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La poesia è ascoltare il cuore. Introduzioni liriche

© Edizioni Decembrio
Milano 2005
© 2005 Francesco di Ciaccia
ISBN 8890164026

Premessa

Comprendere la poesia è, un po’, come capire i sogni onirici.

Nell’ideazione poetica è implicito l’esercizio dell’intelletto, poiché essa è essenzialmente un’attività conscia: il suo «dire» è consapevole. Eppure, il processo della parola poetica è molto simile a quello della «parola» onirica. La poesia e i sogni, pur con svolgimento diverso, provengono dagli abissi della personalità umana.

Nell’ideazione poetica, la mente non è governata dal pensiero logico, come in un discorso probatorio – che tenda a dimostrare una tesi – o anche solo informativo – che esponga una situazione o uno stato d’animo a scopi «pratici», quanto meno allo scopo di far sapere. La mente, piuttosto, segue connessioni spontanee di idee e di immagini, tanto che, a volte, l’autore vive la sensazione che non sia lui a pensare ciò che pensa, a scrivere ciò che scrive.

“Mi stupisco io stesso…”: è la tipica e più vera attestazione del poeta – o del pittore, dello scultore, del musicista ; dell’artista in generale. All’autore non sembra, quasi, che l’abbia realizzata lui, quell’opera.

In effetti, ad esserne l’autore specifico non è l’io strutturato secondo la coscienza razionale; lo è, piuttosto, il profondo dell’io, la personalità inconscia che, durante l’ideazione artistica, emerge verso la mente in condizioni psicologiche di consapevolezza.

L’arte appaga più di qualsiasi altra attività della mente, perché esprime tutti i livelli di personalità del soggetto. Al contempo, rivela in pieno il soggetto stesso. Dall’esposizione del mondo interiore, emotivo di un soggetto, condotta secondo le regole logiche della comunicazione, si viene a conoscenza dei suoi sentimenti, della sua percezione della vita e del mondo. Dall’arte si può conoscere anche quello che il soggetto non dice: si può arrivare alla sua «anima».

Ciò che più mi ha colpito, nel mio impegno di introdurre raccolte di poesie, è stato come alcuni autori mi abbiano dichiarato, magari anche per iscritto, che, pur non avendoli mai visti nemmeno in fotografia, pur non conoscendone neppure il nome, pur non sapendo alcunché di loro, io li avevo capiti “fin nel profondo dell’anima”.

Non so se mi abbia giovato, nella mia lettura, una pregressa pratica d’interpretazione dei sogni in ambito psicoterapeutico; ad ogni modo, certo è che l’atteggiamento con cui va letta la poesia, per penetrare nel vissuto di chi l’ha pensata, è quello di entrare in sintonia, attraverso le parole, con la mente stessa dello scrittore. Occorre «mettersi nei panni» di chi ha trovato nella propria mente quelle frasi, quelle immagini, percependo, sulla base delle parole scritte, il suo vissuto.

Ciò significa prestare attenzione, appunto, non solo allo scritto; significa «tendere l’orecchio» anche alla pulsione esistenziale che ha determinato lo scritto stesso.

Occuparsi delle parole, cioè dei segni linguistici e delle immagini, è intrinseco, naturalmente, alla lettura di un testo; ma fermarsi ad essi costituisce e definisce l’ambito dell’attività criticoletteraria.

Nel servizio svolto come introduttore, non mi sono proposto come critico letterario. Tuttavia, cogliendo spunto da quanto la materia delle singole raccolte poteva offrire, ho impostato la disamina in modo da svolgere un discorso, di volta in volta, su un particolare aspetto dell’arte poetica, una particolare angolatura delle sue caratteristiche, delle dinamiche di fondo e delle molteplici sue forme di realizzazione.

Ne è disceso un panorama, di certo parziale, della natura della poesia in generale e dei suoi indirizzi, ma sufficiente per costituire una riflessione generale su quest’attività artistica.

La successione delle raccolte, qui presentate, obbedisce al criterio di un’esposizione organica sulla poesia, ovviamente nei limiti consentiti dal testo; a sua volta il testo è stato modificato, in parte, per essere adeguato alla diversa sede di pubblicazione.

In principio era l’io

Il valore primigenio è la persona.

Alla persona non si può anteporre alcuna mitologia.

La verità abita in te: e tu devi scoprirla. Nessuno te la può dare su un piatto. Neppure dorato.

Il primato della persona impone che l’uomo non sia confuso con la moltitudine. È l’antidoto contro la massificazione: contro la massificazione delle menti. Ma anche del cuore, dei sospiri, del linguaggio.

Sono voci, queste, innalzate, più o meno alte, nel corso della storia; ed oggi risuonano con maggiore vigore.

La cultura occidentale, coi suoi principi di libertà di coscienza, di pensiero, di parola, sembra dar forza a questa voce, antica e nuova. E tuttavia, malgrado l’orientamento filosofico e antropologico, la medesima società comporta in sé una gravosa zavorra: lo spirito, istituzionalizzato, dell’interesse economico, dell’“utile” come orizzonte totalizzante. Sembra che il “gioco”, la pura gratuità, l’abbandono di sé a sé e alla vita, insomma tutto ciò che non sia commerciale, tocchi il suo culmine di negatività. Di riprovazione. Sociale e individuale.

Molti hanno già constatato – tra coloro che non hanno la testa integrata , come la puerizia si diverta e goda con “poco”: una foglia, un sassolino, un poco di sabbia. Invece bisogna dare ai bambini giocattoli e giocattolini preparati, predisposti, programmati dal sistema! È solo un esempio. In realtà, la nostra testa è tutta dentro il profilo economico.

Ritorna in mente il famoso episodio di un film: in una società primitiva, tutti raccolgono conchiglie. Senza conflittualità tra di loro. Ciascuno ne ha quante ne vuole. E tutti in abbondanza. Ma ecco che arrivano i civilizzatori del cosiddetto genere umano. I quali si mettono ad esaltare il «valore» delle conchiglie, e ne progettano la raccolta a fine di lucro. Gli indigeni sono invitati a farvi parte. Gli indigeni si esaltano, inizia la concorrenza, si cerca il miglior risultato. Il fine è guadagnare le conchiglie.

Alla fine gli indigeni si ritrovano in mano le stesse conchiglie di prima. Hanno perduto la propria libertà, per avere quello che avevano già. E ora, anzi, meno; e a carissimo prezzo.

Per il vero, c’è molto “volontariato”, nel mondo. Anch’esso, però, è fonte di lucro, per gli organizzatori. Un giorno – spero che io resti ingannato – se ne impadroniranno le associazioni a delinquere!

Ad ogni modo, quello che sembra evidente è che si è perso il senso della pura gratuità: che è far qualcosa per niente. E ciò, perché si è perso il senso della naturalità: che è, semplicemente, vivere, semplicemente morire:

“Normale è vivere
normale è morire
Voler troppo vivere
è come morire” (Vivere vitam).

Vivere, e morire, dunque, senza rapporto con le ragioni economicistiche della società.

Il mito dell’economia non è l’unico che travolga l’individuo e la libertà originaria.

Altri miti sgretolano l’essere, altri miti massificano. Sono gli idealismi. I quali, presentandosi come punti di vista “superiori” – così indicati dai “civilizzatori” , decretano inferiore il soggetto, gli additano mete supreme – inventate – e, magari in nome di un’astratta “umanità”, soffocano l’uomo concreto. Questo è il messaggio, in qualche modo misterioso e universale, iniziale:

“se venderai l’animo tuo / ricca / diventerà / un’altra gente / […] / Svegliati uomo / non seguire profeti / fa di te profeta” (Svegliati uomo).

