa, che il mio Tago mi riempia d’oro spagnolo e che l’Ibla e l’Imetto alimentino le mie api. Qualcosa, dunque, sono e non vengo ingannato dalla lusinga di benevola lingua: penso, o Lauso, che ormai crederò a te.”

d) libro IX, 11, vv. 1-5 e 10-12:  

Nomen cum violis rosisque natum,
quo pars optima nominatur anni,
Hyblam quod sapit Atticosque flores,
quod nidos olet alitis superbae;     
nomen nectare dulcius beato,
[...] 
nomen nobile, molle, delicatum
versu dicere non rudi volebam:
sed tu syllaba contumax rebellas.
 

“Volevo cantare in delicati versi il nome nato con le viole e le rose, con cui si nomina la parte migliore dell’anno, che sa d’Ibla e di fiori attici, che olezza di nidi di superbo volatile; nome più dolce del nettare divino, [...] nome nobile, molle, delicato: ma tu, sillaba, ostinatamente ti ribelli.” 

Praticamente è con Marziale e col Pervigilium Veneris (di cui tratteremo successivamente) che ha inizio l’identificazione d’Ibla con la Primavera e quella personificazione che durante il Rinascimento sfocerà in una famosa opera pittorica e nella presenza di donne chiamate Ibla (= Primavera).          

e) libro IX, 26, vv. 1-4:

Audet facundo qui carmina mittere Nervae,
pallida donabit glaucina, Cosme, tibi,   
Paestano violas et cana ligustra colono,
Hyblaeis apibus Corsica mella dabit.

Traduce lo stesso Norcio: “Chi osa mandare carmi al facondo Nerva è come se donasse essenza di pallido papavero a te, o Cosmo, viole e bianchi ligustri al colono di Pesto, mieli di Corsica alle api iblee.”

f) libro X, 74, vv. 1-6 (intero):

Non ego meorum praemium libellorum 
— quid enim merentur? — Apulos velim campos; 
non Hybla, non me spicifer capit Nilus, 
nec quae paludes delicata Pomptinas    
ex arce clivi spectat uva Setini.    
Quid concupiscam quaeris ergo? Dormire.
    

“Io non vorrei come premio per i miei libretti — ma valgono essi qualcosa? — le piane dell’Apulia, non m’attira Ibla né il Nilo fertile di spighe, né la delicata uva che dalla sommità del colle di Sezze guarda verso le paludi pontine. Dunque, vuoi sapere da me che cosa io bramo? Dormire.”

g) libro XI, 42, vv. 3-4: 

Mella iubes Hyblaea tibi vel Hymettia nasci,               
et thyma Cecropiae Corsica ponis apis.

“Ordini che per te si producano mieli dell’Ibla o dell’Imetto [che sono i migliori], e invece fornisci alle api attiche timo di Corsica [che dà miele scadente]!”

h) libro XIII (Xenia), 105, vv. 1-2 (intero):

Cum dederis Siculos mediae de collibus Hyblae,        
Cecropios dicas tu licet esse favos.

“Quando regalerai favi siculi, provenienti dai colli mediani dell’Ibla, ti sarà lecito dire che sono attici”, data la sostanziale identità del miele ibleo con quello attico.

Di Marziale abbiamo citato ampi brani e a volte interi epigrammi per far capire meglio il senso in cui sono incastonati i riferimenti a Ibla.

 Pomponio Mela (di Tingentera, Gibilterra, sec. I d. C.) nel De chorographia, che è la prima opera geografica della latinità, descrivendo la Sicilia cita — oltre che Ibla — anche Erice per il famoso santuario di Venere (II 7,118):

Inter Lilybaeum et Pelorida Panhormus et Himera, interius vero Leontini et Centuripinum et Hybla aliaeque conplures; famam habet ob Cereris templum Henna praecipuam. Montium Eryx maxime memoratur ob delubrum Veneris ab Aenea conditum, et Aetna quod Cyclopas olim tulit.

“Fra Lilibeo e Peloro ci sono Palermo e Imera, e poi più internamente Lentini, Centuripe, Ibla e molte altre città; Enna ha notevole rinomanza per il tempio di Cerere. Fra i monti si ricorda soprattutto Erice per il santuario di Venere fondato da Enea e l’Etna perché un tempo ebbe i Ciclopi.”

Sereno Sammònico (romano, morto nel 212 d. C.) nel Liber medicinalis dà una ricetta per la cataratta (13, 199):

Hyblaei melli sucus cum felle caprino
subveniunt oculis dira caligine pressis.

“Succo di miele ibleo con fiele caprino giova agli occhi oppressi da grave caligine.”

Servio Onorato (sec. IV-V d. C.) nel suo famoso commento In Vergilii Bucolicon librum non poteva non soffermarsi su Ibla, ma (nell’edizione di G. Thilo del 1887) arriva a supporre che questa possa essere in Attica.

a)  In riferimento all’ecloga I, vv. 53-55 scrive (1, 54):

Hyblaeis. Hybla, quae postea Megara, oppidum Siciliae: vel locus in Attica, ubi optimum mel nascitur.

“Iblei. Da Ibla, quella che poi fu detta Megara, città della Sicilia, ovvero località dell’Attica, dove si produce eccellente miele.”

Tuttavia nel Lexicon del Forcellini / Onomasticon del Perin il suddetto brano è riportato testualmente così: Hybla vel Hyble oppidum est Siciliae, quod nunc Megara dicitur, - ubi optimum mel nascitur.

“Ibla o Ible, è città della Sicilia, che ora si chiama Mégara, dove si produce eccellente miele.”

b) In riferimento all’ecloga VII, vv. 37-40 scrive (37, 10): Thymo dulcior Hyblae vel odore thymi Hyblaei, vel melle Hyblaeo, ut a materia rem ipsam dixerit: nam apibus, non hominibus dulcis est thymus.

“Più dolce del timo d’Ibla: cioè dell’odore del timo ibleo, o meglio del miele ibleo, intendendo il contenente per il contenuto: infatti il timo è dolce per le api, non per gli uomini.”

Claudio Claudiano (di origine egiziana, fiorito fra Roma e Milano a cavallo dei secoli IV e V), l’ultimo grande poeta classico e cantore di Roma, presenta quattro riferimenti a Ibla.  

a) Panegyricus de sexto consulatu Honorii (XXVIII 259-262):

       Qualis Cybeleia quassans
Hyblaeus procul aera senex revocare fugaces
tinnitu conatur apes, quae sponte relictis
descivere favis...

“Quale un vecchio d’Ibla, sbattendo da lontano i bronzi cibelici, tenta con il loro suono di richiamare le api che si sono allontanate dopo aver abbandonato di loro iniziativa i favi...”. Il brano somiglia a quello di Lucano (Bellum civile seu Pharsalia, IX 288-292) sopra riportato, a cui qui si rimanda anche per la spiegazione dell’uso dei bronzi cibelici.

b) De raptu Proserpinae II (XXXV 78-80)

Nunc adsis faveasque, precor; nunc omnia fetu
pubescant virgulta velis, ut fertilis Hybla
invideat vincique suos non abnuat hortos.

“Ora vieni e sii propizio, ti prego: ora fa’ che tutti i virgulti si carichino di frutti, affinché la fertile Ibla sia invidiosa e riconosca che i suoi orti possono essere superati.” Insomma, Ibla, qui considerata fertile per eccellenza, dovrebbe in quest’occasione cedere il primato della fertilità alla piana d’Enna.

c) Ibidem (XXXV 123-127):

    Varios tum cetera saltus
invasere cohors: credas examina fundi
Hyblaeum raptura thymum, cum cerea reges
castra movent fagique cava dimissus ab alvo
mellifer electis exercitus obstrepit herbis.

Traduce Carlo Carena [53] : “Allora tutto il corteo / inondò i prati variopinti: crederesti che sciami si riversino / a caccia del timo sull’Ibla, quando i re muovono / gli accampamenti di cera, e, uscito dal cavo ventre del faggio, / l’esercito ronza tra l’erbe prescelte, riportandone miele.” Occorre dire che questo poema mitologico, rimasto incompiuto alla fine del libro III, è un’esaltazione del paesaggio siciliano: l’autore vagheggia tale paesaggio con nostalgia e abbandono, come se fosse vissuto in mezzo ad esso e avesse perduto un mondo di serenità. Egli non solo si pone sulla scia d’Ovidio, ma presenta episodi, immagini e particolari linguistici del Pervigilium Veneris.

d) Fescennina de nuptiis Honorii Augusti (IV 7,10):  

Non quisquam fruitur veris odoribus
Hyblaeos latebris nec spoliat favos,
si fronti caveat, si timeat rubos;
armat spina rosas, mella tegunt apes.

“Nessuno gode di fragranze genuine né depreda i favi iblei nei loro nascondigli, qualora badi al proprio viso, qualora tema i rovi; la spina arma le rose, le api occultano il miele.”

A sua volta Aurelio Sìmmaco (Roma 340 - Milano 410 ?) in una sua lettera (libro I, 102) chiede all’amico Siagrio di mandargli lettere frequenti e più piacevoli dei favi d’Ibla o Imetto (Hyblae aut Hymetti favis iucundiores). [54]  

Infine l’anonimo autore dei Tetrasticha in Vergilii Bucolica et Georgica inclusi nell’Anthologia Latina [55] , rimaneggiando alcuni versi dei libri II e IV delle Georgiche (in cui fra l’altro il miele è definito aereo in ossequio ad un’antica credenza secondo la quale esso cadeva dal cielo insieme alla rugiada), scrive (12):

a) (II) Sidera deinde canit, segetes et dona Lyaei
et pecorum cultus, Hyblaei mella saporis.

“[Virgilio] canta le costellazioni, le messi, i doni di Bacco, l’allevamento delle pecore e i mieli dal sapore ibleo.”

b) (IV) Protinus aërei mellis redolentia regna
Hyblaeas et apes alv<e>orum et cerea texta
quique apti flores examina quaequae legenda
indicat humentisque favos, caelestia dona.

“Di seguito tratta i regni olezzanti dell’aereo miele, le api iblee, le tessiture di cera degli alveari, quali [siano] i fiori adatti, quali gli sciami da scegliere e i favi umidi, doni del cielo.”

E ora passiamo al Pervigilium Veneris, che per la sua fondamentale importanza nella letteratura latina merita una trattazione a parte.

 Pervigilium Veneris
culto della Venere Iblese e Primavera del Botticelli

Il Pervigilium Veneris è il riferimento più importante di questa rassegna perché il poemetto è tutto riferito a Venere e Ibla. Di quest’inno, pervenutoci anonimo anch’esso nell’Anthologia Latina, si è scritto tanto attraverso i secoli: sull’autore (che, nonostante le varie attribuzioni a Catullo, Apuleio, Tiberiano, Floro, ecc., rimane ignoto), sul periodo di composizione (che va dal I al IV secolo d. C.), sulla destinazione. Ma soprattutto si è scritto del suo valore, della sua bellezza, della sua melodia: un carme artisticamente ben riuscito, molto lodato dalla critica di tutti i tempi (anche se nel suo accurato e profondo studio filologico Rosario Musmeci, pur non disprezzandolo, non condivide tutta l’entusiastica ammirazione degli altri critici) [56]  e la cui atmosfera ritornerà nella letteratura e nell’arte del Rinascimento: basti pensare a poeti come Sannazaro (che curò l’edizione del Pervigilium detta anche viennese), Lorenzo dei Medici (“Trionfo di Bacco e Arianna”, “Il ritorno della Primavera”, ecc.), Poliziano (“Ballata delle rose” , “Ben venga maggio” e l’apparizione di Simonetta [Cattaneo] in “Stanze per la giostra di Giuliano dei Medici”), Firenzuola (“Rime”); e a pittori come il Botticelli (La nascita di Venere, La Primavera).

In questa “Lunga veglia di Venere”, inno forse composto per un coro di fanciulle, certamente c’è una ripresa dell’inno di Lucrezio a Venere Genitrice con cui si apre il De rerum natura e del libro II (323-345) delle Georgiche, ma anche — nell’insistenza del ritornello Cras amet qui numquam amavit, quique amavit cras amet (“Domani ami chi mai ha amato, e chi ha amato domani ami ancora”) — dell’idea del carpe diem oraziano, che poi sarà fatta propria anche dal Magnifico nel brindisi del suo “Trionfo”. Però nel Pervigilium l’ignoto autore è andato ben al di là d’un semplice invito epicureo e carnascialesco o anche d’una pur graziosa descrizione estetica del paesaggio e ha concentrato l’attenzione sull’ineludibile istinto di procreazione: Venere è la fonte stessa della vita di tutti gli esseri, quella che, vincendo ogni titubanza o resistenza, favorisce gli accoppiamenti e le nascite; sicché nell’ambiente dominato da lei c’è come un afflato pànico, una forza incoercibile emanante dalla dea e tendente alla riproduzione degli esseri.

L’inno, di 93 settenari tetrametri trocaici divisi in 10 strofe disuguali inframmezzate da un ritornello ripetuto 11 volte, ha un’impostazione popolare: il metro stesso, definito “leggero e volubile” dal Marchesi (il quale avanza anche l’ipotesi che l’autore sia siciliano o addirittura iblese), è estraneo alla lirica classica e tipico di quella drammatica; inoltre ci sono vari volgarismi e grecismi, nonché — come osserva Italo Mariotti — “spunti che fanno pensare a una raffinata e dotta tecnica compositiva, di tradizione forse ellenistica, per cui si può accostare il Pervigilium al movimento esoterico dell’epoca di Adriano” [57] .

Secondo Luigi Alfonsi l’ignoto autore, di squisita cultura alessandrina, vuole esaltare la Venere Hyblaea, fecondatrice e madre di Roma: l’inno, sciolto e personale, nonostante sembri appartenere alla tarda latinità per i volgarismi presenti e per certi costrutti come il de con l’ablativo causale, va ricondotto all’ambiente di Adriano e dei poetae novelli. Nell’inno c’è “oltre lo spunto di malinconia, il pagano senso della vita, l’invito all’amore, un naturalismo tripudiante (nel ritornello!) ..., che dissolvendo il dolore si pone come profondo motivo polemico anticristiano, anche nell’asserire il legame tra Venere e la stirpe latina”. Anche per l’Alfonsi l’ignoto autore, che conosce tradizioni ellenistiche sulla Sicilia e cita un verso di Calpurnio Siculo, molto probabilmente è un siciliano [58] .

Su Adriano, che regnò dal 117 al 138, torna Francesco Sinatra, supponendo che l’inno possa essere stato scritto in occasione dell’ascensione al vulcano Etna nel 123 da parte dell’imperatore e ponendo come scenario della festa la piana di Catania, con particolare riferimento al santuario della dea iblea di cui aveva parlato Pausania, santuario collocato dal Sinatra sull’acropoli dell’attuale città di Paternò [59] .

E osserva il Musmeci: “L’antica dea di Hybla si è sincretizzata con la Venus Genetrix di Cesare” [60] .

Dunque, la festa che durava tre notti nelle calende d’aprile e in cui doveva essere cantato l’inno è quella della Venere Iblese, la dea cioè in cui si riconoscono le suddette qualità e che aveva il suo più famoso tempio proprio nell’etnea Hybla Maior, cioè in un “luogo fertile” per eccellenza. Ciò conferma la grande devozione della Sicilia a Venere, la quale aveva a Erice (TP) un altro noto santuario, per tradizione fondato da Enea. Questo santuario — insieme con il culto della Venere Ericina — è tuttora ricordato in un’epigrafe apposta su un muro di cinta del castello di Venere, sorto nel luogo del santuario stesso, attiguo al castello di Pepoli, La Sicilia così era divisa tra la Venere Iblese a est e la Venere Ericina a ovest; e della Venere Ericina si ricordò fra gli altri Orazio [61] quando scrisse le parole “Erycina ridens”. Ridens è un appellativo tradizionale di Venere e può essere inteso come “sorridente” o “amica del riso”. Le proprietà fecondatrici del sorriso di Venere erano ben note nel mondo classico; e fra gli altri se ne fecero interpreti il Foscolo in “A Zacinto” (“fea quell’isole feconde / col suo primo sorriso”) e nelle Grazie e il Carducci nella 2^ delle Primavere Elleniche (“De l’ombroso pelasgo Erice in vetta / Eterna ride ivi Afrodite e impera, / E freme tutt’amor la benedetta / Da lei costiera”).

Del culto della Venere Iblese è prezioso documento un’epigrafe ora conservata nel museo del Castello Ursino di Catania con la scritta “Veneri Victrici Hyblensi”, relativa ad una statua offerta da un Caio Publicio Donato alla Venere Vincitrice Iblese. Nell’anno 21 a. C. — riferisce Barbaro Conti — Augusto inviò nuovi abitanti a Catina (= Catania) divenuta colonia romana: una parte di questa colonia si stanziò a Ibla, vicus di Catina, e vi eresse un’ara a Venere Vincitrice [62] . La struttura completa dell’epigrafe è la seguente:

VENE
RI •
VICTRI
CI •
HYBLEN
SI •
C • PUBLIC
DONA
TUS
D • D •

L’epigrafe è incisa sul fronte d’un cippo esagonale, avente in alto un’incavatura atta a ricevere la base d’una statua, scoperto a Paternò nel 1759 [63] .

A sua volta fra’ Placido Bellìa, nella storia da lui finita di scrivere nel 1808, attesta che nel suo convento (francescani conventuali) sito sull’acropoli di Paternò (proprio dove, come ritiene anche il Di Matteo, si trovava il santuario della Venere Iblese, rivolto verso la Piana a sublimarne la fertilità e proteggerne i prodotti) [64] , furono rinvenute in uno scavo di ghiaia l’ara di cui sopra con l’epigrafe “Veneri Hyblensi” e una lapide bianca con la scritta “Paternò Hybla Maior”, documenti poi conservati nel museo del principe di Bìscari a Catania (questo museo dal 1934 è confluito nel museo civico catanese del castello Ursino) [65].

Ma forse sarà più interessante apprendere che originariamente — come sostenuto da alcuni — la dea titolare di questo culto aveva nome proprio Ibla, che essa era effigiata anche in una moneta o medaglia e che in seguito alla conquista romana fu identificata con la dea Venere: e ciò come accaduto per altre città, anche greche, in cui ci fu la divinizzazione della città e il toponimo è il nome del nume tutelare (città Ibla = dea Ibla, e viceversa). Del resto, siccome Pausania parla di “una dea iblea”, senza precisarne il nome (Ybláias theoû) ma aggiungendo che essa aveva un santuario tenuto in gran venerazione dai sicelioti (quindi non solo dagl’iblesi), questo fa supporre con fondamento che una dea oggetto di tanto culto, indicata come “iblea”, fosse una divinità autòctona ed epònima, cioè della stessa località che le aveva dato il proprio nome e le funzioni di patrona [66] . Pausania aggiunge che quest’iblesi, oltre ad essere grandi interpreti di prodigi e sogni, erano i più pii della Sicilia: e in questo giudizio si rifà a Filisto, che per essere siracusano certamente se ne intendeva [67] .

Al riguardo nella sua storia il Bellìa parla anche di tre monete attinenti a Ibla, di cui una da lui stesso posseduta e un’altra — più interessante — riportata dal Paruta e conservata nel monastero dei padri cassinesi di Catania: questa su un lato presenta una donna velata con ornamento al collo (ritenuta la dea Ibla), dietro a cui c’è un’ape (dunque il miele c’era anche a Ibla Grande), e sull’altro una donna appoggiata ad un’asta con un vaso alla mano, un cane ai piedi e la scritta YBLAS MEGALAS [68]  .

Questa moneta, il Torremuzza non solo l’ha vista in vari esemplari, ma fortunatamente l’ha riportata nel suo catalogo numismatico della Sicilia antica in ben cinque versioni, ciascuna leggermente diversa dall’altra [69] . Egli per quanto riguarda la versione n° 4 riferisce la testa femminile alla stessa Ibla e ritiene “che la donna dell’altro lato sia la dea Ibla, da cui la città prese il nome e del cui culto si ha un’importantissima testimonianza in Pausania”. Importante è anche la versione n° 5 della moneta, in cui la dea in piedi tiene con la destra un mazzo di spighe (ricchezza e simbolo della Piana) e con la sinistra una fiaccola. Tutte queste spiegazioni sono date nello stesso catalogo, dove si ripete quanto detto nelle altre due opere circa l’esistenza di almeno tre Ible, una delle quali prossima al territorio di Catania e all’attuale Paternò [70]

Per il Ciàceri non solo il busto effigiato sulla moneta sarebbe quello della dea Ibla, ma anche la figura in piedi sul retro sarebbe quella della dea da lui detta sotterranea.