Nelle sue scelte scrittorie, Sheyla Piccotti è un esempio pratico dell’assoluta libertà del soggetto: il suo è uno stile anticonformista. Esso permette all’autrice un esito felicemente paradossale. Se l’ispirazione verte su sentimenti e temi personali, il risultato, grazie al testo dal sapore sibillino, travalica il puro dato empirico, proiettato su uno sfondo di mistero impersonale.

La vita privata è – come ho detto – la trapunta della presente raccolta. Ed è da segnalare – alle prime battute del libro – il raccordo col figlio. Un annuncio personalissimo, certo, e al contempo universale:

“L’animo mio fa festa” (Mio figlio).

Una festa personale; ma al contempo essa annuncia un confine senza confini e si appunta su l’unico aggettivo possibile: semplice e splendido. Scontato e scoperto: “Bellissimo, bellissimo, bellissimo”. È la felicità per la vita nuova, rinnovata e rinnovante, il cui brivido trapassa per le vene d’ogni vivente; per cui

“si pasce di bellissimo / lo spirito ridente” (Ibidem).

La poesia offre talvolta tasselli di vita nascosta: incastonati tuttavia nel mistero profondo della vita individuale. Come nella seguente:

“Intorno a un tavolino / creammo un nido / nella città straniera” (Intorno a un tavolino).

C’è di certo il magistero dell’ultimo Montale. La poesia diventa “cosalità”, si occupa del “quotidiano”, eppure resta sempre solcata da un raggio di luce che illumina le “cose” e apre ad esperienze esistenziali più ampie. Ad esempio, nel nido in terra straniera è condensato il bisogno di calore tra intimi, coi quali si fa trasmigrare il tempo che è stato vissuto in loco natio; ma, più in profondità, si legge il bisogno d’amore nella terra straniera che è questo mondo.

Altre volte la poesia diventa «morale» – per dirla col Manzoni – e, pur senza scendere nel «particolare», dimostra la foga di chi sdegna la menzogna e l’inganno (Rapaci). In tale contesto, non sempre appare chiaro quale sia l’oggetto del contendere (“Ah mentitori! / Col pianto e / colla compassione / entraste nelle nostre / case/ E noi facemmo / di debolezza / carità”); tuttavia è sempre evidente l’intento di erigersi contro i trafficanti di morte e di dolore:

“Grava la nebbia / sugli alberi smozzicati / Satana è morto / il delitto è compiuto / […] Tutto intorno tace / su voci esanimi / su Scalpitii molesti” (1997).

Ma il sentimento che più colpisce è la forza, coraggiosa e consapevole, di innalzarsi sopra le “maree” della vita (Maree).

Tutt’altro che spezzata e vinta, e pur sommersa dalle onde – a volte distruttrici – dell’esistere, la vita si riconquista e si risolleva proprio grazie alle sofferenze patite: e dalle “macerie” delle illusioni, bevute come ad un amaro calice (Vivere vitam), riaffiora la consapevolezza della propria “regalità” (Nel sottobosco).

Essere padroni di se stessi, pur sempre e nonostante tutto, è, in effetti, il vero regno dell’individuo.

Soltanto allora si può cantare:

“Su questo terreno arido / deve di nuovo / speranza germogliare” (Speranza).

Malgrado il desiderio di morte.

Che attanaglia.

“Sul fondo della vita / sogno della vita” (Vivere vitam).

In punta di piedi

“Polvere / sopra la terra. / Prima che si copra, / cerco / coi piedi nudi / la punta di una stella”.

La lirica, con cui inizia la raccolta di Chiara Costa, ne esprime, con linguaggio asciutto e con metafore incisive e forti, l’idea ispiratrice: superare l’opacità – forse irriducibile – della terrestrità, per un viaggio – forse, a punta di piedi – che ha principio da una lucentezza. Un viaggio – che è la definizione dell’esistere – “verso il cielo”; o meglio, “un gesto”.

Labile come una foglia.

Pregnante come una persona: “Io sono: / un gesto / verso il cielo”.

È da questo orizzonte stellare che si apre lo “spazio per vivere”.

In “solitudine”.

Ma non da soli.

Apparentemente isolata nella sua tensione interiore, l’essere umano ha una “mano [che] conduce”, ha a fianco un proprio simile. Simile nel cammino sulla terra, simile nella “fantasia” che costruisce e crea.

Sembra che la poesia sia essa stessa a creare e costruire il reale: attraverso la fantasia, l’artista «inventa» – cioè, manzonianamente, trova e scopre veri universi, vere realtà, valori veri. È lo “scherzo estetico / dell’armonia” che al contempo fa “sorridere” l’uomo inautentico – l’uomo affaristico – e fa rivivere l’autenticità dell’anima umana.

Certo: a poter così tanto, non è la poesia che sia passatempo, ma è la poesia che sia come gesto dell’anima, cioè vibrazione dell’essere e luce interiore.

La poesia che è in noi. Che noi siamo.

L’uomo è trasparente finestra sul cosmo: per un verso, universale; per altro verso, ingabbiato. Non c’è uomo, che sia davvero uomo, il quale non senta e l’uno e l’altro confine.

La poesia recepisce, in effetti, anche le brevi emozioni, le piccole sfumature del vivere quotidiano.

E si va dall’infinito delle stelle all’infinitesimale dei moti della coscienza, che cerca se stessa per capirsi, sempre più a fondo, chi si è, chi noi siamo. Ci si cerca non solo seguendo lo sguardo tra l’immensità della luce, ma anche auscultando le orme che segnano le nostre ansietà, i nostri piaceri – tra i fili d’erba dei prati e le foglie cadute e caduche. Chi siamo? Chi sono? È sempre la stessa domanda. La stessa risposta.

La quotidiana esistenza impone poi un’etica per sopravvivere. A volte l’uomo è sopraffatto dall’ansia per raggiungere ad ogni costo un traguardo. Da ciò, spesso, la frustrazione: il tempo della vita non è sempre il tempo del desiderio.

Allora è necessario guardare al “curioso mistero” delle cose, riposare entro i “giochi di parole” che si affacciano al nostro pensiero e rendersi conto che il riposo stesso può diventare movimento di vita. Senza attendere alcuna cosa.

Aspettando soltanto che la vita si offra. “Taccia il brusio”, allora!

Beninteso: non si tratta di lasciarsi prendere dalla depressione. Si tratta di lasciarsi prendere dal “vento”, dalla forza del destino che conduce spazio e tempo, uomini e cose, cieli e terra. Così “mi alzo al passo / di chi alla terra / dona la vita”.

È il vero modo per non soggiacere a sé e alle cose: accettare la vita, per donare sé alla vita stessa.

In fondo, per donare se stessi a sé: “[…] / e io / per sete / mi respiro”.

La scrittura allusiva e simbolica aggiunge quell’alone di mistero nel quale l’autrice sembra navigare, anche quando si avvicina ad esperienze personali, come in questa scena, dolce:

“Mi tiri per un braccio / che io lascio / non credo / e m’abbandono. / Rido ad ogni taglio, / i pezzi nelle dita. / Mi tengo stretta. / Dove ci sfioriamo / un dubbio acuto / abita la mano”.

La Storia e la terrestrità

Il vissuto dell’autore spazia soltanto in larghi scenari terrestri, imprevedibili come sogni, in un percorso che corre intorno al mondo. Quando, invece, la vita è racchiusa nello spazio di una stanza, l’anima, asserragliata “tra i denti” (Amici), sembra mordere il freno: alla “disperazione vitale” fanno compagnia lame di coltelli inquietanti, inquiete notti affogate nell’alcool, stordimenti della mente e del corpo che gridano disperatamente libertà.

Qui, nella città dalle folli solitarie, la vita si dimena tra la confusione ubriaca e l’incoscienza irridente; qui, l’uomo non è più un parto della Terra per la vita del Cielo: piuttosto, sembra scampato dalla disperazione, per vivere la morte.