Sostennero l’identità fra Hybla Maior e Paternò anzitutto l’archeologo tedesco Filippo Cluver (1580-1623) nella sua Sicilia antiqua e poi il geografo Giovan Battista Nicolosi (Paternò 1610 - Roma 1670), il quale sui frontespizi delle sue opere ci teneva a dichiararsi iblese (Auctore Ioanne Baptista Nicolosio Hyblensi) e affermò: “Hybla Major seu Paternio et Paternium, Paternò” [71] ; per cui uno dei suoi biografi, lo storico Savasta, nel 1898 ebbe a scrivere: “Paternò, l’Ibla dolce del miele e dei poeti” [72] . A sua volta Wolfgang Goethe (1749-1832) nel suo Viaggio in Italia   annotò di essere passato l’1.V.1787 presso Hybla Maior, intendendo Paternò. Recentemente anche Giovan Battista Pellegrini ha parlato d’identità fra Hybla Geleatis e Paternò, sostenendo — come aveva fatto Giovanni Alessio — che il termine “Paternò” deriva dal latino Paternum (praedium), cioè fondo lasciato in eredità dal padre: etimologia ribadita dal Caracausi [73] . Questo — se vero — comporta che l’Ibla etnea cambiò nome nel periodo della tarda latinità.

Circa tale identità, il culto della dea locale e la Venere Vincitrice Iblese, riteniamo utile riportare quanto scritto in due noti lessici: quello del Lübker e quello del Forcellini-Perin.

Il Lessico classico del Lübker: “Hybla, Ybla e Méizon, Ibla maggiore sul Simeto, ora Paternò sul fiume Giaretta [74] , alle falde meridionali dell’Etna, in origine città dei Siculi con il culto della dea Hyblaea, i cui sacerdoti erano interpreti di segni e di sogni [...]. Cicerone ricorda gli Hyblenses [...]; più tardi il luogo rimase abbandonato [75] .” [76] 

Lexicon del Forcellini / Onomasticon del Perin: “Hybla Major (Yblai Megàlai, Fabretti Gloss.  it. 608), fra Catania e Centuripe, odierna Paternò (Corp.. ). La ricordano Mela 2.118 e Livio (26.21). Per quanto riguarda le sue monete vedi Eckhel 1. pag. 216. [...] Iblesi, aggettivo riferito a Hybla Maior [...] Corp... Venere Vincitrice Iblese.” [77]  

Leggendo il testo del Lübker si ha l’impressione che lui o il suo traduttore abbiano inteso che Hyblaea fosse il nome (autentico o dato per antonomasia dai forestieri) della dea d’Ibla; e ciò sembrano desumerlo da Pausania anche altri. Il Ciàceri intitola proprio La dea Hyblaia un lungo capitolo del suo citato libro Culti e miti ecc. Questo capitolo, di cui abbiamo dato anticipazioni parlando del significato della parola Gereatis, è molto importante per l’approfondimento del problema che stiamo trattando. Secondo l’autore “il fatto che gli scrittori greci non sapevano indicare con un nome proprio quella divinità, basta da per sé stesso a rivelarne la natura indigena”. L’autore poi afferma che questa era una delle divinità telluriche tanto comuni in Sicilia a causa delle manifestazioni vulcaniche del sottosuolo; e, siccome a Paternò ai piedi della collina c’è un vulcanetto di fango detto Salinella, là avrebbe avuto origine il culto di questa dea e là sarebbe sorta la corporazione degli indovini, perché si credeva che oracoli e divinazioni dovessero sorgere all’imbocco di sotterranei per consentire la comunicazione con le divinità ctonie. 

Secondo il Ciàceri, poi, il culto della dea Hyblaia, originariamente siculo, fu poi ellenizzato per l’arrivo della corporazione degl’indovini di cui parlano Cicerone nel De divinatione (I 20, 39) ed Eliano (circa 175-235 d. C.) nella sua Storia varia (XII 46), affermando che Galeoti pertanto furono detti gli abitanti della piccola Ibla dell’Etna e che Gereatis di Pausania e Geleatis di Tucìdide sono forme diverse di Galeotis. Premesso che galeotes sarebbero i pescispada dello stretto di Messina (galeós = pescecane), l’autore continua affermando che i Galeoti sono venuti in Sicilia dal mare, che il loro sacerdozio era in relazione col culto di Apollo cario e di suo figlio Galeote e che i megaresi che giunsero in Sicilia portarono questo culto e la tradizione della divinazione, poi si diffusero fino all’Ibla etnea e si stabilirono accanto al culto della dea Hyblaia, passando anche a Mégara, la quale assunse proprio per questo il nome di Mégara Iblea o Ibla Maggiore, come risulterebbe dalle monete di cui s’è parlato e che quindi il Ciàceri attribuisce a quest’Ibla.

Altro argomento del Ciàceri in questo importante capitolo è quello dell’ellenizzazione del culto della dea Hyblaia per effetto della politica siracusana iniziata da Gelone. Egli ritiene non casuale l’accostamento della statua votiva degl’iblesi al cocchio di Gelone, a Olimpia, e spiega il passaggio dall’originaria Gereatis a Geleatis con l’esigenza d’onorare Gelone e la sua patria Gela. Ricordato che la politica siracusana di Gelone fu continuata dal fratello Gerone, il Ciàceri afferma che fu proprio grazie ai buoni rapporti con Siracusa che l’Ibla etnea non volle prendere parte alla confederazione delle città sicule promossa da Ducezio con un’insurrezione definita “nazionale”. Sempre grazie a questi buoni rapporti con Siracusa, poi, gl’iblesi furono contrari agli ateniesi in guerra coi siracusani e per ritorsione subirono l’incendio delle messi (415-414 a. C.). Il Ciàceri conclude ricordando che nel 211 a. C., dietro la conquista di Marcello, Ibla e altre città sicule si ribellarono al giogo romano, sentendosi legate ancora a Siracusa, la quale dai romani era stata vinta e saccheggiata. “Agli Iblei, memori dell’antico culto della loro dea, al tempo delle buone relazioni col potente re Gelone, non restava ormai che far voti a ‘Veneri Victrici Iblensi [78] ’.”

Non tutte le tesi del Ciàceri sono condivise dagli studiosi. Se Biagio Pace scrive nell’Enciclopedia Treccani: “Nella città di Ibla, alle falde dell’Etna, si venerava una dea d’ignoto nome, la dea Iblea: gli abitanti avevano fama di gente pia, indovinavano sogni e prodigi”; nella stessa enciclopedia, alla voce “Galeoti” il Libertini chiama espressamente Ibla (come la città) la dea d’Ibla e afferma: “Qualcuno (Ciaceri) identifica i galeoti coi sacerdoti della barbarica dea Ibla venerata a Ibla Geleatide e li farebbe provenire dall’Asia Minore, forse dalla Caria, donde sarebbero stati importati dai coloni di Megara Iblea, ma secondo altri (Pareti) essi sarebbero di origine greca, né si dovrebbero identificare con i sacerdoti del suddetto santuario, ché, anzi, sarebbero stati diffusi per tutta l’isola.” [79]  

Ad onor del vero, bisogna dire che la suddetta enciclopedia nel corso dei suoi volumi si occupa varie volte e con ampio spazio di tutta la problematica riguardante Ibla. Anzitutto c’è una grande mappa della Sicilia preistorica in cui risulta scritto al posto debito Hybla Magna (Galeatis), vi sono Hybla Parva e nei pressi la succedanea Megara Hyblaea, mentre accanto all’indicazione di Hybla Heraea presso l’attuale Ragusa vi è un punto interrogativo. Altri esempi sono le voci “Paternò” di Angelo Taccone e Vincenzo Epifani, in cui però si presenta col dubbio (“forse”) la vicinanza di Paternò all’antica Hybla Maior o Hybla Geleatis, e la citata “Sicilia” a cura del Pace, in cui si afferma inoltre: “Ibla Maggiore [...] Ibla dell’Etna — una delle tre città siciliane di questo nome — è forse la prima a subire l’influenza della vicina Catana. La primitiva città sicula giaceva sopra e attorno alla gran rupe isolata vicino a Paternò, su cui oggi sorge il torrione medievale.” [80]  Praticamente sull’acropoli, dove ora c’è il castello normanno.

La dea d’Ibla è chiamata espressamente Ibla anche dal Correnti e nel Dizionario di Antichità Classiche di Oxford, all’omonima voce: “Ibla Galeotide o Geleatide (Gheleâtis, Ghereâtis), sede di un culto della dea Ibla e di una corporazione di indovini chiamata dei Galeoti.” [81] 

Qui è doveroso citare anche un’enciclopedia straniera che dedica ampio spazio alla stessa problematica: la tedesca Real Enciclopedia della Scienza dell’Antichità Classica [82] . In essa figurano al riguardo tre voci: “Hybla” di Konrad Ziegler, “Hyblaia” di Hugo Hepding e “Hyblaion” ancora dello Ziegler.

Nella prima voce lo Ziegler, dopo aver ricordato che ai tempi di Filisto l’Ibla etnea era ancora “barbarica”, cioè sicula, afferma che l’antico culto della dea Hyblaia [83] , mantenutosi fino al tempo di Pausania, ha determinato il rifiuto (d’impronta conservatrice) dell’influsso greco. Rifacendosi più che altro al suddetto passo del De Divinatione di Cicerone (interpretes portentorum qui Galeotae tum in Sicilia nominabantur) [84] , nonché ad Esichio (voce Galeói) e Stefano Bizantino (voce Galeôtai), l’autore deduce che i Galeoti non furono una popolazione di una città determinata, ma una categoria d’indovini diffusi in Sicilia, che quando arrivarono a Ibla affiancarono l’oracolo al santuario e al culto della dea locale.  Dopo aver accennato alle due epigrafi, una dedicata a Venere Vincitrice (per la quale non trova fondati motivi d’identificazione con la dea Hyblaia) e l’altra alla piccola Iulia Florentina, egli passa a trattare della posizione privilegiata della collina di Paternò e del ruolo di direzione militare, politica e religiosa da essa svolto dai tempi dell’antica Ibla fino ai normanni e oltre, ma situa il santuario della dea Hyblaia nei pressi del sottostante vulcano di fango della Salinella, dalla cui presenza il Freeman-Lupus (I 138) ha desunto il carattere ctonio della dea venerata in quel luogo. L’esposizione dello Ziegler continua con l’elencazione dei reperti archeologici siculi, greci e romani di Paternò e vicinanze: fra quelli d’epoca romana egli cita due arcate di ponte, rovine di bagni e acquedotti, un pavimento a mosaico, tombe e cisterne [85] . A questi reperti, però, ora è necessario aggiungere almeno quello che alla mostra veneziana di palazzo Grassi “I greci in occidente” del 1996 (in cui è stato parzialmente esposto) è stato indicato come “Tesoro di Paternò”: preziosa argenteria d’epoca greco-romana scoperta da contadini sulla collina di Paternò nel 1909 e finita al museo di Berlino, che ne è in possesso. 

Circa la lunga esistenza del culto della dea Hyblaia, lo Ziegler osserva che essa è dovuta al fatto che la città, la cui importanza risiedeva non su potenza militare e bellica ma solo sul prestigio di tale culto, celebre fin dai tempi remoti, ha sempre tenuto a mantenere ottimi rapporti coi greci. Infine, dopo aver affermato che l’Ibla megarese tramontò nelle guerre degli schiavi (secoli II e I a. C.), mentre l’Ibla etnea sopravvisse addirittura fino ai normanni [86] , un’ultima considerazione lo Ziegler dedica alle monete con la scritta YBLAS MEGALAS, ricordando che l’Holm ha visto nel busto di donna l’immagine della dea Hyblaia e nella vicina ape il simbolo del miele.

A sua volta l’Hepding nella seconda voce riporta tutte le notizie finora conosciute relativamente alla dea Hyblaia, ai Galeoti, alla religiosità della popolazione, all’epigrafe dedicata a Venere Vincitrice e alle monete di YBLA MEGALA con l’immagine della dea; e precisa che quest’Ibla si differenziava dalle altre per il suo appellativo di Gereatis-Geleatis e “s’innalzava sul pendio meridionale dell’Etna in corrispondenza dell’attuale Paternò”. Secondo lui, anche la divinazione era legata al culto di questa dea.

Infine nella terza voce lo stesso Ziegler affronta il problema dell’”Ibleo” (vedi Diodoro), riportando che l’Holm (II 487) lo vorrebbe un fiume presso l’attuale Ragusa, anziché un monte (“freddo, sassoso, selvaggio altopiano ad ovest di Ragusa) come riteneva lo Schubring (Rh. Mus. XXVIII 110).

A conclusione di questa parte ricordiamo che l’ipotesi dell’ubicazione del santuario d’Ibla in località Salinella (ricca d’acqua e sale) avanzata dai precedenti studiosi è stata riproposta recentemente anche da Vincenzo Fàllica [87] e altri; ma si può obiettare che, se davvero anche per il culto di tale dea fosse stata necessaria l’ubicazione all’imbocco d’un condotto sotterraneo, sulla collina del castello c’era un altro vulcanetto, attivo — sia pure in misura minima — fino ai primi del sec. XIX: e poiché proprio in questa zona è avvenuto il ritrovamento dell’ara di Venere, sembra più verosimile che il santuario fosse sulla rocca anche nell’ipotesi che la città fosse a valle.

Ma torniamo al Pervigilium Veneris. Nell’inno la dea assume un atteggiamento regale, e intorno a lei spazia un ambiente primaverile, ricco di fiori e di profumi (vv. 49-52):

 Iussit Hyblaeis tribunal stare diva floribus:
 Praeses ipsa iura dicet, adsidebunt Gratiae.
 Hybla, totos funde flores, quidquid annus adtulit:            
 Hybla, florum sume vestem, quantus Aetnae campus est.

Traduce Sergio Baldi: “Divina ella vuole il suo campo cosparso di fiori iblei; / ordina ella e comanda, e le rispondon le Grazie / e i fiori tutti che l’anno porta alle valli di Ibla / e più che alle valli di Ibla, e più che ai campi dell’Etna.”; mentre per questi ultimi due versi il Marchesi rimane più aderente alla lettera: “Ibla, versa tutti i fiori, quanto l’anno ce ne ha dati: / Ibla, copriti di fiori quanto è grande il campo di Etna” [88] .

Il Marchesi afferma che stavolta non sono i fiori del monte Ibla, ma quelli della città Hybla Maior; ed Etna non sarebbe il vulcano e neanche Catania (la quale era stata così chiamata dopo la conquista di Gelone nel 476 a. C.) ma con ogni probabilità la città sicula Inessa, detta Etna dopo che vi si stabilirono i dori etnei vinti da Ducezio nel 461 a. C. A sua volta Italo Mariotti è ancora più esplicito, dichiarando senza mezzi termini l’identità fra quest’antica Hybla e l’attuale Paternò, come fanno il Correnti e il Sinatra. Ed altrettanto esplicita è anche l’enciclopedia della letteratura Garzanti, la quale alla voce “Pervigilium Veneris” così scrive: “Si ritiene che il P. V. fosse stato composto per un coro destinato ad una veglia notturna in preparazione alla festa di Venere, che si celebrava a Ibla (oggi Paternò) ai piedi dell’Etna a ogni ritorno della primavera.” [89]  

Con quest’ultima ipotesi, allora, possiamo intendere meglio l’espressione “Aetnae campus” dei versi citati: basta tradurre campus con la parola “piana”; e quindi la piana dell’inno non è altro che quella che si trova ai piedi dell’Etna e che oggi si chiama Piana di Catania o in dialetto semplicemente A Chiana, vasta pianura fra Catania, Paternò, Lentini e Centuripe, ricca di fiori, ma anche di messi, d’altri prodotti agricoli d’ogni genere e oggi d’agrumi [90] : insomma quella che il Musmeci con una felice espressione chiama “sacro verziere di Hybla” [91] . L’ignoto poeta è rimasto colpito dalla vastità di questo campus, vastità espressa con l’aggettivo quantus = quanto grande; e questa pianura così grande, in Sicilia, non può essere una piana qualsiasi, magari verso Ragusa (monte Ibla) o verso Enna, ma la Piana di Catania. Peraltro anche lo Schilling (che ha curato e tradotto in francese l’inno) [92] e la Garbarino aderiscono a questa tesi, parlando l’uno di “plaine de l’Etna”, cioè “piana dell’Etna” [93] , e l’altra di “piana fiorita ai piedi dell’Etna” [94] . Così cade anche la lezione Ennae (d’Enna) al posto di Aetnae avanzata nel sec. XVI dal Lipsio [95]  e ripresa nel sec. XIX dal Baehrens [96]

A questo punto non possiamo non soffermarci sulla bellezza di questo passo (oltre che di tutto il resto) ed in particolare sulla veste di fiori che Hybla deve indossare (“florum sume vestem” del verso 52). È stupenda questa veste d’Hybla fatta di fiori ed estesa a tutta la piana, la quale fa da veste a Hybla. C’è qui una forte idealizzazione del paesaggio: la piana etnea su cui troneggia Venere dall’alto dell’acropoli d’Ibla appare al poeta e ai lettori come una variopinta, olezzante e melodiosa isola di sogno, una specie — se è lecita l’espressione in clima pagano — di paradiso terrestre, agognato da quanti magari non possono recarvisi. Ed è proprio in questa piana, in quest’isola di sogno che scoppia la primavera e da qui parte l’incitamento a seguire l’istinto primigenio della generazione e della moltiplicazione.

Tuttavia non c’è quell’erotismo che qualcuno vi ha visto: se per erotismo s’intende licenziosità e ricerca d’un godimento egoistico sterile e fine a sé stesso, in una composizione religiosa, sacra, non può esserci questo tipo d’erotismo; perciò prima abbiamo detto che il contenuto dell’inno va al di là d’un semplice invito epicureo o carnascialesco, anche se non vi manca la spregiudicatezza. Tutto porta al divenire della natura, inteso come continua crescita e mutazione degli esseri.

Di “Venere Iblea” parla anche il Monaco-De Bernardis-Sorci, che in una nota indica Ibla come “città della Sicilia, alle falde meridionali dell’Etna, sul corso del Simeto” [97] . Ma sarà più opportuno citare Donato Gagliardi, che ha fatto una delle analisi più lucide del Pervigilium: “Un commosso epitalamio sulle nozze del mondo con la primavera, pieno di grazia sensuale e traboccante di gioia di vivere [...] Ed ecco finalmente la descrizione della festa, nella pianura di Ibla, sui cui fiori la dea volle innalzato il suo trono, ai piedi dell’Etna. Nei famosi versi d’invocazione [...] dalla ripetizione del toponimo e dalla sostanziale analogia di struttura, traluce una fantasmagoria di colori di grande effetto, sullo sfondo di quella campagna siciliana che farà da scenario anche al ratto di Proserpina nell’opera di Claudiano.”  Per il Gagliardi questo poemetto rappresenta “il vertice di tutta la poesia tardoantica” ed è evidente che in esso c’è l’identificazione di Venus con Voluptas. Sono — questi — passi d’un saggio che sicuramente, anche per la capacità e finezza espressiva, ha dato un contributo determinante alla valorizzazione e comprensione del Pervigilium Veneris. [98]          

E che si possano fare collegamenti col futuro Rinascimento — come dicevamo — non è ipotesi peregrina: basti pensare al grandioso dipinto La Primavera di Sandro Botticelli, il  quale — come osserva Francesco Negri Arnoldi — “sembra voglia illustrare il ritorno della Primavera, ma che appare piuttosto come un Trionfo di Venere, rappresentata in languida posa al centro della composizione tra due distinti gruppi: quello con la Flora inseguita da Zefiro e con la Primavera inghirlandata e vestita di fiori che cosparge di rose il suo cammino, e l’altro con le tre Grazie danzanti e Mercurio col caduceo alzato verso i rami dei verdi alberi di arancio che formano l’ameno e fresco boschetto” [99] .

E Guido Cornini, che ha analizzato molto attentamente questo dipinto, scrive: “L’immagine si materializza nella cornice fiorita di un prato primaverile, lambito della penombra di un boschetto di aranci e disseminato di erbe e piante d’ogni specie che ha messo alla prova le capacità inquisitive dei commentatori almeno quanto il riconoscimento delle valenze concettuali del dipinto. Al di là dell’aranceto, scandito dalle fitte verticali degli alberi, lo spazio è delineato da una siepe di mirto stagliata in controluce.” Per il Cornini, la scena è posta nel mitico giardino dell’isola di Cipro, sacra a Venere [100] ; ed è probabile che essa, “intessuta di richiami a Orazio, Lucrezio, Apuleio, rielabori suggestioni del Poliziano di ascendenza ficiniana”. E qui praticamente il Cornini rilancia l’idea del Gombrich. [101] 

A lungo si è discusso sulle fonti e sul significato allegorico dell’opera botticelliana La Primavera. Fra le fonti di questo dipinto anche Giulio Argan ha posto L’Asino d’oro di Apuleio (libro X: giudizio di Paride, nel momento in cui Venere entra in scena) citando anche lui il Gombrich. Poi, sulla base d’una lettera di Marsilio Ficino al suo discepolo Lorenzo di Pierfrancesco dei Medici (parente del Magnifico), per il quale il dipinto fu eseguito, l’Argan ha affermato che il tema centrale è la ficiniana identificazione di Venus con Humanitas [102] . E anche secondo Stefano Zuffi “Botticelli affronta il nuovo tema della trasposizione in pittura di raffinate idee filosofiche, attraverso un limpido colore, l’uso di preziose velature e l’impeccabile nitore del disegno” [103] .

Per noi evidentemente la fonte più vicina è il Pervigilium Veneris, del quale il dipinto del Botticelli ha molto; ed è probabile che il pittore fiorentino, frequentando un ambiente intellettuale ed umanistico qual era quello dei Medici, in cui quest’inno potrebbe essere stato conosciuto, si sia ispirato anche ad esso, magari dietro suggerimento di qualche intellettuale o umanista. Si noti nel quadro, in particolare, oltre a Venere, Cupido-Amore alato che sovrasta tutti con arco e frecce pronto a colpire, le tre Grazie (=adsidebunt Gratiae), la veste fiorata della Primavera (=florum sume vestem), il campo pieno di fiori variopinti (=Aetnae campus) e lo sfondo dei “verdi alberi di arancio” con mazzetti di zàgara, il voluttuoso fiore dell’arancio (simbolo delle nozze) detto anche fiore degli sposi, nel periodo di passaggio tra la fine dell’inverno e l’inizio della primavera (ricordiamo che la festa si svolgeva nelle calende d’aprile): lo scenario sembra posto nella zona etnea, dove all’epoca del Pervigilium non esistevano questi alberi, che invece c’erano all’epoca del pittore perché nel frattempo introdottivi dagli arabi, inventori dei famosi giardini d’aranci. A dire il vero, nell’inno Cupido appare nudo e inerme; ma, come dice l’ignoto poeta ai versi 34-35, Cupido pulcher est: / Totus est in armis idem quando nudus est Amor (“Cupido è bello: Amore è tutto in armi lo stesso, quando è nudo”). Amore era nudo nella tradizione greco-romana: e il Foscolo nei Sepolcri (vv. 177-178) scrisse che fu il Petrarca ad adornare d’un velo candidissimo Amore “in Grecia nudo e nudo in Roma”.

Si noti poi nel volto della Primavera il sorriso simile a quello della leonardesca Gioconda: misterioso, enigmatico, tra soddisfatto, compiaciuto e ammiccante se non malizioso. E la sua veste fiorata è proprio quella d’Ibla.

Infine non si può escludere qualche influsso d’Ovidio (Metamorphoseon, V 385-401 e indirettamente Fasti, IV 425-442): lo scenario ovidiano così dettagliato potrebbe avere ispirato tanto l’ignoto autore del Pervigilium quanto (sia pure attraverso le Stanze del Poliziano e le opere del Magnifico stesso) il Botticelli, anche perché Flora era un’antica divinità latina della Primavera il cui ratto da parte di Zefiro, quando lei era ancora la ninfa greca Clòride, si collegava a quello di Persefone-Proserpina da parte di Ade-Plutone e in cui onore si celebravano in aprile le feste dette Floralia.

E forse non è un caso che il fiorentino Agnolo Firenzuola, contemporaneo sia pure per pochi anni del Botticelli, abbia accomunato in un verso delle sue Rime [104] tre donne da lui ammirate dai nomi di tre protagoniste del Pervigilium: Delia, Flora e Ibla, di cui le ultime due, secondo la nostra interpretazione, figurano anche nel dipinto La Primavera.

Quanto poi alla lettura di questo dipinto recentemente fatta da Claudia Villa nel suo saggio Mercurio “retrogrado” e la retorica nella bottega di Botticelli [105] , secondo cui — sulla base della diffusa metafora medievale dei fiori retorici — la figura finora detta Primavera sarebbe la Retorica e per il resto il dipinto sarebbe ispirato dal De nuptiis Mercurii et Philologiae [106] del retore africano Marziano Capella (sec. IV-V d. C.), osserviamo anzitutto che in quest’ipotesi l’iter logico-pittorico sarebbe troppo complesso, se non cervellotico. Inoltre: gli alberi del pomario non sono cotogni, ma sembrano proprio agrumi, per tronchi, foglie, frutti e fiori di zàgara; il luogo può benissimo essere giudicato “ameno” per forme, frutti, colori e soprattutto tantissimi fiori e intuibili profumi; è vero che i fiori retorici sono abbellimenti stilistici, ma nel Pervigilium si parla chiaramente di “veste di fiori”. Ammesso che la lettura della Villa abbia qualche fondamento per la parte sinistra del dipinto (nulla esclude che il Botticelli nell’organizzazione plastica e logistica dei personaggi abbia avuto presente anche il testo di Marziano, oltre che il Pervigilium), tuttavia ribadiamo la nostra interpretazione in particolare relativamente alla figura della Primavera-Ibla come emerge dalla tradizione letteraria classica, oltre che alle figure di Venere e Flora e al campo di fiori etneo.

Prima di concludere l’analisi de La Primavera ricordiamo che il tema di Venere come dea della fecondità è svolto dal Botticelli anche nel dipinto intitolato La nascita di Venere: la dea nasce dal mare su una conchiglia, che — com’è noto — nella tradizione greco-romana simboleggiava l’organo genitale femminile e quindi la fecondità e la procreazione. Ovviamente il mito di questa nascita divina [107] , con un cenno alla mutilazione d’Urano, si riscontra anche nel Pervigilium (vv. 9-11):

Tunc cruore de superno spumeo pontus globo
Caerulas inter catervas inter et bipedes equos 
Fecit undantem Dionen de marinis imbribus.

“Allora il mare da un batuffolo di schiuma di sangue celeste / fra cerule moltitudini e bìpedi ippocampi / fece nascere com’un’onda Dione dalle onde marine.” Perciò le due opere del Botticelli trovano nel Pervigilium stesso un motivo d’unione che si può sintetizzare nelle seguenti parole: fertilità, fecondità, procreazione.

Possiamo dunque affermare che aveva ragione Marziale quando nell’epigramma IX, 11 dichiarava che il nome Primavera, “nome nato con le viole e le rose, con cui si nomina la parte migliore dell’anno”, sa d’Ibla (Hyblam quod sapit): erano tanto associati i due nomi, che per lui Primavera voleva dire in primo luogo bellezza (paesaggio), profumo (fiori) e dolcezza (miele) d’Ibla e grande festa primaverile della Venere Iblese. Praticamente per i poeti classici Primavera e Ibla erano strettamente connesse; e se a queste aggiungiamo Venere, otteniamo il Pervigilium Veneris e La Primavera del Botticelli, dipinto nel quale questo pittore ha dato un corpo e un volto a Ibla: quello della Primavera.

Ibla in un Canto Medievale

Il mito d’Ibla è presente anche nei Carmina Burana, raccolta di circa 300 carmi dei secc. XII e XIII, la quale prende il nome dalla Benediktbeuren, bura (abbazia) benedettina in Baviera, dove nel 1225 è stato trovato un codice. Questi carmi spesso rivelano una cultura classica; ed è così che si spiega il riferimento ad Ibla. Un anonimo autore, nel canto goliardico d’addio che ha come incipit le parole Dulce solum natalis patrie, scrive (8, vv    . 13-16):   

Quot sunt apes     in Hyble vallibus,
quot vestitur     Dodona frondibus
et quot natant     pisces equoribus
tot abundat     amor doloribus.

Traduce Giuseppe Vecchi [108] : “Quante sono l’api nelle valli d’Ibla, / di quante fronde si riveste Dodona [109] / e quanti pesci nuotano nel mare: / di tanti dolori / abbonda amore.” 

La melodia di questo canto si trova nel codice burano e in quelli di Linz e Chartres.

Ibla nella Letteratura Italiana

Ovviamente la letteratura italiana non poteva ignorare il mito d’Ibla, del suo paesaggio, dei suoi fiori, delle sue api e del suo miele; e lo riprese da quella latina, ponendo in questa zona della Sicilia la sua Arcadia. Il fascino dei termini “Hybla”, “Ibla” e “Iblea” era tale che essi furono adoperati perfino come nomi di donna.

Corroborato da autori latini di primo piano, il tópos d’Ibla diventò presto motivo e segnacolo di squisita cultura classica; e durante l’Umanesimo, con la riscoperta del mondo classico, con il suo studio e la sua imitazione, passò come obbligata testimonianza nella letteratura italiana, perpetuandosi nei secoli, dal Quattrocento al Novecento.

Pier Candido Decembrio (Pavia 1392-Milano 1447), segretario prima di Filippo Maria Visconti e poi della breve repubblica milanese, aveva cominciato a comporre il tredicesimo libro dell’Eneide, pensando di completare l’opera di Virgilio, ma dovette arrestarsi dopo 89 versi per l’analoga idea d’un altro cortigiano visconteo, cioè Maffeo Vegio (Lodi 1407-Roma 1458), il quale in effetti riuscì a pubblicare il suo Supplementum virgiliano nel 1427. L’abbozzo del Decembrio risale al 1419 e in esso vi sono i versi 16-18 che ricordano Ibla e in cui, a proposito della ricostruzione urbana disposta da Latino dopo la morte di Turno, si dice che il lavoro procedeva alacremente: “Come le api che affollano i pascoli rugiadosi della verdeggiante Ibla, una truppa sudata tra fiori variopinti lavora velocemente e i campi sono rumorosi per il mormorio dello sciame”.

Marsilio Ficino (Figline Valdarno 1433-Careggi 1499) fondò l’Accademia Platonica fiorentina e diresse con la sua preparazione e la sua autorevolezza il circolo culturale dei Medici, animato anche da personaggi come il Magnifico, il Poliziano e il Botticelli. Nel cap. IX del Liber de arte chemica (“Sull’alchimia”) egli fa questo riferimento a Ibla: “Come [fanno] anche piccole api, mentre succhiano la parte più dolce dei fiori d’Imetto e d’Ibla, per il piacere di far miele.” Qui va ricordato anche che il Ficino, con le sue teorie platoniche, influenzò il Botticelli nella composizione del dipinto La Primavera, la quale in realtà raffigura il mito d’Ibla del Pervigilium Veneris.

Ludovico Ariosto (Reggio nell’Emilia 1474 - Ferrara 1533), è notissimo per l’Orlando furioso, ma — secondo il costume degli scrittori del periodo umanistico — fu anche autore di Carmina, canti in latino composti nell’età fra i 20 e i 30 anni. Nell’elegia De diversis amoribus, in cui confessa la sua volubilità amatoria, fra le donne da lui amate ne cita tre volte una di nome Hybla (LIV, vv. 1-4 e 67-70):

Est mea nunc Glycere, mea nunc est cura Lycoris        
  Lyda modo meus est, est modo Phyllis amor.
Primas Glaura faces renovat, movet Hybla recentes,
  mox cessura igni Glaura vel Hybla novo.
[...]
et nunc Hybla licet, nunc sit mea Lycoris,
  et te, Phylli modo, te modo velim,
aut Glauram aut Glycerem, aut unam aut saepe ducentas
  depeream; igne tamen perpete semper amo.

Traduce Mario Santoro [110] : “Ora mi è a cuore Glicera, ora Licori; ora Lida è il mio amore, ora Filli. Glaura ridesta i primi ardori, Ibla ne stimola nuovi e ambedue presto lasceranno il posto ad un nuovo fuoco [...] e sebbene ora mi sia a cuore Ibla, ora Licori, e ora io voglio te o Lidia, o sia perdutamente innamorato di Glaura o di Glicera, e ora di una ora di duecento, sempre tuttavia amo con una fiamma perenne.” Qui il traduttore ha accorpato la seconda delle tre parole Hybla.

Matteo Bandello (Castelnuovo Scrivia 1485 - Agen di Francia 1561), frate domenicano e novelliere, approfitta d’una reminiscenza letteraria per un’immagine sensuale, che poi tornerà somigliante nel Marino (del quale vedi più avanti il punto c): Quelle due mammelle piene di miele ibleo, le belle braccia... mi promettono pure ch’ella sia donna [111] .

Agnolo Firenzuola (Firenze 1493 - Prato 1543) è tanto legato a Ibla (di cui presenta quattro riferimenti) da dare ad una compagna della donna da lui cantata ora il nome letterario d’Iblea ora direttamente quello d’Ibla; e il ricordo della località siciliana esprime sempre qualità positive, quali bellezza, dolcezza, gentilezza:

a) Nel Dialogo delle bellezze delle donne intitolato Celso [112] , discorso I, fa dire da Selvaggia:

E pur la Iblea Soporella è molto ben grassa; non di meno è ancora una bellissima giovane e porta così ben quella sua persona, così intera, così agile, così destra. Oh Dio! egli è pure un piacere a vederla caminare.  [113]

b) Nelle Rime per Selvaggia, e precisamente in “Stanze in lode di Madonna Selvaggia bellissima e nobile gentildonna pratese intitolate Selva d’amore”, 57^ stanza, vv. 4-8, una delle compagne di Selvaggia è “Ibla la dolce”, felice locuzione che risente certo della tradizione di gentilezza legata al termine “Ibla”:        

     “Al fonte,
  Che tra segni è sacrato al più solenne,
  Ne va oggi Selvaggia e seco ha gionte
  Isa la bella, Ibla la dolce, vaghe
  Di far con gli occhi lor ben mille piaghe.”
[114] 

c) Nella “Satira al signor Pandolfo Pucci”, sempre nelle Rime, il poeta rinfaccia ad una donna il fatto che la natura non le diede doti positive (vv. 104-108):

  Come la fece a Lidia, alla Fiammetta,
  A Delia, a Flora, alla gentile Iblea
  E a tant’altre ch’io mi taccio il nome
  Per reverenza, ché di lor mal degne
  Son queste mie poco felici carte.
[115]  

Si noti che nell’elencazione delle donne belle e intelligenti, mentre per le altre è scritto il semplice nome, soltanto il nome “Iblea” è accompagnato da un aggettivo qualificativo, rientrante nella tradizione.

d) Infine nelle Rime “occasionali”, 120, vv. 2-4 il poeta paragona i suoi amorosi affanni, trascorsi lietamente in gioventù, a quelli delle api iblee nel periodo della fioritura; ed è la prima volta che il lavoro e lo zelo delle api iblee vengono assunti per un paragone del genere:

    i miei più gioveni anni
  lieto passai tra gli amorosi affanni,
  come ne’ colli iblei d’april le pecchie.
[116] 

Torquato Tasso (Sorrento 1544 - Roma 1595), il tormentato poeta antesignano del Romanticismo, non fu autore soltanto del celebrato poema La Gerusalemme liberata (poi divenuta conquistata), ma anche della favola pastorale Aminta e di Rime. Fra queste circa duemila composizioni di vario genere, nel sonetto petrarchesco 676 (vv. 5-6) giudica la sua amata

  degna a cui nutra più leggiadri fiori
  Ibla, e Parnaso più odorate fronde.

Qui, anziché per i più frequenti moduli del timo, delle api e del miele, Ibla è chiamata in causa per la bellezza dei suoi fiori, mentre al monte Parnaso sono attribuiti alberi molto profumati. Quest’Ibla perciò potrebbe essere quella del Pervigilium, cioè quella etnea.

Giambattista Guarini (Ferrara 1538 - Venezia 1612), dopo aver molto ammirato l’Aminta del Tasso, scrive il Pastor fido, tragicommedia ambientata proprio in Arcadia. E in essa fa un riferimento a Ibla, quando il pastore Mirtillo, rivolgendosi a Ergasto, dice (atto II, scena 1, vv. 183-187):

  [...] Accogli pur insieme
  quant’hanno in sé di dolce
  o le canne di Cipro o i favi d’Ibla;
  tutto è nulla, rispetto
  a la soavità ch’indi gustai.

Le canne di Cipro e i favi d’Ibla sono rinomati per la loro dolcezza; ma questo è nulla rispetto alla soavità provata dal pastore innamorato d’Amarilli, la fanciulla che doveva essere sacrificata.

Giambattista Marino (Napoli 1569 - ivi 1624) il tanto discusso poeta della meraviglia [117] , nel prolisso poema Adone, che fu ritenuto il più grande capolavoro di quel tempo, ma che oggi è soltanto una testimonianza di quello stucchevole stile detto marinismo o secentismo o barocchismo del quale egli stesso fu caposcuola, presenta ben sei riferimenti a Ibla, avvicinandosi per il numero a Ovidio, Marziale e D’Annunzio; e questo nei primi otto canti:

a) canto VI, ottava 103, vv. 1 e 5:

  Quanto essalan di grato Ibla e Pancaia
  [...]
  tutto qui spargi.

Anzitutto, dunque, c’è una richiesta dei profumi più intensi per rendere più gradevole l’ambiente; e stavolta al monte Ibla è associato il Pangeo, monte della Macedonia al confine con la Tracia, certamente non così celebre come l’Ibla.

b) canto VI, ottava 125, versi 4-5 e 8:

  Ciò che produr ne sanno i colli iblei,
  le piagge ebalie
[118] e l’Attiche pendici    
  [...]
  tutto in quegli orti accumulò Ciprigna.

Venere accumula nel giardino del Piacere, dov’è con l’amato Adone, le cose più belle, e fra queste i prodotti dei colli iblei.

c) canto VII, ottava 145, vv. 5-6:

  Stillan le Grazie il latte, ed è composto
  di mel, qual più soave Ibla mai fiocca.

Quando il neonato Amore succhia per la prima volta le mammelle della madre Venere, il latte è distillato dalle Grazie ed è composto d’un miele uguale al più squisito d’Ibla.

d) canto VII, ottava 154:

  Così per Ibla a la novella estate
  squadra di diligenti api si vede
  che le lacrime dolci e dilicate
  di Narciso e d’Aiace a sugger riede;
  poi ne le bianche celle edificate
  vanno a ripor le rugiadose prede;
  altra a comporre il favo ed altra schiera
  studia dal mele a separar la cera.

Abbiamo voluto citare tutta l’ottava perché in essa c’è la descrizione dell’operosità delle api iblee: è una scena animata e realistica, che si svolge in questa nuova Arcadia. Con la stessa rapidità e diligenza dei servitori del pranzo di Venere e Adone all’inizio dell’estate si vede muoversi una squadra di diligenti api che torna a succhiare il prodotto delle dolci e delicate lacrime di Narciso e d’Aiace; le api poi vanno a riporre il rugiadoso bottino nelle bianche celle dell’alveare; una schiera si dedica a comporre il favo e un’altra a separare la cera dal miele.

e) canto VIII, ottava 5, vv. 1-4:

  Suggon lo stesso fior ne’ prati iblei
  ape benigna e vipera crudele,
  e, secondo gl’instinti o buoni o rei,
  l’una in tosco ’l converte e l’altra in mele.

Nella lunga introduzione moraleggiante di questo canto, il poeta inserisce questa massima, attribuendola ai suoi versi: alcuni possono piacere, altri no; alcuni possono procurare del bene, altri del male: secondo le doti del lettore. Si noti poi il chiasmo: l’ape benigna, che ha “instinto” buono e che al secondo e terzo verso è il primo elemento del confronto, nell’ultimo verso è trasformata in secondo elemento.

f) canto VIII, ottava 140, vv. 7-8:

  Par ch’abbia in queste porpore ricetto
  quanto mele ha Parnaso, Ibla e Imetto.