La condizione dell’uomo che, carcerato, “incarcera” la natura è ben raffigurata in una lirica, Camera. Autunno: l’autunno è “nero”, in una camera annoiata tra l’amore e l’amico!

La condizione dell’esistenza, dannata tra le massive muraglie dell’economia, è una svendita della libertà: ma io

“non vendo / le mie conchiglie / che soffiano / il mare del sogno” (Orizzonti).

L’autenticità dell’esistere è, infatti, in una polarità dinamica e convergente tra la terrestrità originaria e l’immensità (quasi) cosmica: nato – l’esistere – dalla Terra. Nel mezzo, la Storia (Le acque dei mari).

La mente si proietta, allora, oltre l’effimero della certezza economicistica della Storia, oltre il confine della civiltà codificata, ed il corpo lo segue.

Il corpo segue la mente che, libertaria, va alla ricerca di armonie terrestri sempre nuove, di nuove visioni: la poesia è questa tensione tra il vagare – in un fisico “errare” al di là della siepe leopardiana – e il dimorare tra le cose scoperte che hanno il sapore del prodigio del “falco levato” di montaniana memoria.

Oltre il prodigio del mondo, sembra che null’altro di “bene” sia pensabile.

La Storia è opaca!

Pioniere nella geografia della terra, pioniere nella filosofia dell’esistenza. Il viaggio reale e la proiezione esistenziale sono le componenti dei versi di questa raccolta, a volte duri.

Il duplice atteggiamento, realistico e simbolico, si compenetrano in una sintesi in cui l’intreccio semantico, una volta disvelato, immette nell’universo della Terra come “radice” del viaggio umano, e nell’universo del Cielo come forma coscienziale di questa avventura. Che è la “ricerca di oro”. “Oro di vita”, “bellezza elementare della struttura primigenia: prima, e sempre, al di là dei valori pragmatici, della “speculazione che uccide” e che “devasta le strade a motore” inquinando la terra e imprigionando la libertà (Al futuro presente di piccola terra).

L’“homo oeconomicus” ridiventa “homo sensualis”! “I salmoni / giocano l’argento / dell’acqua”: nel Gran Mare del Nord (Cercatori). È un fatto. Ed è un messaggio: è il segno della “soave avventura” di chi sa dialogare con la Terra – anche l’“Alaska ha un sorriso”! – e camminare “liberi campi”. Muovendo “i tasti bianchi del volo”! (Camera. Autunno).

La brachilogia, il ritmo spezzato, la frase mozzata propongono istantanee di vita vissuta. Con questo registro linguistico il poeta crea icone incisive e insieme sospese, senza cadere nel descrittivismo morboso.

Si legga La mia Arabia. Dai flashes azzardati (“Camminare […], vestito di bianco […], incontro alla notte […], Fumare […], voci ancestrali […], sassate […], Rottami di macchine”) sobbalza la monotona distesa sabbiosa tra la terra ed il cielo, la solitudine deserta va in cerca di Venere: bisogno d’essere “assieme”. E ancora una volta trascendere il “lavoro di merda” che sta dentro alla Storia, filar liscio tra i colori del cielo e il suo Sole.

Dirsi per esistere

La poesia può essere impostata, certo, sull’autobiografismo. Ma esso si proietta – come in questa raccolta – in simbologie universali.

È stato osservato che la differenza tra il cronista e il poeta, anche quando l’arte è realistica, consiste nello «sguardo»: quello del cronista è «economico», serve a «far conoscere», di conseguenza è particolaristico; quello del poeta è gratuito: non si preoccupa di «far sapere». Semplicemente, «dice». Di conseguenza è universale: anteriormente al «detto», il suo sguardo inconscio coglie il «tutto». Inconsapevolmente, il poeta esprime sempre, pur nelle circostanziate immagini dell’esistente, connessioni universali tra gli esseri.

In un saggio su Leopardi, Maria Teresa Gentile ha mostrato come l’atto del filare della vecchierella del Sabato del villaggio comporta una valenza che va oltre l’azione compiuta, di fatto, da una vecchia donna di paese di quell’epoca e si aggancia – inconsapevolmente per l’autore stesso – all’intuizione del fluire della vita, di cui la femminilità è la matrice originaria, in una ciclicità che trapassa incessantemente dalla “donzelletta” alla vecchiarella e da questa a quella.

Per fondare criticamente i significati «universali» di un’opera occorre lo studio filologico e comparativo tra le poesie di un autore. Qui voglio segnalare soltanto la dimensione in cui si muove il poeta: quella dell’unitarietà del reale, tale per cui cielo, terra e uomo, fatti interiori e fatti esteriori si implicano e si intersecano nell’armonia della totalità, ed ogni cosa esiste come “segno”.

Genova, sempre ventosa, si trova assediata da un “mar che ti distrugge e che tu ami” (A Genova). Questa lirica fa immaginare la legge della vita: il mare è la vita combattuta, origine della vita stessa e minaccia del male, è ciò che sia ama e si teme, proprio perché il positivo non può essere senza il negativo. Il mare insegna che non si può escludere l’ostacolo, se si vuole entrare nella vita, cioè trasformarsi nell’eterno ciclo di rinascita.

Nella lirica commemorativa, La vittoria del K/2 – con il fascino esercitato dall’intrapresa sugli animi giovanili , l’“alta conquista” aleggia come un bisogno, più o meno inconsapevole, di forzare i limiti quotidiani.

Emotivamente ripresentata, l’impresa acquista il sapore del dantesco Ulisse, sospinto verso l’ignoto e oltre la morte – come fa intendere il ricordo di un alpinista, morto nel tentativo di vincere la vetta inviolata : dalla giovane vita “rubata” sgorga “solo una novella e forte spinta” ad andare avanti.

Il nucleo essenziale della raccolta è tuttavia nel ricordo della moglie morta. E qui viene in mente l’annotazione dantesca:

“Nessun maggior dolore / che ricordarsi del tempo felice / ne la miseria” (Inferno, V, 121123).

L’autore ritorna alla gioia familiare della nascita delle sue due bimbe, con un afflato paterno che poi rende ancor più desolanti le scene del vario distacco; ma soprattutto ritorna, quando ormai il tempo felice ha lasciato il posto al tempo della desolazione, ai primi timidi baci, ai primi dolci approcci con la sua donna. Finché, alla fine, la solitudine:

“Nessuno / accanto a me, nessuno! / E dai miei occhi stanchi / sgorga represso il pianto” (Solitudine).

Notare il percorso di questo vissuto. Appena la persona cara ci ha lasciati, si ha quasi l’illusione, che sembra voler forzare la realtà, di poter negare il fatto: un’illusione titanica di riavere la persona amata. È un’ossessione che quasi disperatamente cerca di ricreare ciò che è perduto:

“e guarderò smarrito / nell’animo ferito, / alla ricerca invano di chi ho amato ed amo”.

L’illusione poi si rafforza e si smorza attraverso la mediazione delle figlie, frutto dell’uomo “abbandonato” e della donna “morta”: si rafforza, in quanto gli occhi e le sembianze delle figlie riflettono gli occhi e le sembianze della madre, e l’immaginazione quasi ripropone l’impossibile «ritorno» della sposa

– “sussurrami che presto tornerai”, Realtà amara) ;

si smorza, in quanto la presenza reale delle figlie impone di affrontare la vita così com’è:

“ritorno alla realtà, perché la Ina / mi scuote con la bianca sua manina”.

Il dolore per la perdita dell’unica e carissima donna amata – “ch’eri tutto il mio mondo! (Vuoto) – si snoda in versi strazianti: consapevolezza dell’ineluttabile, e dentro l’ineluttabile la percezione che niente e nessuno potrà sostituire ciò che è scomparso:

“Quando di sera torno a casa stanco / […] / Vorrei venir di corsa al camposanto” (Desiderio).