Baciando Venere, Adone ha l’impressione che sulle labbra di lei sia concentrato tutto il miele di Parnaso, Ibla e Imetto: e qui stranamente agli altri due monti, già noti per il miele, è associato il Parnaso, noto invece per essere sacro ad Apollo e alle Muse. L’immagine delle labbra “mielate” della donna amata ritorna poi anche in un sonetto di Francesco Redi (Arezzo 1626 - Pisa 1698) e in una famosa canzonetta di Giovanni Meli (Palermo 1740 - ivi 1815). Quest’ultimo, che il miele l’aveva nel nome (greco méli, siciliano meli, italiano miele), addirittura invita un’ape a tralasciare i fiori e a cercare il miele sulle labbra della sua donna amata.      

L’Academico Veneto Sconosciuto (Girolamo Priuli?), da buon poeta classicheggiante, nel primo canto del suo poema lirico La Galatea, stampato a Venezia verso il 1625 senza indicazione d’editore e anno (canto intitolato “Invito del Cielo Innamorato à Galatea”), non può non fare un riferimento al mito della sicula Ibla e scrive:

  I peregrini Zeffiri vaganti
  a gara insieme anch’essi
  le rendean tributo  
  del’involate spoglie à gli horti
d’Hibla  

Anton Giulio Brìgnole Sale (Genova 1605 - ivi 1665) è sulle orme del Marino e quindi non può trascurare certe metafore colorite:

  Rinascer tosto entro la guancia altera
  miro di rose iblee gli ostri beati
[119] .

In poesia ci sono anche le rose iblee; le quali nella fattispecie sono le beate porpore della donna altera.

Carlo de’ Dottori (Padova 1618 - ivi 1686), importante letterato del Seicento nella città del Santo ricca di fermenti culturali, presenta cinque riferimenti a Ibla e al suo miele:

a) nella tragedia Aristodemo Policare, innamorato di Merope (che dev’essere sacrificata dal padre Aristodemo per ottenere dagli dei il successo della Messenia nella guerra contro Sparta), fa quest’auspicio:

  Ibla fiorisca a voi, Lesbo vendemmi,
  Gàrgara mieta [...]

Egli augura ogni possibile fortuna ai messeni se salveranno Merope: con lei salva, il suo popolo avrà fiori, uva e messi. Ma Aristodemo ucciderà con le sue stesse mani la figlia.

b) nel poema Galatea l’autore afferma che gli abbracci d’Aci e Galatea sono più dolci del miele d’Ibla e delle dolci rugiade d’Oriente e scrive:

Ibla mele non ha, né d’Oriente
rugiade il ciel dolci così ristringe
pari a quella dolcezza ond’ogni vena
dell’abbracciata coppia è già ripiena.

c) nell’ode “Il monte di sicurezza”, dedicata a Francesco Redi per la monacazione della sorella di costui Paola, considera che il monastero produce un nutrimento speciale simile a quello della manna e del miele:

  Da te la manna elice
  e da te ‘l mele Ibleo, di cui son gravi
  quei tuo’ ferrati antri non già, ma favi.  

d) nell’ode “Al Serenissimo Signor Principe Card. D’Este” ricorda il pastore ibleo:

  Così pastor Ibleo l’api sovente
  chiama col noto suon de rami cavi,

e) Ibla ritorna ancora nell’ode “In morte del conte Ermete Stampa”, in cui egli afferma che la poesia del defunto non morirà insieme con le ossa bruciate:

  Ardete pur’ossa onorate, ardete;
  arda con voi l’April d’Ibla, e di Pesto;
  che questa Lira, e questo
  Plettro con voi non arderà d’Ermete.

Un non meglio identificato prevosto Celestino, erudito e accademico di Paternò, compose un sonetto in onore d’Ibla riportato da Francesco Onorato Colonna nel suo Compilato Historico dell’antichità della famosa Ibla oggi Paternò, scritto intorno al 1707 e rimasto inedito. Dato che esso è tutto riferito a Ibla, riportiamo integralmente il sonetto così come ora è stato pubblicato da un giornale [120] , aggiungendovi la necessaria spiegazione, ma senza soffermarci sullo stile, che evidentemente rispecchia l’ampollosità del Seicento:          

Ove di fiamme ovuste a rei Titani
Etna, stupor dei monti, il dorso preme
Quivi non lungi il capo erger non teme
Ibla che i pregi suoi vanta soprani

Culla ha di fuoco è gigantita in piani
Offre di fertilezza erario, e speme
Né di perfezion le glorie ha sceme,
Se dan viscere aduste abborti strani

Un picciol mar di liquido diamante
Bagiale il piede ed a qual sua Regina
Tributario le dà preda guizzante

Nobile il Ciel la segna, il Sol s’inchina
L’alba imperla e lusinghieramente
Face l’addita al fine opra divina
 

Dove l’Etna, meraviglia dei monti, con fiamme ovuste (?) preme la schiena a giganti come Tifeo ribellatisi a Giove, qui accanto non teme d’innalzare la sua acropoli Ibla, che vanta dei pregi straordinari. Giacendo su un vulcano, ha culla di fuoco, ma si estende in pianura ed offre un tesoro di fertilità e speranze. Né le sue glorie sono imperfette, dato che le sue infuocate viscere danno strani prodotti, come i fanghi salati della Salinella. Il fiume Simeto, piccolo mare di prezioso liquido, le bacia i piedi e, come un tributario alla sua regina, le dà pesca di guizzanti anguille. Il destino la rende nobile, il sole s’inchina a lei, l’alba le fa una corona di perle e infine la provvidenza, lusingandola, la indica come una fiaccola luminosa.

Giambattista Vico (Napoli 1668 - ivi 1744), sebbene noto come grande filosofo, scrisse anche delle Poesie. Nella 5, intitolata “Giunone in danza”, al verso 30 cita

l’indiche canne e i favi d’Ibla e Imetto [121] 

paragonando le ricche mense di certi signori, piene di bellissimi fiori e di eletti cibi, a quelle divine, dove si mangia ambrosia e si beve nettare. Con ciò egli resta nella tradizione del tópos del miele ibleo elevato a dignità di nettare.

Pietro Trapassi, detto Metastasio (Roma 1698 - Vienna 1782) nel primo dei suoi tre Epitalami lasciò un’arietta dedicata a Ibla, ricalcando praticamente l’ottava 154 del canto VII del Marino (vv. 137-140):

  Così colà sovra l’iblea pendice
  errano intorno alle cortecce amate,
  spogliando de’ suoi pregi il suol felice,
  l’industri pecchie alla novella estate.

Giuseppe Parini (Bosisio 1729 - Milano 1799), l’autore del poema Il giorno così ricco di fermenti morali, nell’ode “L’educazione” scritta per la guarigione di Carlo Imbonati si augura che i suoi versi, portati dalle ali sonore del ritmo poetico, vadano diretti al cuore del giovane (vv. 36-42):

  Simili or dunque a dolce
  Mèle di favi Iblei
  Che lento i petti molce,
  Scendete, o versi miei,
  Sopra l’ali sonore
  del giovinetto al cuore.

Questa strofa è importante anche per la pedagogia del Parini, il quale qui assume le vesti d’un novello Chirone: l’educazione dev’essere dolce e instillata nel cuore dei giovani come il miele ibleo, che quasi accarezza. Infatti è in quest’ode che il Parini dà insegnamenti fondamentali come i seguenti famosi (vv. 115-120):

  Altri le altere cune
  Lascia, o garzon, che pregi.
  Le superbe fortune
  Del vile anco son fregi.
  Chi de la gloria è vago
  Sol di virtù sia pago.

E si vuole che a quest’ode risalga il pensiero del Romanticismo e del Manzoni in particolare (che poi scriverà anche lui per Carlo Imbonati, convivente di sua madre), nell’attribuire all’arte anzitutto uno scopo morale e non soltanto estetico.

Vincenzo Monti (Alfonsine 1754 - Milano 1828), il poeta principe della mitologia, non ignora il tópos d’Ibla.

a) Nella poesia Le api panacridi in Alvisopoli, tutta basata sulle api e sul miele, scrive (vv. 73-76):

  D’un guardo allor sorridere
  degna al terren, che questo
  ti manda ibleo munuscolo,
  offeritor modesto.

Rivolgendosi al neonato re di Roma, figlio di Napoleone, il poeta immagina che gli rechino miele di timo e di viole le stesse api che un tempo nutrirono Giove sul monte Ida, detto anche Panacri. Il poeta approfitta per fare l’elogio del miele, che alimentò i discorsi di Platone e i versi di Pìndaro e Virgilio, e invita l’“augusto pargolo” a guardare benevolo al terreno di Alvisopoli (città di Alvise), la piccola zona del Veneto bonificata dal senatore Alvise Mocenigo nei pressi del fiume Lémene [122] (verso Portogruaro, VE), che gli fornisce il miele, dal poeta definito “ibleo munuscolo”, cioè grazioso dono d’Ibla.

b) Interessante è anche un passo della Feroniade (opera scritta per un’altra bonifica: quella delle paludi pontine) in cui fa l’elogio del fico (canto I, vv. 225-232):

  Ma stillante più ch’altri ibleo sapore
  l’onor dispiega di sue larghe chiome
  il calcidico fico, il cui bel frutto, 
  se verace è la fama, alle celesti
  mense sol noto, fra ’ mortali addusse,
  e a Fitalo
[123] donò la vagabonda Cerere,
  allor che tutta iva scorrendo
  la terra in traccia della tolta figlia.

Il brano è interessante non soltanto per il riferimento a Ibla, ma anche per il lessico non paludato, per la leggiadra movenza dei versi e — tutto sommato — l’eleganza.

Ugo Foscolo (Zante 1778 - Turnham Green 1827)  per la composizione del carme Le Grazie, essenza di classicità, ritiene ineludibile il mito d’Ibla e progetta due sequenze in cui le Grazie, trasferendosi dalla Grecia in Italia, hanno come prima destinazione Ibla. Nel terzo e ultimo sommario egli scrive:

PARTE SECONDA: 1. Giano le manda a chiamare [le Grazie]. - 2. Loro venuta con Galatea, e passaggio loro per Ibla: le seguono le api. -  [...] - 9. Le Grazie danno le api alle Muse in Imetto e in Ibla: Teocrito, poesia pastorale. [124] 

Purtroppo i versi relativi a Ibla — come tanti altri di questo poemetto tanto a lungo tormentato — non si sono trovati, ma ci sono quelli del viaggio delle Grazie e delle api, dal cui miele (oltre che dalle Muse) per il Foscolo sono ispirati i più grandi poeti italiani: e su questo torneremo più avanti.

Niccolò Tommaseo (Sebenico di Dalmazia 1802 - Firenze 1874) si ricorda delle api iblee per una massima:

  D’ape iblea turbar non lice
  la quiete a’ fiori in seno.
[125]

 Gabriele D’Annunzio (Pescara 1863 - Gardone Riviera 1938), il poeta immaginifico e sensuale, mentre in apparenza si definisce non ibleo, in sostanza si dimostra legato al mito d’Ibla, presentando ben sei riferimenti; e anche lui, come il Marino, per il numero si avvicina a Ovidio e Marziale:

a) il primo è una similitudine, nella quale il vento molle fa sussurrare la selva come uno sciame d’api al lavoro, che per il poeta-soldato diventa “falange iblea”. Il poeta non poteva non aprire la raccolta Primo vere, che nel titolo stesso ci riporta all’incipiente primavera, con un “Praeludium” che descrive ed esalta questa stagione; ed è in questo contesto primaverile (fiori, erbe, rugiada) che — com’è ovvio — s’inserisce il riferimento ibleo, data l’associazione concettuale e poetica fra Primavera e Ibla (vv. 1-4):

  Cinto di fiori e d’erbe gemmanti di fresca rugiada
  l’aprile novo a la terra mite ride.

  Scossa da ’l vento molle la selva de’ tigli frondosa   
  dolce sussurra come falange iblea;
[126]  

b) nel secondo la dolcezza degl’idilli di Teòcrito è paragonata a quella del miele ibleo.  Il poeta, nella composizione “A l’Etna” (contenuta nell’appendice prima dei Versi d’amore e di gloria), che è tutta un’esaltazione della Sicilia e dei suoi miti, ricorda anche Siracusa e i suoi personaggi maggiori, cioè Archimede e Teòcrito, del quale scrive (vv. 169-173):

  Scorrean gl’idilli
  intorno dolci come il mele ibleo
  ed a ’l poeta facean corona
  le verginette

  siracusane. [127]

c) il terzo, in latino, si trova nella seconda parte della lunghissima “Licenza” aggiunta al racconto La Leda senza cigno [128] . Egli ricorda che durante una messa al campo sul Carso un giovane capitano afferrò e tolse una vespa che stava per pungere il collo al poeta, allora tenente, al quale in quel momento sovvenne il ricordo d’un’altra vespa:

(2, 109) Sorrido al ricordo della vespa che ronzava sul balcone di mia madre e che mi punse il polso, al momento del commiato. Ferita di poeta! Vulnus hyblaeum.

Gli altri riferimenti dannunziani a Ibla si trovano tutti in Cento e cento e cento e cento pagine del libro segreto di Gabriele D’Annunzio tentato di morire. [129] 

d) il quarto è in un epigramma con cui il poeta si diverte ad imitare i componimenti del libro di antiche ballate Early Ballads:

(59, 4) Il più opimo dei tuoi favi iblèi
offerivi al tuo scarno sacrifizio.
T’inseguivi di là da quel che sei
anche nel vizio.
 

e) nel quinto ritorna, pressoché con le stesse parole della “Licenza” della Leda, il ricordo della messa al campo di battaglia, della minaccia di puntura da parte d’una vespa e della precedente ferita da parte d’un’altra vespa ad un poeta come lui, che si definisce non ibleo. Praticamente, se le api cercano tutto ciò che è ibleo, perché andare a pungere proprio lui che ibleo non è? Nel riferimento in latino il poeta aveva qualificato iblea la ferita, mentre ora qualifica sé stesso non ibleo. Scrive allora:

(91, 23) Mi ricordo della Vespa d’Abruzzi, della vespa anellata di Francavilla, che m’infisse il pungolo nel polso destro: ferita di poeta non ibleo. 

f) nel sesto, brano in versi col titolo “Noctivagum melos” [130] , il poeta ricorre all’aroma dell’Ibla per un paragone coi capelli della donna amata:

(122, 1) Non dell’Imetto non dell’Ibla aroma
ondoso e folto, non letale raggio 
d’insania chiuso in alvear selvaggio
è la tua chioma.

Federico De Roberto (Napoli 1861 - Catania 1927), l’amico ed epigono del Verga, nel suo famoso romanzo I viceré (parte III, 7, 4) ci dice che il clima dei colli iblei era balsamico e perciò lì si rifugiava un suo personaggio per sfuggire alla malaria [131] :

Giovannino [...] veramente nella stagione del pericolo se ne andava a Melilli, sui colli Iblei, dove l’aria era balsamica.

Corrado Govoni (Ferrara 1884 - Lido di Roma 1965) nella “Quarta litania” della sua Novena compresa nella raccolta Le fiale, al verso 10 accoglie anche lui il mito d’Ibla:

anima lo racchiudi, favo ibleo.

Infine Salvatore Quasimodo (Mòdica 1901 - Napoli 1968) non poteva non ricordarsi nelle sue composizioni anche dei suoi monti, dei suoi fiori e del suo miele. In “Che lunga notte” di Dalla Sicilia compresa in Il falso e vero verde, così scrive (vv. 5-8):

Il vento, a corde, dagli Iblei, dai coni
delle Madonie, strappa inni e lamenti
su timpani di grotte antiche come
l’agave e l’occhio del brigante.

Egli nella poesia “Micene” si definì “siculo-greco”; e ci teneva a dirsi di Siracusa, perché allora Mòdica era in provincia di Siracusa (tanto che alcuni libri lo danno nato a Siracusa), mentre oggi essa è in quella successivamente costituita di Ragusa. Essendo ibleo di nascita, non dimenticò mai le mitiche risorse della sua terra, tanto che le parole “api” e “miele” ricorrono spesso nella sua produzione:     

Tempo d’api: e il miele
è nella mia gola
[...]
di patria perduta.
(“Sovente una riviera”)
Le api, amata, ci recano l’oro (“Isola di Ulisse”)
Dorme l’estate nel vergine miele (“Del mio odore di uomo”)

Le api secche di miele (“Sulle rive del Lambro”; a Milano, dove viveva il poeta, le api non erano iblee e quindi erano secche di miele)

alla tua spalla nuda
che di miele odora
(“Delfica”)
Qui lontani da tutti, il sole batte
sui tuoi capelli e vi riaccende il miele
(“Scritto forse su una tomba”)
come celle d’alveare [...]
sulle rive joniche (splendeva un’ape
liscia di miele nel suo occhio)
(“Il tuo piede silenzioso”)
e l’ape lucida zufola e saetta (“Tempio di Zeus ad Agrigento”)
[...] soldato, ape soldato (“Arche scaligere”)

Il ricordo così pungente del suo miele, quello di cui si era nutrito abbondantemente sui colli iblei e che ora è remoto, dunque, ha influenzato in una certa misura la produzione di Salvatore Quasimodo.

Ibla nella Letteratura Angloamericana

Il mito d’Ibla è presente anche in vari scrittori angloamericani, che ne parlano sempre con entusiasmo, a volte semplicemente per fare qualche similitudine. Ecco qui alcuni esempi in ordine cronologico.

L’inglese William Shakespeare (1564-1616) fa due riferimenti a Ibla:

a) nella tragedia Re Enrico IV (atto I, scena II) alla domanda di Falstaff “E non è la mia ostessa della taverna una dolcissima ragazza?” fa così rispondere dal principe Enrico: “Come il miele d’Ibla, mio vecchio giovanotto del castello”;

b) nella tragedia Giulio Cesare (atto V, scena I) Cassio dice: “Antonio, la natura dei tuoi colpi è ancora sconosciuta; ma quanto alle tue parole, esse derubano le api dell’Ibla e le lasciano senza miele”.

L’inglese William Collins (1721-1759) fa pure due riferimenti a Ibla:

a) nell’Ode alla semplicità (versi 13-14) scrive “Per tutti i depositi di miele sulla spiaggia odorosa di timo d’Ibla”;

b) nell’Ode alla Paura (epodo) scrive: “chi lasciò un momento a vagare sulle regioni d’Ibla”.

L’inglese Mary Darby Robinson (1758-1800) nelle Stanze dedicate a Lady William Russel elogia la Natura che “dalle ali incantate del giovane maggio lancia la balsamica rugiada d’Ibla”.

Lo statunitense Charles Fenno Hoffman (1806-1884) nella poesia The Mint Julep (“La bevanda alla menta”) scrive che “Venere lanciò sguardi così pieni di magico potere che, come il miele d’Ibla, anche quando furono finiti non n’è mai stato dimenticato il gusto”.

Lo scozzese George MacDonald (1824-1905) nel cap. XXV del romanzo Lilith scrive: “Ogni fiore d’Ibla e Imetto deve aver mandato il suo influsso per aumentare l’essenza di quel vino”.

Lo statunitense Joseph R. Ingersoll il 7.9.1837 tenne un famoso discorso all’università di Bowdoin, nello Stato di Maine (U.S.A.), in cui, a proposito della capacità psicagogica delle parole, citò l’espressione di Shakespeare “esse derubano le api dell’Ibla e le lasciano senza miele”.

Lo scozzese William Sharp (1855-1905) fu tanto innamorato dell’Italia e particolarmente della Sicilia che, in cerca di salute, venne a morire nel castello di Maniace, allora sede della ducea inglese appartenente ai discendenti dell’ammiraglio Orazio Nelson, duca di Bronte. Famosi sono i suoi Sospiri di Roma e Sospiri d’Italia. Avendo conoscenza diretta della Sicilia e dei suoi miti, egli fa più riferimenti a Ibla:

a) nel bozzetto di viaggio The land of Theocritus (“La terra di Teocrito”) incluso nel vol. IV delle Opere scelte, fa un’ampia descrizione della Sicilia, delle sue caratteristiche fisiche, dei suoi costumi, della sua storia e delle sue leggende, identifica Paternò con “l’antica Hybla Minor” e parla più volte dei monti Etna e Ibla;

b) nel poema Persephoneia nomina molte volte Ibla, che distingue da Inessa-Etna. Già nel prologo dipinge la scena con “un fosco tramonto sopra Ibla... un vivido bagliore sull’Etna, quando esce una sottile colonna di fumo scuro a volte accompagnato da una lingua di fiamma rossa”. Melkos, un vecchio sacerdote cieco, in apertura dice: “Sul suo solitario monte dove il tramonto si consuma, Ibla si staglia in una pallida invisibile fiamma... Ibla generosa”; e più avanti: “Una spiaggia malinconica... la Montagna Madre, e di color porpora nel tramonto vidi Ibla, la collina sacra”. Quindi lo stesso Melkos pronuncia delle parole che ci riportano alla veste di fiori d’Ibla nel poemetto latino Pervigilium Veneris: “Il purpureo fiore che Ibla indossava, come una sacerdotessa indossa un abito lungo, prese fuoco”; e in quest’apocalittico scenario il fuoco etneo “cambiò Ibla in una massa fusa e compatta”, tanto che alla fine del monologo Melkos domanda: “La luce cade [sulla spiaggia] dalla collina iblea?”. Successivamente Melkos racconta che “i capelli scuri cadevano a grappoli come la vite selvatica sulla nera rupe che a Inessa-Etna reca l’uva”, aggiungendo: “No, mai ho visto... neppure la bianca teoria di sacre ancelle dirigersi giù per le strade fiancheggiate di fichi della sacra Inessa, né l’antico uomo con cintura d’oro che s’inchinò ad Ibla, né i giovani vestiti di blu che stanno a guardare i mille cani d’Adrano.” E più avanti nomina ancora la “collina iblea”.

Lo statunitense Stephen Vincent Benet (1898-1943) nel brano The drug-shop, or Endymion in Edmonstoun (“La drogheria, o Endimione in Edmonstoun”) del suo premiato poema Young Adventure (“Giovanile avventura”), nota “alto sopra di loro, orgoglio del mio maestro, un barattolo di miele, giallo e ricoperto di ragnatele, proveniente dal monte Ibla”.

Lo scozzese William Barclay (1907-1978) nel suo Commento al Nuovo Testamento, illustrando le raccomandazioni di S. Paolo circa la modestia nel vestire, ricorda l’esagerazione delle antiche romane e ripete un’osservazione d’Ovidio (Ars amatoria, III, 149-152): “i modi di abbigliare i capelli erano tanti quante le api in Ibla”.

E con questo poeta finisce la rassegna dei oltre 150 riferimenti letterari a Ibla, riportati in questo lavoro, nonostante che possa continuare molto a lungo. Tuttavia da essa, per la sua apprezzabile consistenza, si evince che il topònimo d’un’altra località di così modeste dimensioni e di così scarse vicende belliche difficilmente ha avuto una tale risonanza nelle opere letterarie per 2500 anni: tanto che ai nostri giorni non c’è buona enciclopedia o buon dizionario che non presenti i lemmi Ibla e ibleo e che non esalti la fama conseguita da Ibla nei millenni per la fertilità e bellezza del suo paesaggio, i suoi fiori, le sue feste, le sue api, il suo miele. [132] 

 Ibla nell'Onomastica Odierna

Abbiamo già parlato del nome Ibla attualmente dato alla parte inferiore della città di Ragusa, dei monti Iblei e del miele ibleo. Aggiungiamo che l’intera provincia di Ragusa a volte è indicata come provincia o zona iblea, ottenendosi l’equivalenza ibleo=ragusano, e che fra i monti Iblei esiste l’altopiano Ibleo. Così si leggono notizie come “Oggi spettacolo teatrale a Ibla” oppure “Mostra d’arte a Ibla” oppure “Gli iblei preparano la rivincita”, riferendosi in quest’ultimo caso ai giocatori d’una squadra ragusana.

A Ragusa c’è il Giardino Ibleo, a Catania la via Ibla, ad Augusta (SR) la via Megara, il cui nome ricorda l’antica Ibla Mégara o Mégara Iblea, a Melilli (SR) la via Iblea e presso Noto (SR) la stazione ferroviaria di Falconara Iblea. Esistono poi moltissime denominazioni di aziende, prodotti, associazioni, circoli, uffici, iniziative, cooperative, ditte e società varie, che contengono il termine “Ibla” o derivati. Dette denominazioni si trovano non solo nella zona delle antiche Ible, ma anche lontano da essa, come per esempio a Palermo, Salerno, Firenze e Milano.

Occorre avvertire qui che tali denominazioni non sempre esprimono semplicemente un riferimento geografico, ma spesso hanno l’intento di rendere suggestiva l’indicazione con un nome di elevato richiamo storico-culturale.

Le province in cui abbiamo riscontrato tali denominazioni sono non soltanto in Sicilia (qui con particolare frequenza), ma anche nel resto d’Italia e all’estero, ad esempio in Australia ed in America, introdottove da emigranti siciliani.

In Australia esiste una Hybla Tavern, che si trova a Middleton Beach, un sobborgo costiero situato a circa 4 chilometri ad est della città d’Albany (Australia Occidentale). 

In America due città portano il nome d’Ibla: Hybla Valley in Virginia (Stati Uniti) e Hybla nell’Ontario (Canadà). Peraltro in America esistono parecchie città che portano nomi classici e italiani: Athens, Rome, Florence, Syracuse, Verona, ecc.

Hybla Valley ha circa 15.500 abitanti appartenenti ad oltre 6000 famiglie su una superficie di kmq. 7.895 ed è vicinissima alla città di Alexandria da cui dista km. 6. Inoltre dista km. 17 dalla capitale statunitense Washington, km. 165 dalla capitale virginiana Richmond e km. 386 dalla metropoli New York. In essa ci sono: una scuola elementare, altre scuole e asili-nido, una farmacia, un ospedale veterinario, una fervida attività commerciale con consistente importazione di vini dell’Etna. Non ha laghi o fiumi. Le sue coordinate geografiche sono: 38° 74’ latitudine nord e 77° 01’ longitudine ovest.

Dopo questa fiorente e graziosa città Hybla Valley degli Stati Uniti d’America ricordiamo anche l’antica Hybla del Canadà, che si può definire “città fantasma”.

La città di Bancroft, nell’Ontario (contea North Central Hastings), è la capitale mineraria del Canadà, ricca di giacimenti d’apatite. Da questa città, prendendo l’autostrada 62 nord, a circa km. 11 s’incrocia l’Hybla Road (= “strada Ibla”), che conserva questo nome perché attraversa quello che prima era il sito della città denominata Hybla. Qui vi sono ancora la cappella del Vangelo, piccolo edificio di mattoni quasi nascosto da alberi e cespugli, e alla distanza di circa km. 6,5 la chiesa di Sion Unita. C’è anche un piccolo cimitero (Hastings, Monteagle). Queste due chiese, alcuni poderi e il piccolo cimitero sono tutto ciò che rimane della comunità pioneristica di quest’Ibla, dove in passato c’erano anche una pensione, una casa d’imbarco, un magazzino, una casa del ghiaccio, un’officina da fabbro ferraio, delle stalle e una stazione ferroviaria, che per quanto piccola dimostrava l’importanza della località.

L’apatite, fosfato di calcio contenente fluoro, cloro o carbonato, si presenta in cristalli giallo-ambra o incolori, e deriva il suo nome dal greco apaté = “inganno”, perché facilmente si scambia con altri minerali. Precisamente, l’apatite di Bancroft è giallo-verde e quella d’Hybla giallo-verdastra.

Ecco fin dove il faticoso lavoro dei siciliani e la loro nostalgia della lontana ed indimenticabile terra natale hanno portato il mito d’Ibla!

E per giunta un esperimento d’esplosione nucleare sotterranea effettuato nel Nevada (Stati Uniti) il 28 ottobre 1974 ha avuto come nome ufficiale Hybla Fair, mentre Ibla idiotica, quadrivalvis e segmentata sono specie di crostacei del genere Ibla e della famiglia Iblidae.

Infine va ricordato che Hybla è una marca di vino siciliano; che, dopo quelli usati da poeti del Rinascimento come Ariosto e Firenzuola, ancor oggi esistono nomi e cognomi quali Ibla, Iblea, Ibleto, Hyble, Ible sporadicamente presenti in Italia e nel mondo; che fra i relativi personaggi c’è la cantante siciliana Ibla, all’anagrafe Claudia Iacono; e che a New York agisce la fondazione del prestigioso “IBLA Grand Prize”, premio internazionale per la musica classica.

Le denominazioni iblee d’oggi dimostrano la perenne vitalità del mito d’Ibla, che continua ad aleggiare tuttora in buona parte della Sicilia e altrove.

 Riepilogo delle ragioni

Riepilogando, le ragioni della presenza d’Ibla nella letteratura e nell’arte per 2.500 anni sono le seguenti:

- in Sicilia esistevano almeno tre città di nome Ibla: una Maggiore, una Minore e una Piccola; una Gereatide o Geleatide (ma anche Galeatide, Galeotide), una poi diventata Mégara e una Erea; una etnea, una siracusana e una ragusana;

- Ibla e Nasso sono fra le prime colonie greche fondate in Sicilia, rispettivamente dai dori e dai calcidesi;

- l’Ibla siracusana è scomparsa presto e nei suoi pressi è sorta Ibla Mégara o Mégara Iblea, fondata dai megaresi;

- i coloni di Zancle (Messina) insediati a Ibla hanno fondato Tauromenio (Taormina) nel luogo prima chiamato Caprio (letamaio) a causa dell’ammasso di carcasse di navi distrutte dal gorgo di Cariddi che si depositavano colà;

- Ibla è fertile e/o ha preso nome dal re Iblone;

- Ibla è stata l’unica città siciliana a non aderire alla confederazione voluta dal generale Ducezio, che si era messo a capo dei siculi;

- Ibla è stata coinvolta nella guerra degli ateniesi contro i siracusani, riuscendo a non farsi occupare dagli ateniesi;

- Ibla è stata coinvolta nella guerra dei romani contro i cartaginesi, consegnandosi a questi ultimi;

- Ibla era città tributaria dei romani (anche se non tutti gli studiosi, fra cui il Mommsen, concordano);

- Ibla è stata depredata da Verre e dai suoi scherani;

- nel santuario d’Olimpia c’era una molto pregiata statua di Giove donata dagl’iblesi;

- un araldo ibleo fu banditore delle olimpiadi per tre volte;

- a Ibla c’era un santuario dedicato ad una dea locale, molto frequentato da fedeli venuti da tutta la Sicilia;

- a Ibla c’era un oracolo del dio Apollo e gl’iblesi erano indovini;

- gl’iblesi erano i più pii della Sicilia;

- la piana d’Ibla, oggi piana di Catania, era tutta ammantata di fiori e in essa si svolgeva la grande festa di Venere nelle calende d’aprile;

- per i poeti il nome Primavera sapeva d’Ibla;

- la Venere Vincitrice Iblese era l’antica dea Ibla;

- Ibla Maggiore, detta anche Geleatide, è l’attuale Paternò;

- sul monte Ibla cresce il timo e le api formano un miele speciale;

- colli e pendici dell’Ibla sono coperti di fiori e abitati da pastori che compongono canti melodiosi;

- le rose iblee somigliano alle porpore della donna amata;

- il latte materno a volte è come il miele ibleo o fatto di miele ibleo;

- le api iblee sono le più diligenti e industriose;

- favi, arnie e cera d’Ibla sono cose speciali;

- gl’insegnamenti morali devono essere dolci come il miele ibleo, che può essere anche terapeutico;

- i fichi sono fatti di miele ibleo;

- il miele ibleo può competere con quello attico;

- il miele ibleo è il migliore del mondo;

- al mito d’Ibla, attraverso il Pervigilium Veneris, è ispirato il dipinto La primavera di Sandro Botticelli.

 Il miele ibleo

A questo punto dobbiamo fare una digressione sul miele ibleo, della cui “perfezione” parlò anche il greco Strabone affermando che dopo la distruzione d’Ibla il nome d’essa era rimasto grazie all’ottimo miele ibleo. Ma ci sembra interessante anche l’analisi fatta dal già citato Dioscòride Pedanio, anche lui greco, medico e naturalista, che si può definire fondatore dell’erboristeria. Egli, che  — come disse Dante — fu “buono accoglitor del quale”, cioè descrittore delle qualità delle piante, descrisse le proprietà di ben 600 erbe medicinali; e il suo trattato Sulle medicine fu molto diffuso e tenuto in considerazione per tutto il Medioevo. Ecco, dunque, che cosa scrisse Dioscòride del miele d’Ibla: “È eccellentissimo, dolcissimo, pungente, profumatissimo, biondo, non fluido ma viscoso, e vigoroso.”

Per quanto riguarda la latinità, poi, qui non possiamo dimenticare il parere di Plinio il Vecchio, che giudicò “speciale” il miele d’Ibla, e la strana ricetta del medico Sereno Sammònico, che lo consigliò per curare la cataratta degli occhi. Ma va ricordato anche che Silio Italico definì audax l’Ibla perché osava sfidare a singolar tenzone l’Imetto nel campo dei favi di nettare. In tempi relativamente recenti il Forcellini-Perin lo ha definito “sapidissimum”, mentre il Lübker nel suo lessico ragionato dell’antichità classica ricorda che esso era “dai poeti assai lodato” [133] ; tanto che il Bellìa affermò: “Insomma non vi fu poeta, come osservò Brezio nei Commentari sopra Claudio, che non parlò di questo miele.” [134]    

Finora abbiamo visto che Ibla e termini derivati sono legati per lo più alla bontà del miele ibleo, la cui eccellenza era dovuta alla pianta dominante in cui esso si formava: il timo. Scrive del timo un manuale di erboristeria dei nostri giorni: “È un ottimo attivatore delle difese organiche. Stimola infatti nelle ghiandole surrenali la produzione di adrenalina, necessaria per tener sempre l’organismo all’erta contro le aggressioni ai vari apparati; inoltre incentiva la produzione di globuli bianchi nei soggetti colpiti da infezioni, che con il timo si risolvono più in fretta. Risulta pertanto prezioso negli stati di debolezza, convalescenza, esposizione al rischio di contagi o epidemie, affezioni a carattere infettivo.” [135] Il suo olio essenziale esercita benefici sugli apparati digerente, respiratorio, genito-urinario e cardiocircolatorio, nonché nelle malattie della pelle. Il miele di timo è un potente antisettico generale, da utilizzare contro tutte le malattie infettive, sia polmonari che delle vie urinarie o intestinali; raccomandato in caso di tosse, esso è stimolante contro le forme di stanchezza. 

Quando gli scrittori latini parlano del miele ibleo, citando il monte Ibla, si riferiscono evidentemente alla zona meridionale della Sicilia. Però, poiché il timo è diffuso in tutta l’area delle tre Ible, compresa la zona etnea, il miele ibleo che giungeva a Roma — vero nettare o liquore, a volte usato addirittura per imbalsamare personaggi come Alessandro Magno — proveniva anche dall’Ibla etnea, le cui monete avevano un’ape. Anzi qui è da ricordare Varrone (sec. I a. C.) che nel De re rustica (III 16, 14) attribuì la palma della vittoria per la qualità, grazie all’abbondanza del timo, a tutto il miele siciliano (che oggi è una cospicua parte della produzione nazionale), sentenziando: Siculum mel fert palmam, quod ibi thymum bonum frequens est.         

Naturalmente il miele ibleo esiste anche oggi e si produce sui monti iblei, in provincia di Ragusa. I produttori ci tengono a precisare sulle etichette che è uguale a quello di migliaia d’anni fa. Su un barattolo di miele ibleo, dopo la precisazione che è estratto dal nettare dei fiori di timo, c’è scritto:

  Dal fantastico mondo delle api [...],
  Meraviglioso,
  Incomparabile
  Prodotto naturale,
  Magicamente
  Preparato dalle api in
  Modo esattamente
  Identico da millenni,
 
  Addolcisce la nostra
  Vita e apporta
  Innumerevoli vantaggi
  Alla nostra salute.

Allora sarebbe il caso d’assaggiare questo miele, se non altro per constatarne di persona le qualità esaltate per millenni da una pubblicità lunga come mai nessun’altra, fatta da propagandisti così autorevoli e in contesti così prestigiosi. E assaggiandolo è opportuno ricordare ciò che il Foscolo, ideando la sosta delle Grazie a Ibla e il corteo delle api, scrisse dell’antico miele (simbolo della poesia) nell’edizione chiariniana del poemetto (II, 140-144):

    favi onde in Italia
  Con perenne ronzio fanno tesoro
  Divine api alle Grazie: e chi ne assaggia
  Parla caro alla patria;     

e nella variante dell’edizione di Poesie e carmi foscoliani di Le Monnier, Firenze, 1985 (Quadernone, 2. Vesta, 189-193):

   il mele onde alle Grazie
  Con perenne ronzio fanno tesoro
  L’eterne api di Vesta
  e chi ne assaggia
Parla caro ai mortali.

Insomma per il Foscolo la migliore poesia italiana, quella che “parla caro” alla patria e ai mortali, è quella che attinge alla tradizione classica della Grecia e della Sicilia Greca.

Conclusione:
Mito d'ibla e benessere della Sicilia

A conclusione di questo lavoro ci sembra di poter fare questa affermazione: il mito d’Ibla nacque con l’affermarsi della supremazia di Siracusa. Infatti nel 413 a. C. questa città non solo sconfisse in pieno Atene, decapitò il generale Nicia e prese prigionieri i superstiti dei 40.000 combattenti, vendendoli come schiavi o cacciandoli nelle orride latomie, ma di fatto assunse la fisionomia d’un’antagonista d’Atene stessa.

In quella guerra fu coinvolta anche l’Ibla etnea, riuscendo per ben due volte a resistere agli attacchi degli ateniesi. Ciò — e anche il fatto che in ringraziamento di questa vittoria gl’iblesi mandarono in dono al santuario d’Olimpia una loro statua votiva di cui si parlava nei secoli (Pausania nel sec. II d. C. scrive “dicono”, e questo verbo indica l’esistenza d’un mito durato mezzo millennio) — diede luogo alla nascita del mito d’Ibla; e siccome per la lontananza spesso si confondeva o si associava un’Ibla con l’altra (come fecero Strabone e Pausania), si fusero qualità e caratteristiche delle Ible esistenti: forza “mitica”, fertilità e bellezza del paesaggio, fiori, profumo, miele. Sicché le frequenti lodi rivolte a Ibla devono intendersi rivolte ad entrambe le Ible e addirittura alla Sicilia Orientale.           

Cominciò allora a configurarsi un rapporto di questo tipo: Siracusa e il suo retroterra ibleo stavano ad Atene e al suo retroterra attico come la Sicilia stava alla Grecia. Il ruolo di Siracusa come capitale della Sicilia è documentato anche dalla numismatica: diverse monete siracusane, ed in particolare quasi tutte quelle emesse da Agàtocle (360-289 a. C.), che sottomise l’intera Sicilia (con esclusione d’Agrigento), nonché Lipari e alcune città dell’Italia Meridionale, e si proclamò re dei Sicelioti, recano il simbolo della Trinacria, cioè lo stemma della Sicilia ancor oggi in vigore, il quale — stando al catalogo del Torremuzza — era apparso solo sporadicamente anche in monete di Palermo, Agrigento e Iato [136] .