Al contempo, all’illusione subentra una più consapevole ricerca di unione: sarà nel solo affetto, sarà solo interiore, ma questa volta è vera:

“Mai più ti scorderò, mia Dina cara, / starò col mio pensiero a te vicino, / la vita sembrerà un po’ meno amara: / un nuovo giuramento ti fa Pino” (Ricordi... Ricordi).

Da questa intensa e viva comunione d’amorosi sensi, in una stretta comunicazione che ricostruisce e ripristina il mondo vissuto insieme, nasce quasi una nuova vita: una vita di più intimo amore, divenuto oramai spirituale, al di là dei ricordi stessi dei bei tempi passati:

“Dammi coraggio, Dina, / fammi coraggio, amore. / E’ tutto come prima, / sei sempre nel mio cuore” (La fotografia).

Conclude infine il ciclo del pianto e del male – “ma crudele è stato il fato” (Le virtù) – la fiducia di ricongiungersi su un altro piano ancora, questa volta “in Paradiso”, con l’unica donna amata (cfr. Vuoto).

Ma già fin d’ora l’uomo abbandonato si unisce, quasi misticamente, con lei: in una ripresentazione immaginifica, ed esistenziale al contempo, del suo indistruttibile incontro d’amore di sposo e di sposa:

“Ma ormai aspetto soltanto / quel giorno, però, non so quando, / allorché vestita di bianco / sarai nuovamente al mio fianco” (Soliloquio).

Ne scaturisce un rapporto affettivo reale – e non più, soltanto, immaginario – di vita in comune. L’uomo abbandonato non solo pensa alla sua amata: la “sente” vicino; nelle gite al mare,

“è come se mi dessi la mano, / un bisbiglio: ti amo” (Gita a Portovenere);

ne percepisce “il profumo”, ne scorge riflessa la foggia del “viso bagnato”, ne rivede il velo e persino “la vera nel dito” (Oh! quante volte...).

Il ciclo del bene e del male non sarebbe completo, se non pervenisse all’ultima sponda della vita: quella di riunire tutto in una armonia in cui il negativo si risolve nel positivo. Così l’autore, ormai franto e maturato dal dolore, partecipa al dolore degli altri. L’ultima poesia costituisce il traguardo della via crucis: la sofferenza e la disgrazia diventano un esempio di speranza per tutti:

“la sua luce, ora, comunque / splenderà sempre dovunque” (A Rosanna Bensi).

Il volto dell’uomo

La poesia, se nasce da un bisogno profondo, è sguardo sul mondo interiore: anzi, è la parola del mondo interiore.

La vita dell’autrice, benché agli inizi, appare segnata dalle contraddizioni del vivere: da qui, forse, scaturisce in lei la voglia di esprimere la propria anima, di esplorare e di dire il proprio “io”.

Tuttavia il suo dire non ha nulla di conflittuale: quasi ella abbia trovato all’interno delle occasioni dell’essere il luogo della sua pace superiore, della femminile dolcezza. Questi rilievi servono solo ad inquadrare la produzione dell’autrice: i contenuti e il suo stile, il suo pathos. Si trovano in essa i volti e i luoghi rivisitati – la poesia è sempre rivisitazione emotiva – durante l’esistenza: e la datazione apposta alle composizioni fa da spia a come l’opera sia fenomenicamente puntualizzata.

Ma l’opera travalica il mero connotato fenomenico, la datità del mondo: si proietta nella sfera della pura esistenzialità.

La poesia, se è poesia vera, è parola che svela una dimensione universale dell’esistenza alla coscienza di tutti.

Non bastano queste due righe per mostrare il valore noumenico delle poesie di Katia Giannotta, il loro significato universale. Il rapporto con le concrete esperienze non cade nel cronachismo: diventa il modo di sentire il mondo e la vita. E il suo è un sentire partecipabile.

Basti accennare a quel Momo, bambino, “sospeso in un etere / che di luce risplende. […] E rimani puro”: in cui il dramma della cecità – che aliena da “questo nostro mondo” – è visto con la coscienza del bimbo. Oppure, alla poesia sull’estate, l’estate che riesce “a inumare rancori / a involare / ardite speranze!”: e anche il lettore partecipa a questa “stagione di esotici miraggi” 0 alla crescita di una bambina: un vissuto, tra la realtà e l’immaginario, in cui qualunque fanciulla si ritrova, tra

“sorrisi beati / per le ali di un aquilone / e singhiozzi spezzati” e

“sogni di principi” “su spiagge deserte”...

La scrittura di Katia, pur nella sua tensione sull’universale, è sempre chiara, pulita: non si sforza di creare atmosfere liricizzate od ermetiche. La forza emotiva è interna alla stessa parola, che resta semplice, e insieme potente, anche quando fa sussultare per percussioni che sembrano scendere nelle profondità esistenziali, come quei “rancori placidi” – ma è solo un esempio – “sommersi / in vissuti sterili”.

Sperimentare l’“attesa”

La poesia si può dire che sia quell’attività umana che non manca di stupire.

Essa fa riferimento al vissuto d’un’anima con tutto il corredo di esperienze affettive, mentali, biografiche, e con le sue pulsioni incoscie, che nell’arte arrivano alla luce come da un abisso che non trova altro sbocco se non nell’onirico.

Già per questo, l’arte riconosce a se stessa la libertà che la rende imprevedibile e nuova.

A differenza delle attività «pratiche», l’arte non ha leggi. Le operazioni delle attività «pratiche», che scandagliano e descrivono il «mondo» – sia fisico, sia sociale, storico, etico , possono essere originali negli esiti, nel metodo e nel procedimento, ma la prospettiva resta legata a un principio: la razionalità.

L’arte invece è l’attività in cui l’uomo dice «di sé»; non solo: è quella in cui il «dire di sé» è nel modo secondo cui ognuno «liberamente», senza rapporto con la logica, percepisce il «sé» che egli dice.

L’arte è dunque alogica: il suo modo di conoscere è emozionale, intuitivo.

Non solo: in qualche modo è «magico», nel senso di immediato contatto con la propria anima conscia ed inconscia e con ciò che in essa è racchiuso, dalla «vita» degli esseri inanimati allo spirito degli antenati, dagli influssi dei cieli alle paure e alle speranze degli uomini. Perciò, anche se il realismo offre canoni oggettivabili, l’arte resta, per necessità, attrice di soggettività.

Queste considerazioni ci conducono a un altro aspetto essenziale dell’arte: quello dell’«esprimere».

Le concezioni novecentesche della vita interiore hanno condotto verso una poesia che diventa sempre più espressione di vita «segreta» che neppure il soggetto stesso conosce, inabissata in un inconscio ancestrale, o prenatale, o epocale. La poesia è come il «luogo del disvelamento» di ciò che è velato: come il sogno del dormiente.

In effetti, la poesia è stata spesso avvicinata all’onorico o a quegli stati mentali nei quali emerge il «non saputo», ciò che la ragione cancella.

Nei sogni notturni, chi è che non ha ravvisato una trama di immagini – le «parole» del sogno – che svelano la verità del proprio io o le pulsioni, penetrate nell’inconscio, di un’intera generazione?

Forse, il poeta è colui che fa quest’esperienza di giorno.

Da ciò discende che il linguaggio poetico si fa criptico, ermetico: parole – come le immagini oniriche – che scaturiscono da abissi scavati dalla tensione esistenziale, da impellenze preaffettive maturate fino all’illuminazione di sé, ma non attraverso la logica.

Ne consegue che la parola non rispetta le leggi della coscienza razionale.