Perciò Siracusa, fra l’altro resa illustre nel mondo antico dal genio d’Archimede e da una folta schiera di poeti e pensatori, fu ritenuta uguale (se non superiore) ad Atene: in campo militare, politico, sociale, economico, artistico, letterario. Livio racconta che dopo la conquista di Siracusa (212 a. C.) Marcello portò a Roma per quello che doveva essere il suo trionfo [137] un dipinto raffigurante la presa della città, gli strumenti bellici, vestiario prezioso, suppellettili, abbondanza d’oro e d’argento finemente lavorati “e molte statue di pregio, con le quali, tra le prime città della Grecia, Siracusa era stata abbellita” (et multa nobilia signa, quibus inter primas Graeciae urbes Syracusae ornatae fuerunt) [138]  

Sulla ricchezza di Siracusa è significativa una leggenda riferita da Strabone: il corinzio Archìa, avendo intenzione di andare a fondare una colonia in Esperia, che allora era uno dei nomi dell’Italia, prima di partire per la spedizione si recò a Delfi per interpellare l’oracolo; essendo richiesto di dichiarare se preferiva la ricchezza o la salute e avendo scelto per la sua colonia la ricchezza, allora egli fu dall’oracolo indirizzato alla volta della Sicilia, e precisamente nella zona sud-orientale dell’isola, dove poi fondò Siracusa, che divenne la  città più ricca e brillante della Grecia, tanto che il Bérard, il quale a Mégara Iblea e Siracusa dedica ampio spazio, afferma che “Siracusa divenne proverbiale per la sua ricchezza” [139] . Al riguardo non è trascurabile la testimonianza di Cicerone, il quale nella citata seconda verrina (IV 117-119), confermando la fama corrente ai tempi suoi, definisce Siracusa “la più bella e più grande di tutte le città greche”. Fra l’altro, Siracusa era l’emporio del miele ibleo.

Il Meli nella sua poesia arcadico-classicistica esaltò la serena vita della campagna siciliana, rivelando — come dice il Contarino — “nostalgia di quella pax syracusana, che aveva pacificato l’isola, rendendola sede di armenti e di liete messi, di inni all’amore e alla natura” ai tempi di Gelone [140] .

Ma già ai tempi di Platone, che soggiornò tre volte in Sicilia, fra l’altro tentando inutilmente di realizzare proprio a Siracusa nel 366 a. C. il suo sogno d’una repubblica guidata dai filosofi, e quindi a meno d’un secolo dopo Gelone, l’intera Sicilia era assurta a notevole prestigio, come dimostrano alcuni detti popolari: “vestire alla siciliana” voleva dire usare certe vesti lussuose fatte per i ricchi;  e “vivere alla siciliana”— come diceva in una sua lettera lo stesso Platone — “sperimentare quella vita che dicono beata, piena di mense e banchetti”. Di mense e banchetti siciliani parla anche Orazio quando scrive (Carmina III 1, 18-19): Siculae dapes / dulcem elaborabunt saporem. (“I banchetti siciliani procureranno un dolce sapore”); e Luciano di Samòsata nel sec. II d. C. insiste sulla specialità di tali banchetti, quando nei Dialoghi dei morti (XIX) fa dire da Polistrato: “Potevo permettermi tutto: perfino banchetti superiori a quelli della Sicilia”. E osserva Salvatore Francesco Romano: “Perciò Siciliano e Siceliota divennero nel mondo antico sinonimo di ricchezza, di lusso, di spirito gaudente e spregiudicato.” [141]

Per il prestigio della Sicilia la poesia siciliana, che aveva le sue Muse (le Sicelides Musae di Virgilio), fu degna di essere cantata sull’Elicona, anche se Platone nel Sofista giudicò queste Muse “meno severe e più molli delle ioniche”; perciò Ibla fu terra sognata, perciò le api iblee erano così industriose e il miele ibleo era squisito come quello attico; perciò nella lussureggiante piana etnea c’era il paradiso terrestre dei pagani e poteva tranquillamente instaurarvisi il culto della dea dell’amore, la Venere Iblese che si faceva risalire alla greca Afrodite. E la sfida “Audax Hybla”-Imetto evocata da Silio Italico per il primato del miele altro non era che una sfida generale Siracusa-Atene.

Ciò fece della Sicilia in tutto e per tutto una continuazione della Grecia e rese i romani orgogliosi di averla conquistata, come li aveva resi orgogliosi l’aver conquistato a suo tempo la Grecia. Giustamente disse Orazio (Epistulae, II 1, 156): “Graecia capta ferum victorem cepit”. E anche la Sicilia conquistata conquistò il fiero e rozzo conquistatore romano. [142]

Peraltro la Sicilia (ed in particolare il lato orientale) è sempre stata terra di miti, come ha anche messo in evidenza il Ciàceri nella sua più volte citata opera Culti e miti nella storia dell’antica Sicilia: basti ricordare per tutti il ratto di Persefone-Proserpina presso Enna, il vulcano Etna come sede della fucina del dio Efesto-Vulcano, i viaggi d’Ulisse e d’Enea, i ciclopi (principalmente Polifemo e Bronte), gli dei Adrano e Simeto, i fratelli Pii, i Pàlici, la vicenda d’Aci e Galatea, quella d’Alfeo e Aretusa e quella d’Eolo e Ciane. Ed è in questo contesto che nacque il mito d’Ibla.  

Il Goethe nel suo citato Viaggio in Italia il 13.IV.1787 sentenziò: hier ist der Schlüssel zu allem. Per lui non si può avere un’idea esatta dell’Italia senza vedere la Sicilia: qui è la chiave di tutto, nell’isola del sole, ombelico delle civiltà mediterranee e terra di grandi contrasti. E il Carducci iniziò la 2^ delle Primavere Elleniche (Dorica), vero e proprio inno alla Sicilia, con versi che a loro volta riecheggiano lo stesso Goethe:

      “Sai tu l'isola bella, a le cui rive          
Manda il Ionio i fragranti ultimi baci,
Nel cui sereno mar Galatea vive        
E su’ monti Aci?”;    

continuando poi a richiamare paesaggi e miti, come quello della Venere fecondatrice, per esaltare il misterioso fascino e la solennità d’una terra quale quella siciliana.  

Bibliografia recente

La bibliografia di questo lavoro è disseminata nelle note. Si segnalano qui solo alcuni recenti studi contenuti negli Atti dell’VIII Congresso internaz. sulla Sicilia antica (PA, 1993).    

NICOLA CUSUMANO, Storia delle religioni, in “Kokalos”, Palermo, XXXIX-XL, 1993-1994, tomo I, 2, 1995. Alle pagg. 627-629 riporta il contenuto del saggio di G. PUGLIESE CARRATELLI Hybla caria e Hybla sicana, in Studi sulla Sicilia Occidentale in onore di Vincenzo Tusa, Padova, 1993, pagg. 147-150, in cui si tratta dell’Ibla di Samo e dell’origine caria del toponimo (che potrebbe essere “nome collegato con la sfera sacrale di una nazione anatolica”), del santuario d’Ibla Geleatide-Gereatide, del culto della dea epònima, del re Iblone. Sull’epiteto d’Ibla rimanda a M. GIANGIULIO, Ibla Geleatide (Gereatide), in Bibliografia topografica della colonizzazione greca in Italia e nelle isole tirreniche, vol. VIII (Gargara-Lentini), Pisa-Roma 1990, pagg. 226-229, che riguarda anche i sacerdoti-indovini Galeoti e la dea Hyblaia. A pag. 637 riporta il contenuto della nota di P. CATTURINI, Dionigi di Siracusa e il mito di Galeote, in RIL 121 (1987) (1988), pagg. 15-23, che mette in relazione i Galeoti con l’ascesa politica di Dionisio di Siracusa: questo avrebbe utilizzato quei sacerdoti “per ottenere una sanzione sacrale del proprio potere”.

GIOVANNI DI STEFANO, Scavi e ricerche a Camarina e nel Ragusano (1988-1992), in “Kokalos”, Palermo, XXXIX-XL, 1993-1994, tomo II, 2, 1996. Alle pagg. 1386-1389 fa particolare riferimento ad una capanna del sec. IX a. C., presentata con diverse mappe, e cita altre pubblicazioni dello stesso e d’altri autori sull’antichità iblea di Ragusa.

Merita di essere citato per le parti attinenti a Ibla anche un lavoro di GABRIELLA MAUCIERE uscito in due volum, oscillanti fra saggistica e narrativa: La moneta delle Salinelle / Identità di Avola (Sicilia illustrata, Catania, 2007) e La moneta avolese delle Salinelle (Paginascritta, Avola, 2010). Fra l’altro, partendo da una moneta d’Hybla maior trovata alle Salinelle di Paternò, l’autrice avvalora l’opinione di studiosi locali circa un presunto insediamento degl’iblesi — tra l’XI e il X sec. a. C. — nel territorio di Avola Antica (quella che fu distrutta dal terremoto del 1693, per essere poi ricostruita in pianura, dove ora si trova l’Avola Nuova): e ciò, basandosi sul testo di FRANCESCO DI MARIA, Avola rediviva / Descrizione istorica della florida Ibla Maggiore, Simone Trento, Caltagirone, 1745 (ristampato dalla Pro Loco di Avola nel 1989) e altri.

Si ricordano poi alcuni articoli e saggi di CARMELO CICCIA su Ibla:

  • Il Pervigilium Veneris e la Primavera del Botticelli, Atti e Memorie dell'Ateneo di Treviso, Anno accademico 1997/98 – n° 15, pagg. 41-49.
  • Fonti della Primavera del Botticelli, “Talento”, Torino, lug.-sett. 1998.
  • Una nuova interpretazione della Primavera del Botticelli, “Il corriere di Roma”, 15.XI.1998.
  • Hybla nella letteratura latina, Atti del Primo Convegno Europeo di Latino a cura di Rosa Nicoletta Tomasone, vol. 7, Miranda, San Severo, 1998, pagg. 81-102.
  • Ibleto di Challant e il mito d’Ibla, “Talento”, Torino, apr.-giu. 1999.
  • Aggiornamenti ad un’opera pregevole di storia patria / Il mito d’Ibla nella letteratura, “La gazzetta dell’Etna”, Paternò, 10.VII.1999.
  • L’allegoria della Primavera botticelliana, “Latmag”, Bolzano, sett. 1999.
  • Anche Ibla nell’arte di “Le Nid”, “La gazzetta rossazzurra di Sicilia”, Paternò, 11.XI.2000.
  • Hybla in America, “La gazzetta dell’Etna”, Paternò, 10.I.2001.
  • Ubicazione ed etimologia dell’antica Ibla, oggi Paternò, “La gazzetta dell’Etna”, Paternò, 10.IV.2001.
  • Il mito di Ibla negli umanisti, “La gazzetta dell’Etna”, Paternò, 24.V.2001
  • Onomastica Iblea, “Ricerche”, Catania, ott.-dic. 2001.
  • Ibla anche in Canada: l’antica città nel mondo, “La gazzetta dell’Etna”, Paternò, 26.II.2002
  • Il mito di Ibla negli anglosassoni, “La gazzetta dell’Etna”, Paternò, 2.VIII.2002
  • Il mito d’Ibla nella letteratura e nell’onomastica, Atti della Dante Alighieri a Treviso a cura di Arnaldo Brunello, vol. IV, Grafiche Zoppelli, Treviso, 2003, pagg. 158-166.
  • Ibla - Varie città nel Vicino Oriente / La biblica Ibleam e toponimi affini, “La gazzetta dell’Etna”, Paternò, 19.XII.2008.
  • La Primavera del Botticelli identificata con la mitica Ibla, “Le Muse”, Reggio di Calabria, apr. 2009.
  • Il leggendario miele ibleo, “Ricerche”, Catania, genn.-giu. 2009, pagg. 35-72.

Elenco delle persone nominate

A

Academico Veneto Sconosciuto
Aci
Adriano
Agàtocle
Aiace
Alcibiade
Alessandro Magno
Alessio, Giovanni
Alfonsi, Luigi
Alighieri, Dante
Anapìa e Anfìnomo
Annaratone, Alessandro
Antonio, Marco
Apuleio
Archìa
Archimede
Aretusa
Argan, Giulio Carlo
Ariosto, Ludovico
Aristodemo
Atedio Meliore
Ateneo di Naucrati
Augusto

B

Badalì, Renato
Baehrens, Aemilius
Baldi, Sergio
Bandello, Matteo
Barelli, Ettore
Barclay, William
Bellia, Placido
Benet, Stephen Vincent
Bérard, Jean
Bernardini Marzolla, Piero
Bìscari, Ignazio Paternò Castello
Bonaparte, Napoleone
Botticelli, Sandro Filipepi
Brezio
Brìgnole Sale, Anton Giulio
Bruto
Buonacciuoli, M. Alfonso

C

Calpurnio Siculo
Caracausi, Girolamo
Carducci, Giosue
Carena, Carlo
Carino
Cassio Longino
Castello, Gabriele Lancillotto Torremuzza
Catone
Cattaneo, Simonetta
Catullo
Cècrope
Cefala, Costantino
Celestino prevosto
Celso Selvaggio
Cesare
Cetrangolo, Ezio
Chirone
Ciàceri, Emanuele
Ciccia, Carmelo
Cicerone
Claudiano
Cleandro
Clóride
Cluver, Filippo
Collins, William
Colonna, Francesco Onorato
Columella
Consolo, Vincenzo
Contarino, G. Rosario
Conti, Barbaro
Cornini, Guido
Corradini, Francisco
Correnti, Santi
Corti, Maria
Cosmo
Croce, Benedetto
Cùnsolo, Angelino
Cusa, Salvatore
Cusumano, Nicola

D

D’Annunzio, Gabriele
Darby Robinson, Mary
De Bernardis, Gaetano
Decembrio, Pier Candido
De’ Dottori, Carlo
De’ Lémene, Francesco
Della Casa, Adriana
Della Corte, Francesco
De Marco, Vittorio
De Roberto, Federico
D’Este, Rinaldo
Di Maria, Francesco
Di Matteo, Salvo
Diodoro Siculo
Dioscòride Pedanio
Di Stefano, Giovanni
Ducezio 

E

Ebalo
Eblato
Èforo
Eliano
Endimione
Enea
Enrico IV d’Inghileterra
Epifani, Vincenzo
Erodiano
Eròdoto
Eschilo
Esichio

F

Fàllica, Vincenzo
Fenno Hoffman, Charles
Falstaff, John
Ficino, Marsilio
Filisto
Fintìa
Fiore, Lanfranco
Firenzuola, Agnolo
Flora, Francesco
Floro
Forcellini, Egidio
Foscolo, Ugo
Freeman-Lupus
Furlanetto, Iosephus

G

Gagliardi, Donato
Galatea
Garbarino, Giovanna
Gelone
Gerone
Giangiulio, Maurizio
Giardina, Giancarlo
Goethe, Johann Wolfgang
Gombrich, Ernst
Govoni, Corrado
Guarini, Giambattista

H

Hepding, Hugo
Holm, Adolf
Hybla

I - J

Jacoby, Felix
Ibla
Iblesio
Ibleto/Iblet/Yblet
Iblea Soporella
Iblone Iceta
Imbonati, Carlo
Ingersoll, Joseph Richard
Ippòcrate
Iulia Florentina

L

Laide
La Magna, Giovanni
Lasserre, François
Libertini, Guido
Lilith
Licurgo
Lipsio
Livio
Lübker, Federico
Lucano
Luciano
Lucrezio

M

MacDonald, George
Maddoli, Gianfranco
Mandel, Gabriele
Manzoni, Alessandro
Marcello
Marchesi, Concetto
Marino, Giambattista
Mariotti, Italo
Marziale
Marziano Capella
Mauciere, Gabriella
McConnell, Brian E.
Medici, Giuliano dei
Medici, Lorenzo dei
Medici, Pierfrancesco dei
Mela, Pomponio
Meli, Giovanni
Merope
Messina, Barbaro
Metastasio, Pietro Trapassi
Mezio Celere
Mocenigo, Alvise
Mommsen, Theodorus
Monaco, Giusto 
Montanari, Franco
Monti, Vincenzo
Murero, Carlo Alberto
Musmeci, Rosario
Musumarra, Carmelo

N

Nelson, Orazio
Negri Arnoldi, Francesco
Nerva
Nicia
Nicolosi, Giovan Battista
Norcio, Giuseppe

O

Occioni, Onorato
Orazio
Orsi, Paolo
Ovidio

P

Pace, Biagio
Pagano, Giangirolamo
Paolo, san
Pareti, Luigi
Paride
Parini, Giuseppe
Paruta, Filippo
Paternò Castello, Ignazio Biscari
Pausania
Pecoraro, Marco
Pellegrini, Giovan Battista
Perin, Giuseppe
Petrarca, Francesco
Petronio
Pìndaro
Planude, Massimo
Platone
Plinio il Vecchio
Plutarco
Policare
Polifemo
Poliziano, Agnolo Ambrogini
Pompeo
Properzio
Prampolini, Jacopo
Priuli, Girolamo
Pucci, Pandolfo
Pugliese Carratelli, Giovanni

Q

Quasimodo, Salvatore

R

Rapisarda, Barbaro
Rapisarda, Carmine
Redi, Francesco
Rocci, Lorenzo
Romano, Salvatore Francesco
Rossi, Vincenzo
Ruggero di Sicilia
Russel, William

S

Saglimbeni, Sebastiano
Saladino, Vincenzo
Salmasio, Claudio
Sannazaro, Jacopo
Santoro, Mario
Sartori, Franco
Savasta, Gaetano
Schilling, Robert
Schubring, Julius
Selvaggia
Seneca
Sereno Sammònico
Sergio, Gneo
Servio Onorato
Shakespeare, William
Sharp, William
Siagrio
Silio Italico
Sìmmaco, Aurelio
Sinatra, Francesco
Socrate
Sòfocle
Soporella Iblea
Sorci, Andrea
Stampa, Ermete
Stazio
Stefano Bizantino
Strabone

T

Taccone, Angelo
Tasso, Torquato
Teocle
Teòcrito
Tiberiano
Tifeo
Timoleonte
Tommaseo, Niccolò
Torremuzza, Gabriele Lancillotto Castello
Traglia, Antonio
Tucìdide
Tusa, Vincenzo

U

Ulisse

V

Varrone
Vecchi, Giuseppe
Verga, Giovanni
Verre
Vico, Giambattista
Villa, Claudia
Virgilio
Virgillito, Giuseppe

Z

Ziegler, Konrad
Zuffi, Stefano   

Appendice

PERVIGILIUM VENERIS

(testo curato da Robert Schilling)

 Cras amet qui numquam amavit quique amavit cras amet!
 Ver novum, ver iam canorum; vere natus orbis est,
Vere concordant amores, vere nubunt alites,
Et nemus comam resolvit de maritis imbribus.
Cras amorum Copulatrix inter umbras arborum                               5
Implicat casas virentis de flagello myrteo,
Cras Dione iura dicit fulta sublimi throno.
 
Cras amet qui numquam amavit quique amavit cras amet!
 
Tunc cruore de superno spumeo pontus globo
Caerulas inter catervas inter et bipedes equos                                 10
Fecit undantem Dionen de marinis imbribus.
 
Cras amet qui numquam amavit quique amavit cras amet!
 
Ipsa gemmis purpurantem pingit annum floridis,
Ipsa surgentes papillas de Favoni spiritu
Urget in nodos tumentes; ipsa roris lucidi,                                       15
Noctis aura quem relinquit, spargit umentis aquas.
Et micant lacrimae trementes de caduco pondere:
Gutta praeceps orbe parvo sustinet casus suos.
 
En pudorem florulentae prodiderunt purpurae:
Umor ille, quem serenis astra rorant noctibus,                                20
Mane virgineas papillas solvit umenti peplo.
Ipsa iussit mane ut udae virgines nubant rosae:
Facta Cypridis de cruore deque Amoris osculis
Deque gemmis deque flammis deque solis purpuris,
Cras roborem, qui latebat veste tectus ignea,                                  25
Unico marita voto non pudebit solvere.   
 
Cras amet qui numquam amavit quique amavit cras amet!
 
Ipsa Nymphas diva luco iussit ire myrteo:
It Puer comes puellis; nec tamen credi potest
Esse Amorem feriatum, si sagittas vexerit.                                      30
Ite, Nymphae, posuit arma, feriatus est Amor!
Iussus est inermis ire, nudus ire iussus est,
Neu quid arcu neu sagitta neu quid igne laederet.
Sed tamen, Nymphae, cavete, quod Cupido pulcher est:
Totus est in armis idem quando nudus est Amor.                             35        
 
Cras amet qui numquam amavit quique amavit cras amet
 
“Conpari Venus pudore mittit ad te virgines:
Una res est quam rogamus: cede, Virgo Delia,
Ut nemus sit incruentum de ferinis stragibus.
Ipsa vellet te rogare, si pudicam flecteret;                                       40
Ipsa vellet ut venires, si deceret virginem.
Iam tribus choros videres feriatis noctibus
Congreges inter catervas ire per saltus tuos
Floreas inter coronas, mirteas inter casas.
Nec Ceres nec Bacchus absunt nec poetarum deus.                         45
Detinenda tota nox est, pervigilanda canticis:
Regnet in silvis Dione! Tu recede, Delia!”
 