Queste premesse valgono a inquadrare la poesia di questa raccolta nel filone dello sperimentalismo espressivo, posto che il suo interesse non è per le cose che accadono, ma per la forma esistenziale con cui esse accadono.

In alcune liriche, quasi tematicamente, l’assillo appare quello del «dire», del far parlare la coscienza intimorita nell’esser nel mondo, incatenata all’esigenza del comunicare.

Ma se la ricerca linguistica è un’ansia di fondo, il poeta è conscio che la ricerca della propria parte “consorte” – la parte di sé che raccoglie il vissuto estrinsecandolo – deve andare avanti,

“e forse mi sposerò / all’improvviso / con parole migliori”;

ma è anche consapevole che ogni scelta è come l’amore: si entra nella sfera del comunicare, ma per ricominciare a riconoscersi sempre, ed ancora. Di attimo in attimo. L’autore non può fare, ogni volta, che una operazione: rovesciare “le impressioni”, ridendo. Ridere di sé e della stessa parola, “violentando / i segni”: consapevolezza del limite in cui si è costretti, per superare i quali è necessaria questa “violenza”.

Che però non basta: non si può mai «dire», del tutto, se stesso, “esprimere / il mio cuore moribondo” (Espressione).

Egli lo afferma chiaramente in Descrizioni impossibili, in cui alla violenza si sostituisce il “gioco”, simile al ridere, “con parole affastellate” e “in equilibrio / spinto all’estremo”.

Significativi per lo sperimentalismo mi sembrano testi quali, in particolare, Il sospetto e Festa, in cui sono intenzionati – mi pare – sentimenti e accadimenti reali. Lo stato d’animo del sospetto – il sospetto che il “Dolore” non si faccia aspettare – è plasticizzato nelle gambe che si piegano incollate al corpo, nelle braccia che assalgono il torace: atteggiamento interiore ed esteriore, l’uno simbolo e segno dell’altro.

Così, in Festa: l’“attesa” – “parcheggio di odio / momentaneo” e “d’indifferenza accelerata” – offre immagini riottose alla oggettivazione, che tendono a catapultare il significato verso esperienze interiori impenetrabili:

“L’aria umida / calda e sola / avrebbe la costante / disperazione / per insinuarsi / a larghi fiotti / nell’insulsa attesa / della festa […]”.

Il fulcro dell’intuizione poetica della raccolta è da individuare nell’esistenza: intesa come esistere, etimologicamente ex e sistere, “stare (venendo) da”, nel senso dell’essere che continuamente nasce dai “risvegli” e continuamente “corre” e si “sorpassa” (Voi).

Questa dimensione dell’esistere è misurata nel rapporto con gli altri, con il “voi” – nella lirica omonima , e nello scambio delle sensazioni, nella dialettica dell’incontro la coscienza tocca i vertici dello smarrimento: la “mia vera paura” è nelle “tracce estinte”.

Condannata al continuo mutamento, la coscienza non ha riposo nel suo inesausto inseguirsi: ha pace nelle “soste” – definite “inebrianti” , quando, per un istante quasi magico, l’uomo si sente identificato con se stesso.

Ed è proprio allora che accade il miracolo della progettualità – come lo chiamò l’esistenzialismo : “vivere in anticipo / i nostri giorni” (Solo noi).

Progettualità esistenziale, ho detto, e non anticipazione immaginaria. Si tratta infatti di una “continuità” del passato nel futuro; o meglio del futuro nel passato: la coscienza esistenziale si progetta in «advenire», in un futuro che “viene verso” il presente, e che viene secondo quell’apertura alla vita che la coscienza ha avuto nel passato.

In questo impianto, tutt’altro che speranzoso, il poeta non pecca di euforia. Egli sa che le “false speranze” hanno avvinto la coscienza “senza pause”:

“ombre / di un giardino / incantato / che splendono / di varie promesse” (Solo noi).

Anche nei barlumi di autobiografismo l’autore si sente assediato dalla fugacità, dalla fallacia dei giorni e delle opere. In Saggezza ad esempio l’abbraccio è

“oltre i cancelli / dove fuggono / foschi ideali”,

è nella separazione, quando il progetto esistenziale è il vagabondare “senza tregua”, ed è proprio la “mano / che ti ha stretto” ad aver dipinto i foschi ideali.

Il che non vuol dire cinismo. Tutt’altro. È compartecipazione ai brandelli di storia e di vita:

“nella felicità / mi hai chiamato / ed anche in questo / tempo d’angoscia / ti seguirò / nel tormento”.

Né la coscienza della precarietà è aridità o astrattezza. È speranza di aprire per sé e per gli altri un varco attraverso lo spessore del mondo che sembra non offrire nulla di sicuro, nonostante si sappia che neppure questa speranza basta alla vita:

“Ed anche noi, che non / siamo ancora stanchi / di bere speranza / a grandi sorsi / continuiamo / un esercizio / che alla vita non basta” (Riuscire a ricordare).

In questa lirica si trova l’espressione che dà il titolo alla raccolta: il bene è nei buchi dell’esistenza. È lì che l’“acqua calma e limpida” è nel mezzo di “contorni labili e nervosi”.

L’acqua limpida non è programmabile.

Nella cultura del nostro secolo, l’uomo ha capito che solo dall’intimo esistenziale discende il valore della vita reale.

Ma la programmazione è possibile e doverosa per le attività pratiche; per quanto riguarda la vita interiore, e cioè per il vissuto coscienziale coi suoi contenuti di umanità, ci può essere solo la tensione progettuale. Per il resto

“non pensiamo / a dove andiamo” (Notte).

Stringerci le mani, e poi arrivare dove “non sappiamo”.

L’essenziale è “credere” che – a dove non sappiamo – arriveremo.

Con le mani strette: l’uno nell’altra.

È “notte”.

Poi l’aurora ci sveglia dove ci ha condotto amore.

La speranza dell’amore

Quando l’animo prova un’emozione intensa, si rende conto che a vivere pienamente quella sensazione non basta un unico soggetto: ne occorre un “altro” (Un’onda di emozioni). La vita non sembra dispiegarsi a sufficienza, senza parteciparsi fuori di sé:

“e vorrei aprire le mie braccia / ed abbracciarti, / per farti finalmente sentire / la mia immensa / felicità” (Silenziosa in fondo al cuore).

L’«altro» è un «tu» preciso ed impreciso insieme: come individuo e al contempo come infinito.

Il desiderio dell’altro non è dunque, soltanto, desiderio di possesso: è necessità di comunione, in cui le anime, partecipandosi, si arricchiscono a vicenda:

“Dammi la tua vita da vivere, / e ne avrò cura più della mia. / Dammi il tuo sorriso da imprimere / sulle mie labbra, / e sarà più radioso del tuo” (Vita in prestito).

Questa comunione è proiettata nella più ampia comunicazione tra gli esseri: una farfalla è muta, una farfalla sembra che possa viver bene senza «te», ma ecco che, se si poggia sulla tua spalla, osserva proprio te e ti parla dei suoi voli… (Voce di farfalla).

Questa comunicazionecomunione tra gli esseri è senz’altro uno strumento simbolico: serve ad esprimere alcune profondità delle relazioni interpersonali. E tuttavia è un immaginifico che si radica, come fenomenologia psichica e mentale, nell’esperienza originaria dell’uomo. Il bambino ne dà la prova: il bambino che parla al gatto come se parlasse con suo fratello!

Il poeta ritrova appunto quelle armonie di “amorosi sensi” che uniscono tutte le cose.

Quante volte, nel pianto, abbiamo udito un canto d’usignolo, e c’è parso che l’usignolo volesse consolarci; e quante volte, nel sorriso, abbiamo sentito sorridere la luna accanto a noi!

“Strano è come / […] / anche un sol raggio di luna / possa riempirti il cuore…” (Un sol raggio di luna).

Il bisogno più prepotente dell’essere umano è però quello che lo spinge verso il proprio simile: con lui, la comunione è senza scarto. Con il simile l’uomo trova la sua completezza: l’uno e l’altro si raggiungono vicendevolmente nel più profondo del proprio essere.

Ed è allora che non bastano né le parole, né le braccia: occorre l’anima! Si sente il desiderio dell’altro in quanto persona intera:

“Ho bisogno di te…”! (Ho bisogno di te).

Ed è allora che l’altro diventa amore: l’uno non può vivere senza l’altro. L’amato è la vita stessa di chi ama: la mia anima si ciba solo di te, amore! (Come il legno).

La presente raccolta poetica sviluppa poi le dinamiche affettive del sentimento d’amore. Essere sempre accanto alla persona amata è una delle più chiare esigenze di chi ama:

“ascoltarti tutta la notte, / senza mai un attimo di silenzio / e di tregua / […] / in quelle ore che da qui / conducono all’eternità” (In quelle ore).

L’eternità: l’amore è una spinta verso un tempo che mai è finito e mai finirà.

L’eternità nasce dal sentimento d’amore.

E l’amore genera e riempie anche la spazialità: ovunque è presente l’amato. L’aria ne è piena. Le parole di chi ama si librano attorno all’amato come il vento attorno alle vette dei monti, e

“se allunghi la mano / puoi sfiorarle [le mie parole], / accarezzarle, / afferrarle, / farle tue, / ed insieme a me / […] viverle…” (Se allunghi la mano).

Il bisogno di questa comunione simbiotica costituisce il canto d’ogni poeta che parli d’amore; poi ognuno ha le sue forme espressive.

“Ti desidero come un fiume / desidera il mare”, “ti respiro come un albero / respira il vento… / Ti cerco, / come un’ape cerca il fiore”,

e l’anima è “nuda senza te”.

La brama dell’altro è la percezione che uno non può sussistere senza l’altro, o per “attingere vita” dall’altro – come l’ape dal fiore , o per “confondersi” con l’altro, per confluire e coesistere in lui – come il fiume nel mare , a tal modo da essere “finalmente / dentro te” (Ti cerco). E tu… “dentro me” (Per sempre in me).

L’amore è desiderio d’unione: immedesima gli animi. Il veicolo è spesso lo sguardo: qui si manifesta e si rileva il sentimento. Ed allora si è travolti dalla dolce e possente percezione di essere trasportati dagli occhi “al di là di chissà quali / confini”: oltre i confini della propria individualità separata, per raggiungere l’unità in cui “respirare insieme” l’aria che ognuno respira (Vorrei saperti dire).

Già il dolce stil nuovo indicò lo sguardo come punto di partenza del processo d’innamoramento; poi ciascuno trova, negli occhi, ulteriori e particolari magie: anche il silenzio “urla” dagli occhi la sua attrazione potente; e lo sguardo amoroso sembra avere “il calore di una foglia” che protegge il bruco; la dolcezza della luna e il luccichio delle stelle (Ore di silenzio).

Ma la caratteristica straordinaria, quasi incredibile, dell’amore è un’altra ancora: anche quando esso è infranto o è deluso, tuttavia non finisce. L’assenza dell’amato si traduce in una densa disperazione dell’animo; ma si sublima nel ricordo: ora lacerante, ora fiducioso. Qui, il senso di disperazione è una specie di “mano” invisibile, quasi aura benigna, che consola e solleva:

“e rivedo il tuo viso / che con il suo sorriso / mi conduce fiducioso / al di là delle tenebre” (Quando tutto sembra perduto).

Quando l’amore diventa solo un meraviglioso passato, si vive del ricordo: ricordare è un po’ come rivivere, anche se, spesso, è un po’ come morire.

Ma, anche se fa soffrire, il ricordo si impone al di là delle intenzioni e delle scelte: la voce dell’amato vibrerà in ogni momento nella mente; il suo sguardo folgorerà le notti, e i giorni saranno pieni di quegli occhi che un giorno affascinarono tanto.

Nascono allora le poesie della rimembranza.

In essa, il passato si insinua nel presente e il presente è penetrato dal passato. Quasi non si avverte più se l’esperienza sia stata interrotta da un baratro di lontananza, tanto l’animo è “imprigionato”: l’amore, nel ricordo, sopravvive (Il tuo sguardo, Un dolce suono).

Ciò che emerge, qui, nella fenomenologia dei sentimenti, è la consapevolezza che il soggetto, ormai, amerà per sempre chi ha perduto (Ti amerò), “prigioniera per sempre” del suo amore (Prigioniera senza te…).

Nasce da qui la poesia della cocente nostalgia, che esprime il desiderio di ripetere i bei momenti della compagnia:

“Vorrei che tu guardassi / la stessa luna che io / stasera / osservo. / […] mentre, stretta a te, / mi addormenterei, / poggiando il mio capo stanco / sul tuo caldo amore…” (Sul profilo del tuo viso). Eppure, ora “allungo le mie braccia e non avvolgo che il nulla” (Altro che il nulla).

Sembra che l’anima continui ad esistere con la persona amata, come avvenne per Dante e per Petrarca dopo la morte di Beatrice e di Laura: nel ricordo infinito e forte / di te / […] / in un breve / ma intenso attimo / d’eternità” (Attimo d’eternità).

Torna a fiorir la luna

La «poesia pura», un tempo imperante, aveva indiscutibili ragioni di validità. Direi imperiose: dire il nondicibile.

La causa profonda si radicava nella natura del vissuto esistenziale: ciò che l’animo sente non ha «parole», non ha le parole dell’intelletto. Queste, che sono concepimenti dall’astrazione logica, esprimono i concetti dei sentimenti: non il sentito, vale a dire la percezione immediata, dei sentimenti. Il vissuto coscienziale è più facile dirlo con lo sguardo, con il corpo, col silenzio…

Ma se i vissuti più nascosti, che eludono la coscienza, sono raggiunti con criteri che trascendono la coscienza, la poesia pura vale nei casi in cui l’illuminazione si presenta davvero folgorante: casi privilegiati. Pochi casi, nella vita degli uomini che vivono impastati di sentimenti comuni, chiari, semplici, comunicabili, traducibili con le comuni parole della normale vita della mente e del cuore umani.

In effetti, c’è sempre stata la voglia di dire tutto ciò che passa nel proprio animo commosso: ora esaltante, ora umiliato e franto, ora fiducioso e allegro. Voglia di dire: dipanare la matassa delle fantasie, delle immagini, magari così come vengono.

È un bisogno di comunicare di più? Una ricerca del contatto con gli altri, non solo sui punti più insondabili del vissuto ma anche sull’intero immaginifico mentale? Forse.

Il problema è se la poesia non possa collocarsi, anch’essa, al livello dei discorsi, o delle effusioni, che si fanno nella vita quotidiana.

C’è un rischio interno, e c’è un’obiezione esterna alla poetica, per la poesia «discorsiva». L’obiezione è che la storia di un cuore e di una fantasia palpitanti, narrata per lungo e per largo, interessa solo gli amici di chi la narra.

L’obiezione tuttavia non regge: a chi interessa quella «storia», interessa. Il rischio, invece, è che lo scrittore si abbandoni più al gusto di «dirsi», di «raccontare a se stesso», che a quello di «darsi»: di dare il proprio intimo.