Cras amet qui numquam amavit quique amavit cras amet!
 
Iussit Hyblaeis tribunal stare diva floribus:
Praeses ipsa iura dicet, adsidebunt Gratiae.                                    50
Hybla
[143] , totos funde flores, quidquid annus adtulit!
Hybla, florum sume vestem, quantus Aetnae campus est!
Ruris hic erunt puellae, vel puellae montium
Quaequae silvas, quaequae lucos, quaequae fontes incolunt:
Iussit omnes adsidere Pueri Mater alitis,                                          55
Iussit, et nudo, puellas nil Amori credere.
 
Cras amet qui numquam amavit quique amavit cras amet!
............................................................................
Et recentibus virentes ducat umbras floribus!
[144]
............................................................................
Cras erit quo primus Aether copulavit nuptias.
Ut Pater totum crearet vernis annum nubibus,                                60
In sinum maritus imber fluxit almae coniugis,
Unde foetus mixtus omnis aleret magno corpore.
Ipsa venas atque mentem permeanti spiritu
Intus occultis gubernat procreatrix viribus.
Perque caelum perque terras perque pontum subditum,                  65
Pervium sui tenorem seminali tramite
Inbuit iussitque mundum nosse nascendi vias.
 
Cras amet qui numquam amavit quique amavit cras amet!
 
Ipsa Troianos nepotes in Latinos transtulit;
Ipsa Laurentem puellam coniugem nato dedit;                                70
Moxque Marti de sacello dat pudicam virginem;
Romuleas ipsa fecit cum Sabinis nuptias,
Unde Ramnes et Quirites proque prole posterum
Romuli, patrem crearet et nepotem Caesarem.
[145]  
 
Cras amet qui numquam amavit quique amavit cras amet!             75
 
Rura fecundat voluptas, rura Venerem sentiunt;
Ipse Amor, puer Dionae, rure natus dicitur.
Hunc, ager cum parturiret, ipsa suscepit sinu;
Ipsa florum delicatis educavit osculis. 
Cras amet qui numquam amavit quique amavit cras amet!             80
 
Ecce iam subter genestas explicant tauri latus,
Quisque tutus quo tenetur coniugali foedere.
Subter umbras cum maritis ecce balantum greges.
Et canoras non tacere diva iussit alites.
Iam loquaces ore rauco stagna cygni perstrepunt.                           85
Adsonat Terei puella subter umbram populi,
Ut putes motus amoris ore dici musico
Et neges queri sororem de marito barbaro.
Illa cantat, nos tacemus. Quando ver venit meum?
Quando faciam uti chelidon, ut tacere desinam?                             90
Perdidi Musam tacendo nec me Phoebus respicit.
Sic Amyclas, cum tacerent, perdidit silentium.
 
Cras amet qui numquam amavit quique amavit cras amet!

 

LA LUNGA VEGLIA DELLA FESTA DI VENERE

(traduzione di Carmelo Ciccia)

Domani ami chi mai ha amato e chi ha amato domani ami!    

Nuova primavera, sì, primavera di canti; in primavera nacque il mondo,
in primavera s’accordano gli amori, in primavera si sposano gli uccelli
e il bosco scioglie la chioma per le maritali piogge.
Domani l’Accoppiatrice degli amori fra le ombre degli alberi                  5
avvolge le verdeggianti capanne d’un intreccio di mirto,
Domani Dione [146] detta leggi stando su un eccelso trono.

Domani ami chi mai ha amato e chi ha amato domani ami!
Allora il mare da un batuffolo di schiuma di sangue celeste [147] 
fra cerule moltitudini e bìpedi ippocampi                                              10
fece nascere com’un’onda Dione dall’onde marine.

Domani ami chi mai ha amato e chi ha amato domani ami!

Ella ricama con gemme di fiori la rossiccia stagione,
ella spinge i sorgenti boccioli in nodi        
gonfiati dal vento Favonio e della lucida rugiada,                                  15
che la brezza notturna depone, sparge le umide gocce.
Brillano le tremule lacrime per il peso cadente
e la pendula goccia trattiene con la sferetta le cadute.
Ecco, le porpore fiorenti hanno tradito il pudore:
la rugiada, che gli astri distillano nelle notti serene,                               20
al mattino scioglie i virginei seni dall’umido manto.
Ella ha ordinato che al mattino si sposino roride le vergini rose:
fatte del sangue di Cipride [148] , di baci d’Amore,
di gemme, di fiamme e di porpore del sole,
domani quel pudore che stava nascosto sotto la veste di fuoco            25     
non si vergogneranno di sciogliere, spose per unico voto.         
Domani ami chi mai ha amato e chi ha amato domani ami!

La dea ha prescritto alle ninfe di andare nel bosco di mirti:
il Fanciullo accompagna le fanciulle; né tuttavia si potrebbe credere
che Amore sia a riposo, se portasse delle frecce.                                 30
Andate pure, ninfe; ha deposto le armi, è a riposo Amore!
Gli è stato ordinato di andare inerme e nudo,
affinché non colpisca alcunché con arco, freccia o fuoco.
Ma tuttavia, ninfe, state attente, perché Cupido è bello:
Amore è tutt’in armi lo stesso, quand’è nudo.                                       35

Domani ami chi mai ha amato e chi ha amato domani ami!

“Venere manda a te noi Vergini di pari pudore:
una sola è la cosa che chiediamo: fa, o Vergine di Delo [149] ,
che il bosco non sia macchiato da stragi di fiere.
Ella stessa vorrebbe pregarti, se potesse piegare una pudica.              40
Ella vorrebbe che tu venissi, se non fosse disdicevole a una vergine.
Già in tre notti di festa vedresti dei cori
andare per i tuoi boschi fra folle raccolte,
fra corone di fiori, fra capanne di mirto.
Non mancano né Cerere né Bacco né il dio dei poeti [150] .                45
La notte è tutta da sfruttare e da vegliare a lungo con cantici:
regni sulle selve Dione! E tu, vattene, Vergine di Delo!” [151] 

Domani ami chi mai ha amato e chi ha amato domani ami!

La dea ha deciso che il suo trono sia eretto fra i fiori iblei:
presiederà lei stessa e detterà leggi, con l’assistenza delle Grazie.       50
Ibla, spargi tutti i fiori, tutti quelli che l’anno ha prodotto!
Ibla, indossa una veste di fiori grande quanto la Piana etnea!   
Qui ci saranno le ninfe dei campi, quelle dei monti,
e quelle che abitano selve, boschi sacri e fonti:
la Madre del Fanciullo alato ha ordinato a tutti di assistere,                  55
e ha ordinato alle ninfe di non credere ad Amore, anche se nudo.  
Domani ami chi mai ha amato e chi ha amato domani ami!
............................................................................
E rechi ombre verdeggianti ai fiori novelli!
............................................................................
Domani sarà il giorno [152] in cui l’Etere per primo consumò le nozze.
Il Padre, per creare tutta l’annata con le nubi primaverili,                      60       
fluì come pioggia maritale nel seno dell’alma moglie [153] ,
onde, congiunto al suo gran corpo, producesse ogni frutto.
Ella, con un soffio che permea corpo e anima,
con forze occulte agisce all’interno per procreare.
Attraverso il cielo, le terre e il mare sottomesso,                                   65
per il tramite seminale, di sé il percorso praticabile
impregnò, e ordinò che il mondo conosca le vie del nascere.

Domani ami chi mai ha amato e chi ha amato domani ami!

Ella trasformò in latini i discendenti troiani:
ella diede a suo figlio per moglie una fanciulla laurentina [154]             70
e dopo a Marte una vergine pudica presa dal santuario [155] .
Ella fece le nozze dei romani con le sabine,
onde potesse creare Ramni e Quiriti [156] e, a pro della prole degli eredi
di Romolo, Cesare padre e nipote.

Domani ami chi mai ha amato e chi ha amato domani ami!                   75

La voluttà feconda le campagne e queste sentono Venere;
Amore stesso, figlio di Dione, si dice nato in campagna.
Ella lo ricevette in seno, quando il campo germogliava;
ella lo allevò coi delicati baci dei fiori.

Domani ami chi mai ha amato e chi ha amato domani ami!                   80

Ecco che già sotto le ginestre i tori spiegano i fianchi,
ed è tranquillo chi è avvinto da legame coniugale.
Ed ecco le greggi di pecore all’ombra coi mariti.
E la dea ordinò che gli uccelli canori non tacessero.
Già i loquaci cigni con rauca voce assordano gli stagni.                        85
S’accorda all’ombra d’un pioppo la ragazza di Tereo [157] ,
sicché tu pensi che quei sensi d’amore vengano da gola canora
e neghi ch’essa compiange la sorella [158] per il barbaro marito [159] .
Quella canta, noi taciamo. Quando viene la mia primavera? 
Quando farò come la rondine per smettere di tacere?                           90
Tacendo ho perso la Musa e Febo non mi guarda.
Così il silenzio rovinò Amicle [160] , dal momento che tacque.

Domani ami chi mai ha amato e chi ha amato domani ami!