La differenza tra nonpoesia e poesia, tra la cronaca fatta dal figlio al papà, dall’amico all’amico e la «cronaca» esposta da un Leopardi su Silvia – vera e immaginifica! , sta in questo: gli ipotetici “occhi ridenti” della ragazza, della quale il papà vuole sapere qualcosa, interessano solo a quel genitore. Quelli della ragazza leopardiana – vera e fantasiosa! – interessano anche a chi della vita del Leopardi non sono per nulla preoccupati. Perché? Perché quegli occhi racchiudono il «sogno» universale, quegli occhi trasmettono ciò che l’umanità intera attende ogni giorno, che sogna anche di notte, che ha attaccato alla carne e dentro il sangue e a cui “anela”, con l’ultimo respiro, mentre, morendo, protende lo sguardo al sole: la giovinezza di speranza, i primi palpiti umani, il primo sussulto di fronte all’altro «fuoriditeche èin te».

I componimenti di Tacconi rientrano nella «poesia» per la forza di comunicare forti stati d’animo, potenti aneliti, bisogni d’un passato quasi carnosi, ricordi che non si spengono. Essi riguardano la vita personale, incarnata in situazioni precisate ma cariche di tensioni che scaturiscono da genuina dimensione antropica, salgono dal profondo dell’animo e producono, in chi le legge, consonanze ora emozionali, ora immaginifiche.

Per questo motivo mi pare appropriato il titolo introduttivo: “Torna a fiorir la luna”, che ripropone il titolo di una delle liriche. La luna, simbolo in qualche modo di una poesia distesa, memorialistica, sognante, torna a fiorire nell’uomo e nella forma poetica, nel linguaggio fatto di penombre e nella natura come paesaggio,

“[…] nella notte /di piuma, sbigottita […]”

E nella notte “di piuma”, così sensualmente definita, traspare la nota essenziale di questo mondo immaginifico: una controllata ma possente vitalità sensoria, che par che “s’apra”, anch’essa, come il “giardino d’oro bianco” cui si fa riferimento nella lirica,

“alla danza segreta / di verbene odorate e molli ortensie / nel velluto d’inchiostro / che esala dal cielo la sua fiaba antica” (Torna a fiorir la luna).

Forse, questa caratteristica contiene l’elemento psicologico determinante, che rimanda alla poetica dell’estetismo, della sensitività. La percezione s’affina al limite tra l’estetismo simbolico e il sensitivo, come nel caso in cui, nella citata poesia, si sente che

“Dorme la rosa rampicante al quieto / riparo della cinta / dormono caste nel respiro lieve / della lavanda / le camicie di lino, trasparenze / di dolcissima trina”.

Si avverte che l’“odorosità” ha un’intima relazione tra la realtà naturalistica e il sentimento umano: la rosa ha un sonno “quieto” – “al riparo”, nella sicurezza domestica! – come quello di chi la sta sognando, mentre le camicie di lino rimandano più propriamente all’uomo, che attraverso gli indumenti sembra “respirar lieve” nella casta serenità “della lavanda”.

La sensualità della percezione si fa strumento della umanizzazione o animazione della natura. Allora “le labbra lievi delle colline” diventano fanciullesche e “belle di cielo”, il paese ha “ventre malato” e “spalle stanche” come una “anima assopita / nella cenere greve del tempo” (Terra malata).

“Povero piccolo paese […] / i tuoi capelli ridono verdi nel respiro d’aprile / ma le dolci radici bevono il nero veleno / […] / la tua antica collana di liquide perle / è una muta sentina di spume mortali” (Ibidem).

Una diffusa sensibilità panpsichica si nota soprattutto nella poesia delle mondine, “canto corale” delle donne dalle “braccia nere” (Canto popolare):

“scivola la canzone […] / lenta e limacciosa / come le molli onde della risaia”,

in cui l’immagine della madre coagula la nostalgia e al contempo il senso della penosità del duro lavoro,

“in mezzo alle ranocchie / – mito lontano, quadro sospeso / coi barbagli nell’acqua piatta – / scivola la canzone / a struggerti il respiro nella gola”.

La vita, per tutti, è un viaggio nel sogno del ricordo.

Il poeta non è colui che ricorda: è colui che al ricordo affida la salvezza del tempo.

Per tutti, il ricordo è salvare il tempo; ma il poeta è colui che lo salva per tutti.

L’“onda” che va, l’onda della giovinezza perduta è una rosa “impietosa” che con l’effimera brevità ha i segni della spietata “crudeltà”. Qui si vede come, per ognuno, la giovinezza – in genere, il “tempo” che è passato – ha i suoi occhi, il suo colore, il suo tono.

Per l’autrice ha il color rosso (“rosea fiamma”) che d’un colpo – non sembra fulmineo, quando qualcosa è passato? – s’imbruna. Svanisce.

“Crudele danza delle stagioni / che fa ricco il cuore di memorie / e avvizzisce le palpebre… / passa così l’onda muta del tempo / sull’anima ancora stupita / presso il suo fiore d’aprile” (L’onda del tempo).

Ma la vita non finisce.

Esige che il giardino si apra – come dice la citata poesia – alle piogge dell’esistere: “alle piogge che verranno”. Il problema è di non farsi ingoiare dal buio della notte –

“Non ascoltare i proverbi neri”, insidiosi, divoranti, travolgenti, che possono precipitare il desolato spirito “nei fondi crepacci del delirio” ,

soprattutto quando tra passato e presente si staglia l’ombra nera di un’assenza devastante, coi suoi “colori del gelo / che trafigge / i funebri colori della morte / antica del sole” (Le vuote dimore).

Nel percorso all’indietro, in questa proustiana ricerca del tempo perduto –

“Eppure c’è stato un Natale / remoto / in cui guardavi dai vetri / con chiari occhi ridenti / lo stupore felpato / della neve” (Ibidem) ,

non fa meraviglia trovare la nonna che “stendeva / a un balcone d’ombra / la sua trapunta dorata”. Non è solo un fatto del mondo passato: è una spinta emozionale

“al tempo dei dolci mattini / sbigottiti di sole”

verso l’universo incantato dell’incosciente vitalità dell’infanzia, quando, nel cielo incredibile come il sogno non sognato ma vero,

“il mondo si curvava lucente” (Infanzia).

Forse, proprio in questa capacità di scoprire il presente rielaborando il passato, di salvare la miseria dell’oggi in un orizzonte che comprende la totalità dell’esistere – come il cielo immenso, che ha buchi neri e stelle splendenti, meteori che precipitano e pianeti che tengono il passo , la vita non si spegne, e torna a fiorire l’aprile:

“nei tuoi vecchi colori / c’è il miracolo / antico / dell’erba nuova” (Un altro aprile).

Anzi, la voluttuosità si rinforza tra l’accidia del lieve sole e la quieta mestizia dei cortili, come avviene ai ciliegi che ogni anno ripetono il miracolo della tenerezza e dell’ingordigia d’esistere che rinasce dopo l’arido inverno.

A questo punto bisogna menzionare le nostalgie concrete, e non solo esistenziali, di un’autrice che non nasconde le sue terrestrità.

Ma, anche in questi casi, come in La piazza nel sole, s’impone alla fantasia la percezione sensitiva. E allora le “colline sogguardanti dai tetti” hanno un “canto”, che è un canto di “ambigua bellezza”; il sole di mezzo settembre è “sdraiato” nella piazza di Casteggio “tra quieti sbadigli di nere osterie”; oppure è la nostalgia del paese natio, quando si è vestiti del “vestito da sposa”: e il ricordo d’aver lasciato il proprio paese è come quello di chi è andato in esilio (Argilla rosa).

Ad accompagnare la trama dei ricordi, la trama del mondo che riaffiora alla memoria come i “tempi del cuore” (Ancora), è, in questa raccolta, soprattutto la figura della madre. È una presenza “calda” (“il caldo passo!”, Sera d’ottobre) e premurosa (“come la notte / attendeva”, Ritorno).

Non è qui il caso di individuare questi momenti di varia quotidianità, ma è opportuno notarne l’atteggiamento di fondo.