Note


[1] Paolo Orsi, Notizie degli scavi, Roma, 1899, pagg. 402-418.
[2] La quarta Ibla sarebbe praticamente Selinunte, verso capo Lilibeo, fondata da megaresi iblei, ma non ne portò mai il nome.
[3] La parte inferiore di Ragusa, tuttora chiamata Ibla, fu comune autonomo col nome di Ragusa Ibla dal 1922 al 1927.  
[4] Placido Bellia, Storia di Paternò, finita di scrivere nel 1808; ora in A. Cùnsolo- B. Rapisarda, Note storiche su Paternò, vol. II, Tipolito Ibla, Paternò, 1976, pagg. 14, 15, 25.
[5] Per questo vedi Stefano, voce Galeôtai, 196-1 e 2. Esichio poi dice: “iblese = indovino” (vedi più avanti).
[6] Emanuele Ciaceri, Culti e miti nella storia dell’antica Sicilia, Battiato, Catania, 1911, pagg. 15-23; a queste pagine s’intende far riferimento ogni volta che in questo lavoro si parlerà del Ciàceri. Vedi anche Guido Libertini, voce “Ibla Galeotide” dell’Enciclopedia Italiana Treccani, Roma, 1951, vol. XIV, pag. 203.  
[7] Lexicon Totius Latinitatis ab Aegidio Forcellini Seminarii Patavini alumno lucubratum, deinde a Iosepho Furlanetto eiusdem Seminarii alumno emendatum et auctum, nunc vero curantibus Francisco Corradini et Iosepho Perin Seminarii Patavini item alumni emendatius et auctius melioremque in formam redactum, Patavii [1769-1841], quarta editio, 1864-1926: tom. V, Onomasticon, auctore Iosepho Perin cum appendice eiusdem [1913], MCMLXV, Arnaldus Forni Excudebat Bononiae, Gregoriana Edente Patavii, pagg. 765-766.  
[8] Voce “Iblei Monti”, vol. e pag. citati. Gl’Iblei confinano con gli Erei.
[9] Enciclopedia Universale Curcio, Roma, 1962, vol. IV, pag. 2701.
[10] Dizionario di Toponomastica / I nomi geografici italiani, Utet, Torino, 1990, pag. 327.  
[11] Gabriel Castellus Turris Mutiae, Siciliae et objacentium insularum veterum inscriptionum nova collectio prolegomenis et notis illustrata, Panormi, Bentivenga, MDCCLXIX, pag. XXV; Panormi, Typis Regiis, MDCCLXXXIV, pag. XXIV e 10.
[12] Salvatore Cusa, I diplomi greci ed arabi di Sicilia, vol. I, parte 2^, Palermo, Lao, 1882, diploma V, pagg. 515-516. Dal bizantino Eblátos, a sua volta derivato dal termine Ybléms riportato da Esichio col significato di “indovino”, entrambi etnici di Ybla, sembra poi derivare per quasi totale identità grafo-fonica il nome personale Ibleto (latino Ebaletus, francese Yblet o Iblet). Ebbero questo nome due membri della nobile casata valdostana di Challant: Ibleto o Ebalo il Grande, (di cui si ricorda il solenne giuramento di fedeltà ai Savoia del 1294) e un altro Ibleto (detto anche Ebalo) certamente più illustre, ministro di Savoia, governatore e luogotenente del Piemonte dal 1379 al 1404, testimone del giuramento del principe d’Acaia al conte di Savoia e costruttore della massiccia rocca di Verrès, il quale nel 1414 fissò la sua ricca ed elegante dimora nel castello d’Issogne, da lui restaurato. Oggi Ibleto è un cognome della Liguria (Genova e Sesta Godano).
[13] Verso l’anno 491 a. C., dopo numerose guerre ed un fortunato regno di sette anni.  
[14] Nell’anno 415 a. C.
[15] Franco Sartori mi ha segnalato che una citazione aggiornata è: frammento 57 b, in Felix Jacoby, Die Fragmente der Griechischen Historiker, III B, Leiden, E. J. Brill, 1950, pagg. 565-566.
[16]  Náxos, oggi comune di Giardini Naxos, rinomata baia e località balneare ai piedi di Taormina, conserva tuttora un’interessante zona archeologica. Visibili sono presso Siracusa anche le rovine di Mégara (così accentato nella maggior parte dei vocabolari; ma il Rocci 3^ e 35^ ediz. a pag. 1871 scrive Megára, peraltro pronuncia popolare molto diffusa, e aggiunge che M. Yblaía era detta anche Gheleátis).
[17] Verso il 445 a. C.
[18]  Il tiranno siciliano Iceta, poi, fu ucciso nel 336 a. C. da Timoleonte, a cui contendeva il trono di Siracusa e che sconfisse anche i Cartaginesi venuti in suo aiuto.
[19]  La prima parte della Geografia di Strabone tradotta da M. Alfonso Buonacciuoli, Senese, Venezia, 1562, pagg. 109 verso-110 recto.
[20]  In onore d’Etna Eschilo scrisse il dramma Etnee. Gerone, fratello e successore di Gelone, morì nel 467 a. C. Dopo la sua morte i catanesi espulsi rientrarono a Catania e ridiedero a questa città l’antico nome.
[21] Gerone (dal greco ieròs) significa proprio santo.
[22] Sembrerebbe una notizia doppiamente errata: verso Mégara Iblea non esisteva alcun fiume Selinunte, che invece era verso capo Lilibeo, e inoltre i Cartaginesi molto raramente si sono spinti nella zona di Mégara. In realtà questa notizia si collega a quanto narrato da Tucìdide (vedi sopra) circa la fondazione di Selinunte, nella Sicilia Occidentale, da parte di megaresi iblei colà insediatisi.
[23]  Un prezioso manoscritto (sec. XIV) dell’opera De materia medica di Dioscòride, con miniature di piante e fiori a colori vivaci e loro nomi in greco, latino e arabo, si trova nella biblioteca del seminario di Padova.   
[24] Plutarco, Vite parallele, vol. II, a cura di Domenico Magnino, Utet, Torino, 1992. Laide parla poi nei Dialoghi delle meretrici di Luciano.
[25]  Pausania, Guida della Grecia a cura di Gianfranco Maddoli e Vincenzo Saladino, Fondazione Valla, Mondadori, Milano, 1995, pagg. 146-147. Si suppone che il dono della statua a Olimpia sia stato fatto dagl’iblesi in segno di ringraziamento per la fallita occupazione d’Ibla da parte degli ateniesi nel 415 a. C. Significativo potrebbe anche essere il fatto che la statua degl’iblesi sia collocata accanto al carro di Gelone, quasi ad indicare un collegamento fra Ibla e Gelone.
[26] Erodiano e Stefano Bizantino parlano più volte d’Ibla, magari ripetendo concetti e parole: per questo motivo qui si è sintetizzato l’essenziale. 
[27] L’Anthologiae Grecae Appendix è l’insieme di 388 epigrammi (dei 2400 compresi nell’Anthologia Planudea, compilata nel 1301 dal monaco bizantino Massimo Planude) i quali non si trovano nell’Anthologia Palatina (raccolta di 3700 epigrammi greci di vario argomento e stile, scritti da più di 300 poeti dal sec. IV d. C. alla tarda età bizantina, compilata nel sec. X da Costantino Cefala e scoperta nel 1607 dal Salmasio nella biblioteca Palatina di Heidelberg (nella regione tedesca del Baden) e costituiscono un’appendice ad essa. 
[28] Cicerone, La seconda azione contro Verre, vol. I, Mondadori, Milano, 1968.
[29] Ibidem.
[30] Di Salvo-Portogalli, Autori latini, Zanichelli, Bologna, 1973.
[31] Virgilio, Bucoliche, Newton, Roma, 1994. 
[32] Ovidio, L’arte d’amare, Rizzoli, Milano, 1958, pagg. 73-74, vv. 774-778. 
[33] La più alta e orientale vetta della penisola calcidica.
[34] Ovidio, Opere, vol. I, Utet, Torino, 1982.
[35] Ovidio, Opere, vol. II, Utet, Torino, 1982.  
[36] Idem.
[37] Idem.
[38] Idem.
[39] Tmolo, catena della Lidia; Sicione, nella parte settentrionale del Peloponneso.
[40] Columella, De re rustica, Antonelli, Venezia, 1846.
[41] Seneca, Tragedie, Utet, Torino, 1987.
[42] Lucano, Bellum civile, Utet, Torino, 1988.
[43] Cìmbalo o cèmbalo, strumento simile a tamburello metallico, adoperato nelle cerimonie in onore della dea frigia Cibele e anche per richiamare le api al lavoro. Vedi Virgilio, Georgiche, IV, 64 e segg.
[44] Secondo il mito, la rocca d’Atene fu fondata da Cècrope, primo re dell’Attica, nato dal suolo di questa terra.
[45] Dei fratelli Anapìa e Anfìnomo parla anche Strabone (VI 2-3); ma già l’oratore ateniese Licurgo (sec. IV a. C.) nell’orazione Contro Leocrate aveva sottolineato che si trattava d’una leggenda antichissima. Questa leggenda è ora effigiata nel basamento di uno dei quattro lampioni bronzei di piazza Università a Catania.
[46] Silio Italico, Punica, Maisner, Milano, 1878.
[47] Stazio, Opere, Utet, Torino, 1980.
[48] Idem. Emàzia era l’antico nome della Macedonia, e l’eroe dell’Emazia è Alessandro Magno.
[49] Idem.
[50] Marziale, Epigrammata, Utet, Torino, 1980.
[51] Idem.
[52] Capitale degli Allòbrogi (oggi Vienne), nella Gallia Narbonese.   
[53] Carlo Carena, Poesia latina dell’età imperiale, Guanda, Parma, 1957.   
[54] Q. Aureli Symmachi, Epistularum ad diversos libri X, Iohannis Bayeri, Francofurti, 1642, pag. 65.       
[55] L’Anthologia Latina, raccolta di scritti minori, si formò in Africa agl’inizi del sec.VI d. C. e comprende poemetti, poesie brevi ed epigrammi spesso di grande valore letterario, di autori contemporanei e anteriori. Essa influì notevolmente sulla poesia latina del Medioevo.
[56] Rosario Musmeci, Pervigilium Veneris, Galatea, Acireale, 1970.        
[57] Italo Mariotti, Storia e testi della letteratura latina, vol. V, Zanichelli, Bologna, 1980, pag. 101.
[58] Luigi Alfonsi, Letteratura latina, Sansoni, Firenze, 1957, pagg. 377-378.
[59] Francesco Sinatra, Il territorio del Pervigilium Veneris, “La gazzetta dell’Etna”, Paternò, 24.II.1985; Male oscuro ed angoscia del Pervigilium Veneris, ibidem, 31.XII.1988; La Ibla descritta dallo storico Tucidide, ibidem, 31.X.1992. 
[60] Op. cit., pag. 42.
[61] Orazio, Carmina I 2,33. Altri poeti latini che citarono la Venere Ericina sono: Catullo (Carmina XLIV), Properzio (Elegiae III 13), Ovidio (Amores II 10, Metamorphoseon V, Heroides XV), Seneca (Fedra). A Roma il tempio della Venere Ericina era sulla via Salaria, vicino all’attuale Porta Pinciana.      
[62] Barbaro Conti, Il culto ecumenico di Santa Barbara, Tipolito Ibla, Paternò, 1995, pag. 255.  
[63] Gabriel Castellus, op. cit., ediz. 1784, pag. 10, dove c’è anche il disegno dell’ara; e inoltre Corpus Inscriptionum Latinarum editum a Theodoro Mommsen, apud Reimerum, Berolini, MDCCCLXXIII, vol. X, pars posterior, n. 7013, pag. 720. Nel Corpus l’epigrafe è riportata alla voce “Hybla Maior (Paternò)”. Qualche pagina dopo (729) è riportata un’altra epigrafe attinente a Hybla (n. 7112), rinvenuta a Catania nel 1730 e ora conservata nel museo parigino del Louvre: si tratta d’un’epigrafe funeraria a ricordo della piccola Iulia Florentina, morta a Hybla, appena battezzata, verso il sec. II-III e comunque — come dice il Mommsen — prima della morte di Costantino il Grande: quest’epigrafe è, oltre che documento della diffusione del cristianesimo a Hybla, uno degli ultimi documenti — insieme al Pervigilium — dell’esistenza di questa città, anche se si suppone che essa abbia continuato ad esistere fino a quando assunse il nome di Paternò; il Torremuzza, però, in quest’epigrafe legge “Nilae” invece di “Iuliae” (Siciliae et objacentium insularum etc., ediz. 1769, pag. 253).  
[64] Salvo Di Matteo, Paternò, nove secoli di storia e di arte, Centro studi “Azione politica”, Palermo, 1976, pag. 12. La primitiva chiesa matrice di Paternò, in origine rivolta verso la Piana, potrebbe essere sorta sulla collina accanto o sopra il santuario della Venere Iblese per naturale e necessario adattamento e segno di vittoria del cristianesimo sul paganesimo.     
[65] P. Bellia, Storia di Paternò già cit., pagg. 107 e 116. Il museo del cultore di storia patria Ignazio Paternò Castello, principe di Bìscari, fu visitato anche dal Goethe nella sua sosta di tre giorni a Catania (Viaggio in Italia, 3.V.1787). Fra gli altri, anche il Lexicon del Forcellini / Onomasticon del Perin, II lessico classico del Lübker e i vocabolari greci Rocci e La Magna-Annaratone identificano Ybla e Méizon (Hybla Maior) con Paternò; invece il Montanari indica una sola “Ibla, città della Sicilia (= Megara)”.
[66] Le origini d’Ibla Gereatide e il culto della dea Ibla sono ora effigiati in uno dei mosaici di piazza della Regione a Paternò.     
[67] Alla Storia di Sicilia di Filisto (425-356 a. C.) attinse poi largamente Diodoro Siculo per la sua Biblioteca storica.  
[68] (Moneta) d’Ibla Grande: op. cit., pag. 16. Qualcuno, invece di MEGALAS, ha letto MEGARAS, attribuendo la medaglia a Megara; ma il Torremuzza attesta di aver letto nitidissimamente MEGALAS (Siciliae et objacentium insularum etc., ediz. 1769, pag. XXV). Si noti in quest’aggettivo la desinenza dorica.  
[69]  Gabriel Castellus Turris Mutiae, Siciliae Populorum et Urbium Regum quoque et Tyramnorum Veteres Nummi Saracenorum epocham antecedentes, Panormi, Typis Regiis, MDCCLXXXI, tab. XXXVIII. La collezione numismatica del Torremuzza fu visitata anche dal Goethe nel suo soggiorno a Palermo (Viaggio in Italia, 12.IV.1787). 
[70] Gabriel Castellus Turris Mutiae, Siciliae Populorum etc., pag. 36. Una pregevole riproduzione della versione n° 5 della moneta d’Ibla Grande è stata realizzata e messa in commercio nel 1998 dallo studio d’arte “Le Nid” di Paternò, fondato e diretto da Barbaro Messina.          
[71] G. B. Nicolosi, Hercules Siculus, t. I, p. 3^, f. 111.
[72] Gaetano Savasta, Della vita e degli scritti di Giambattista Nicolosi, Paternò, 1898, pag. 3.  Per questo vedi A. Cùnsolo-B. Conti, Note storiche su Paternò, vol. I, Tipografia Ibla, Paternò, 1972, pagg. 21-22. Angelino Cùnsolo, uno dei curatori dei due volumi delle Note, s’è occupato più volte d’Ibla; mentre l’altro curatore, Barbaro Conti, in questo volume, alle pagg. 15-19, tratta “L’etimologia del nome di Paternò”, sostenendo che “il nome è da collegare al millenario culto della Partènos o Vergine e al suo tempio sulla collina, Partènio”. 
[73] Giovanni Alessio, L’elemento greco nella toponomastica della Sicilia, “Bollettino storico catanese”, Catania, 1946-47, pag. 51; e voce “Paternò” del Dizionario di Toponomastica / I nomi geografici italiani, Utet, Torino, 1990, pag. 476, e di Girolamo Caracausi, Dizionario onomastico della Sicilia, Centro di studi filologici e linguistici siciliani, Palermo, 1993, pag. 1183.
[74] Meglio Giarretta, altro nome del corso inferiore del Simeto fino alla foce, dal nome della barca o scafa con cui lo si traghettava.      
[75] Notizia discutibile: il luogo abbandonato solitamente è riferito alla Ibla poi detta Mégara.
[76] Il lessico classico, lessico ragionato dell’antichità classica, di Federico Lübker, traduzione di Carlo Alberto Murero pubblicata da Forzani e C., Roma, 1898, condotta sulla sesta edizione tedesca.
[77] Op cit., pag. 766. (Traduzione dal latino.)  
[78] Iblensi: scritto così dal Ciàceri più volte.     
[79] Biagio Pace, voce “Sicilia”, parte “La Sicilia nell’antichità / Storia”, dell’Enciclopedia Italiana Treccani, Roma, 1951, vol. XXXI, pag. 667; Guido Libertini, voce “Galeoti” della stessa Enciclopedia, vol. XVI, pag. 269.  
[80] Enciclopedia Italiana Treccani, vol. cit., pag. 674. 
[81] Santi Correnti, Paternò, C. E. N. T., Catania, 1973, pag. 19; e The Oxford Classical Dictionnary, Oxford University Press, 1970 (2^ ediz.); traduzione italiana delle Edizioni Paoline, Roma, 1981, vol. I, pag. 1099.
[82] Paulys Realencyclopädie der classischen Altertumswissenschaft, Stuttgart, A. Druckenmüller Verlag, IX, 1, 1914, coll. 25-29.
[83] Iblea (italiano), Hyblaea (latino), Hyblaia (greco): termini di volta in volta usati dai vari autori.     
[84] Interpreti di prodigi che una volta in Sicilia erano detti Galeoti.
[85] Recentemente il relitto del ponte romano di contrada Pietralunga, citato dallo Ziegler nel 1914, è stato restaurato; e nella stessa zona sono stati scoperti i resti d’un antico insediamento abitativo, ancora in corso di scavo e di studio, a cura della Soprintendenza di Catania, dell’archeologo texano Brian E. McConnell (Brown University), della locale sezione dell’Archeoclub d’Italia (guidata da Giuseppe Virgillito) e dell’Associazione SiciliAntica. Per questo vedi il volume Pietralunga a cura del Distretto scolastico di Paternò e dell’Assessorato regionale ai beni culturali, Broker Services, Paternò, 1996.
[86] Ma gli arabi già la chiamavano Batarnû, cioè Paternò. 
[87] Vincenzo Fàllica, Storia di Paternò, Opera Universitaria, Catania, 1991, pag. 12. 
[88] Concetto Marchesi, Storia della letteratura latina, vol. II, Principato, Milano, 1979, pag. 394.  
[89] Italo Mariotti, Op. cit., pag. 101; Santi Correnti, Op. cit., pagg. 9-26; La nuova enciclopedia della letteratura, Garzanti, Milano, 1985, pag. 732.     
[90] La piana di Catania cominciò ad essere denominata così a partire dall’epoca dell’impero romano, mentre precedentemente era detta piana di Lentini. 
[91] Op. cit., pag. 42. Quanto alla bellezza dell’ambiente, è da rilevare che già Socrate (in Platone, Simposio, XXV) aveva affermato che la bellezza favorisce la procreazione, “atto divino e immortale”.
[92] Pervigilium Veneris (La veillée de Vénus), texte établi et traduit par Robert Schilling, “Les belles lettres”, Paris, 1944-1961.     
[93] Nelle note finali lo Schilling scrive che la località del Pervigilium è certamente Hybla Gereatis, a cui apparteneva l’epigrafeVeneri Victrici Hyblensi, mentre Megara Iblea aveva dovuto soccombere nelle guerre degli schiavi. L’Ibla etnea è identificata con Paternò anche da François Lasserre nel testo di Strabone da lui curato, tomo III, “Les belles lettres”, Paris, 1967, pag. 258, e dal Dizionario Enciclopedico Sansoni, 1972, pag. 931.   
[94] Giovanna Garbarino, Letteratura latina, vol. III, Paravia, Torino, 1992, pag. 523. 
[95] Joost Lips, latinizzato Lipsius, belga (1547-1606), fu un appassionato studioso dell’antichità e autore di numerosi commenti ad opere latine.      
[96] Poetae Latini minores, Aemilius Baehrens curavit, vol. IV, Teubner, Lipsiae, 1882, pag. 293.
[97] Monaco-De Bernardis-Sorci, La produzione letteraria nell’antica Roma, vol. III, Palumbo, Palermo, pagg. 422 e 424. 
[98] Donato Gagliardi, Aspetti della poesia latina tardoantica, Palermo, 1972, pagg. 27-35.
[99] Francesco Negri Arnoldi, Storia dell’arte, vol. II, Fratelli Fabbri, Milano, 1981, pag. 684. 
[100] I poeti parlano della presenza d’aranci e cedri nell’isola di Cipro, sacra a Venere: vedi ad esempio Giambattista Marino nel suo poema Adone (c. VI, ott. 147; c. VII, ott. 106; c. XIV, ott. 246), dove queste piante fanno parte del giardino del piacere.  
[101] Guido Cornini, Botticelli, Giunti, Milano, 1990, pag. 28; Ernst Gombrich, Mitologie botticelliane. Uno studio sul simbolismo neoplatonico della cerchia del Botticelli, in Immagini simboliche, (Londra 1972) Torino 1978, pagg. 47-114. 
[102] Giulio Carlo Argan, Botticelli, in I maestri della pittura italiana a cura dello stesso Argan, Mondadori, Milano,1955. Vedi anche L’opera completa del Botticelli a cura di Gabriele Mandel, Rizzoli, Milano, 1978, pag. 92.  
[103] La pittura italiana a cura di Stefano Zuffi, Electa, Milano, 1997, pag. 122.     
[104] Vedi le indicazioni più avanti.
[105] Maria Corti, Una nuova lettura del capolavoro di Botticelli / La Primavera cambia nome, in “La repubblica”, Roma, 25.VI.1997.   
[106] “Sulle nozze di Mercurio e Filologia”. 
[107] Questo mito fu cantato — fra gli altri — anche dal Foscolo nel sonetto “A Zacinto” e nell’inno primo (vv. 38 e segg.) del poemetto Le Grazie.   
[108] Poesia latina medievale, Guanda, Parma, 1958, pagg. 240-241, in cui la figura 8 e la tavola XXI riportano la fotografia e lo schema musicale del codice di Chartres. Però nel volume Quinquaginta carmina Medii Aevi curante J. Prampolini, Scheiwiller S.A.T.E., Mediolani, MCMXXIX, pagg. 28-29, le strofe sono di cinque versi e il testo soprariportato, oltre a semplici varianti grafiche, ha redundat al posto di vestitur e la parola usque (= continuamente) come quinto verso.
[109] Monte dell’Epiro, sede del santuario col più antico oracolo greco.
[110] Ludovico Ariosto, Opere a cura di Mario Santoro, Utet, Torino, 1989, pagg. 160-165.    
[111] Matteo Bandello, Opere a cura di F. Flora, Milano, 1954, parte 2^, novella 22, vol. I, pag. 863. Dalla sua novella su Giulietta e Romeo lo Shakespeare trasse un famoso dramma. Per curiosa coincidenza, poi, notiamo che la metafora delle mammelle “mielate” continua nella poesia dei nostri giorni; il poeta molisano Vincenzo Rossi nel suo libro I giorni dell’anima (Il ponte italo-americano, New York, 1995) scrive: “nel profondo miele / del tuo seno affonderò” (pag. 346) e “la mia mano ambiva sfiorare / i suoi seni sapore di miele” (pag. 494); mentre poco prima aveva scritto: “ E tu lasciami dormire / sulla tua pelle sapore di miele” (pag. 333).  
[112] Sotto il nome di Celso Selvaggio si cela il Firenzuola stesso.  
[113] Agnolo Firenzuola, Opere, Utet, Torino, 1977, pag.767.   
[114] Ibidem, pag. 872.  
[115] Ibidem, pag. 948.     
[116] Ibidem, pag. 998.
[117] È del poeta il fin la meraviglia
    (parlo dell’eccellente e non del goffo):
    chi non sa far stupir, vada alla striglia.
(in La Murtoleide)       
[118] Spartane: da Ebalo, leggendario re di Sparta.   
[119] Anton Giulio Brìgnole Sale, in Lirici marinisti, a cura di B. Croce, Bari, 1910, pag. 302. 
[120] Carmine Rapisarda, Un sonetto su Paternò di circa 3 secoli fa, “La gazzetta dell’Etna”, Paternò, 30.IX.1997.
[121] Giambattista Vico, Opere, vol. I, Mondadori, Milano, 1990, pag. 249.   
[122] Il Monti accenta Lemène, ma è evidente la derivazione dal latino lìmen = soglia, limitare, confine. Si ricordi anche il poeta lodigiano Francesco de Lémene, uno dei fondatori dell’accademia dell’Arcadia, ispirata al mondo agreste e pastorale (1585-1654), al quale accenna il Redi nel famoso ditirambo “Bacco in Toscana”.
[123] Eroe attico, che ospitò Cerere e in ricompensa ottenne alcune piantine di fico, allora albero sacro, le cui foglie erano purificatrici. Si allude al mito di Proserpina, figlia di Cerere, rapita da Plutone.  
[124] Ugo Foscolo, Liriche scelte / I Sepolcri / Le Grazie, Signorelli, Milano, 1963, pagg. 94-95.    
[125] Niccolò Tommaseo, Memorie poetiche, a cura di M. Pecoraro, Bari, 1964, pag. 96.     
[126] Gabriele D’Annunzio, Versi d’amore e di gloria, vol. I, Mondadori, Milano,1954, pag. 767.  
[127] Ibidem, pag. 783.  
[128] G. D’A., Prose di romanzi, vol. II, Mondadori, Milano,1978, pag. 1314.   
[129] G. D’A., Prose di ricerca, di lotta, di comando, di conquista, di tormento..., vol. II, Mondadori, Milano, 1950. 
[130] “Canto vagante nella notte”.   
[131] L’imperfetto è d’obbligo perché oggi lungo la fascia costiera tra Augusta e la periferia di Siracusa è insediato uno dei più grandi poli industriali, con raffinerie di petrolio e fabbriche di prodotti chimici.       
[132] Per quanto riguarda i viaggiatori (stranieri e italiani) che hanno parlato d’Ibla si può vedere Carmine Rapisarda, Paternò nelle memorie di viaggio, Aesse, S. Maria di Licodia, 1997.
[133] Lexicon Totius Latinitatis del Forcellini / Onomasticon del Perin, già cit.; F. Lübker, Il lessico classico, già cit.    
[134] Placido Bellia, Op. cit., pag. 17.     
[135] Istituto Palatini di Salzano, Oli essenziali per la cura del corpo, Demetra, Sommacampagna, 1993, pag. 35. 
[136] Le monete d’Agàtocle sono riprodotte (tab. CI) e ampiamente descritte (pagg. 98-99) nell’op. cit. del Torremuzza Siciliae Populorum etc., ediz. 1781. Di esse, quelle emesse all’incirca dopo il 295 accanto alla parola “Agàtocle” recano la parola “Re”: ad esempio una nel lato dritto reca un busto d’Artèmide con faretra e la scritta SOTEIRA (cioè “Salvatrice”, appellativo d’Artèmide, con tale titolo venerata in un tempio di Mégara) e in quello rovescio un fulmine alato con la scritta AGATHOKLEOS BASILEOS (cioè moneta “d’Agàtocle Re”).    
[137] In realtà Marcello ottenne dal senato di entrare in Roma con l’onore dell’ovazione (il tipo inferiore di trionfo), il giorno dopo aver celebrato il trionfo di sua iniziativa (com’era consentito) sul monte Albano.  
[138] Livio, Ab Urbe condita, XXVI, 21, 6-8, traduzione di Lanfranco Fiore, Utet, Torino, 1987.
[139] Jean Bérard, La Magna Grecia / Storia delle colonie dell’Italia Meridionale [Parigi 1957], traduz. di Piero Bernardini Marzolla, Torino, Einaudi, 1963, pag. 122.     
[140] G. Rosario Contarino, Giovanni Meli tra mitografia nazionalistica e “illuminismo imperfetto”, in Letteratura, lingua e civiltà in Sicilia, studi offerti a Carmelo Musumarra, Palumbo, Palermo, 1989, pag. 129. La frase “inni all’amore e alla natura” si riferisce anche alla festa successivamente esaltata nel Pervigilium Veneris.     
[141] Salvatore Francesco Romano, Breve storia della Sicilia, Edizioni Radio Italiana, Roma, 1964, pag. 50.
[142] È tuttora dibattuta la questione se la Sicilia sia inclusa nel concetto di Magna Grecia o sia un’entità storico-geografica per conto suo. La maggior parte delle fonti tiene separate le due cose. Soltanto Strabone (Geografia VI 1, 2, C 253) accenna all’estensione del concetto di Magna Grecia dal Meridione d’Italia alla Sicilia, anche se su tale cenno non mancano dubbi di genuinità. Fra i moderni aderisce a tale estensione il citato Jean Bérard. Evidentemente in quest’ ottica Siracusa è considerata la capitale della Magna Grecia, anziché della sola Sicilia.
[143] Varianti grafiche: Hibia, Hibla, Ybla, Eybla.    
[144] Questo verso in altre edizioni è inserito dopo il v. 39.
[145] Di questo verso esistono varie lezioni.  
[146] Madre di Venere e appellativo di Venere stessa.    
[147] Urano, personificazione del cielo, ebbe dal figlio Crono tagliati e gettati in mare i testicoli.    
[148] Venere: da Cipro, isola a lei sacra.
[149] Diana, nata a Delo.    
[150] Apollo. 
[151] Sono le ninfe che rivolgono questa preghiera a Diana.   
[152] Anniversario. L’idea che il mondo fosse nato in primavera c’era già nelle Georgiche (II, 323-345), che questo brano ricalca, a volte ripetendo espressioni e immagini, e ci sarà anche nella Divina Commedia (Inf. I, 38-40).       
[153] La Terra.
[154] Lavinia, già fidanzata di Turno e poi moglie di Enea.     
[155] Rea Silvia.    
[156] Ramni: tribù originaria di Roma (i romani di Romolo); Quiriti: il gruppo sabino venuto a coabitare coi Ramni. L’espressione in epoca storica è passata ad indicare il complesso del popolo romano.
[157] Filomele, poi usignolo. Secondo altri, Procne.     
[158] Procne, poi rondine. Secondo altri, Filomele.    
[159] Tereo le aveva tagliato la lingua.    
[160] Città della Laconia nei pressi di Sparta, nota per un tempio di Febo, la quale, per rispettare il silenzio, fu conquistata dai nemici.

Figure

1. Monete degl’Iblesi riportate dal Torremuzza.
2. Moneta d’Ibla Grande (versione n° 5 del Torremuzza riprodotta nel 1997).
3. Moneta d’Ibla Grande (versione n° 5 del Torremuzza riprodotta come quadro da parete nel 1997).
4. Moneta d’Agàtocle, re di Sicilia dal 295 a. C.
5. La dea Ibla in un mosaico di Paternò (CT).
6. Ibla, già comune col nome di Ragusa Ibla e ora quartiere di Ragusa .
7. Sandro Botticelli, La Primavera.

Materiale
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