C’è una lucida consapevolezza che non ha nulla di narcisisticamente nostalgico, nonostante le più vive suggestioni di una vita fortemente attaccata alle esperienze della prima gioventù. Direi, invece, che c’è l’accettazione del mutare del tempo, secondo il tipico realismo femminile. Al contempo, in questa attitudine di sana concretezza l’immagine della madre pare il prototipo delle aspirazioni: le poesie non si calano soltanto nell’immaginifico del passato; pulsano anche di avvenire. E in questo «nonancora», che si sogna, appare chiaro un altro elemento: la poetica delle “piccole cose” di gozzaniana memoria.

“Voglio […] / fare le cose che fece mia nonna / che farà mia madre”, ecc. (Quando sarò vecchia): con un tocco di crepuscolarismo, ma non di maniera, perché realisticamente – ella dice – sarò vecchia, e allora

“Voglio accettare la malinconia della mia pelle / e affacciarmi da una finestra che avrà le mie labbra” (Ibidem).

In questo componimento, che ha l’aria di un testamento di vita, si congiunge il passato e il futuro, la ripresentazione di ciò che è stato e il sogno di ciò che sarà, perché solo qui – ella dice , dove ho visto i miei giorni originari,

“avrà senso lo sfacelo dei miei capelli / perché qui ho giocato con la lucertola sulle tombe / e guardato per scherzo nell’ossario sotto la botola”.

Questa raccolta è giusto che si chiuda con una dichiarazione di identità: chi sono io? Io sono questa, è l’ultima poesia: una donna dal “cuore di rovere” a cui è piaciuto ubriacarsi di mosto “quando aveva lunghe trecce intorno al collo”; una donna che trema nell’anima se guarda fuori casa. Perché? Per rispondere occorrerebbe scoprire un altro rapporto: quello col padre “che ho sempre cercato”. E forse nello scavo con quest’altra figura si potrà completare il quadro poetico della scrittrice.

Il silenzio e la parola

È bello leggere ancora poesie chiare come le “fresche acque” di petrarchesca memoria, e classiche come quelle dei cultori della nostra antichità; e fa bene leggere ancora accenti originari, che poi sono quelli che stanno alle sorgenti della vita umana; e sentire ancora ripetere, con un “ringraziamento speciale / e infinita gratitudine”: a colei “che mi ha dato / le ali / per volare”.

Non ci troviamo però di fronte al lirismo poetico alla maniera dello stilnovo: il sentimento è cifra metafisica, è la chiave di volta dell’esistenza senza illusioni.

La vita non cresce nel frastuono: il chiasso giovanile è solo esteriore; e a volte maschera il disagio interiore.

La vita, in realtà, si sviluppa nel vuoto: il vuoto del passato, che è breve, e di inconsapevole spessore; il vuoto del futuro, che è un: “non so ancora”; il vuoto del presente, perché l’attimo sfugge.

Il vuoto è il silenzio.

È la solitudine.

Questa è la condizione esistenziale dell’autore, ora decifrata nel concreto fenomenico, ora trasmutata in forti e pregnanti metafore:

“Senza più lacrime è tramontato in me l’ultimo sole” (Dall’ombra in questa pineta).

Dal significato tuttavia polivalente, il “silenzio” è figura che ricorre a raffigurare o il raccoglimento profondo, nel quale matura o la fede e la speranza infinite, o l’isolamento fallimentare.

Per un verso c’è il silenzio che è come un “tesoro”, quando un uomo, una terra, una stella sono muti, ma sono meravigliosi nel cuore (Nata da un Dio più Grande). Per altro verso, c’è il silenzio che è una lontananza dagli uomini, dalla vita, dal futuro: e allora nasce quel senso di frustrazione che spesso attanaglia gli spiriti più sensibili, consapevoli dell’ingiustizia del mondo e del fato: “ho fallito […] ho capito di essere solo” (Nata da un Dio più Grande).

Nel silenzio della notte. Nel silenzio della vita!

Da questa solitudine si esce con il sentimento: il sentimento come apertura verso l’ignoto, l’universo, l’eternità.

Allora si scopre che la vita assale ed invade anche la materia così esasperatamente immobile.

Sentimento, e poesia. L’uno e l’altra, fratello e sorella. La poesia, come parola scritta, è la compagna e lo strumento del sentimento: è dentro la solitudine, ed è lo strumento musicale, e la rivelazione, del sentimento.

“Non ho che te, pensiero che spazi, / e spandi, dal cuore, al cuore, del mio finito universo” (Non ho che te).

In forza dell’ispirazione poetica, la pesantezza dell’essere si libra ed ascende verso lidi leggeri: della vita.

“Non ho compagni” – ripetuto tre volte! –, “ma in cuore […] attenderò con coraggio / la rinnovata primavera” (Non ho compagni).

Nel componimento che riassume il “male”, che è “tutto”, sprigiona dalla morte un’immagine di resurrezione, con l’irruente forza della natura:

“La vita / che vince la terra” (Epigrafe).

È il germoglio: che sboccia nel silenzio senza fiato, “Nel silenzio del mio giardino”! (Sognando primavera).

Il “silenzio” diventa, così, il crogiolo in cui lo spirito, affranto, prepara, per un’alchimia che avviene anche in virtù del poetare, la trasmutazione del “nulla” nella speranza sospirata:

e sul “frammento di quel nulla”

“rifiorirà per me l’eterno” (Non ho che te).

Viene in mente la solitudine leopardiana. Il corpo è distante dal mondo, l’occhio corre lungo le strade, e da lontano guarda…, guarda la gente affrettarsi dietro fugaci felicità, verso beatitudini effimere, alla ricerca dello stordimento insaziato: “la felicità non è che un attimo” (Felicità). Ma il pessimismo leopardiano è superato: un attimo può racchiudere l’intensità di tutta una lunga esistenza!

Se la vita è dolorosa – e non c’è dolore più grande di quello della coscienza della “finitezza” del vivere ; se è un vano nulla – “non è che un sogno, la vita” (Non ho che te) , è tale consapevolezza che riesce a fare assaporare la vita nella sua insondabile, misteriosa ricchezza:

«Per un’ora sola / per un minuto / vissuto intensamente / vale la pena di / esistere / Amare e soffrire» (Attimi).

L’annuncio più bello è quello della funzione “miracolosa” dell’amore: anche solo un “attimo / – fugace –” può “colmare d’immenso / il vuoto dei silenzi”, e

“Unire nel miracolo / dell’amore / il cielo e la terra / il passato e il presente / fra lenzuola di luce / […] nella penombra. / Amare è donare / e creare, / soffrire e difendere / la vita” (Amarsi).

In ultimo, ma non per importanza, è da segnalare la forma poetica della raccolta. Il periodare è disteso, il discorso si amplia in larghi spazi quasi narrativi: una novità. Il Novecento ci aveva abituati ai versi contratti, essenziali, abbreviati. La struttura formale dell’opera di Pedroni si avvicina alla poesiaracconto, pur senza il ritmo cadenzato quale quello di Cesare Pavese. Ne deriva una poesia da “lettura”: di lettura di un testo profondo.

“Ognuno di noi arde quanta più speranza osi tacere, / come una fiamma che fende l’oscuro, ma protesa / si consuma, gemendo nelle mani di una coltre / più fitta; nelle strade siamo fiamme, che immemori / il silenzio cattura, divide, sprigiona; ma i corpi / rigidi, autunnali, come gelide lingue di carne / e flutti, e spuma, la burrasca insacca e spegne / perdendo nelle onde ruvide il tramonto / di quei rivoli di pioggia, e queste lacrime, e l’ultimo sole… / … un brivido… nel profondo, una fiamma, / celata, continua ad ardere, ma invano, / richiami impercettibili, e urla, e canti, di incantata / immensità» (Il pianto scarlatto).

Allo stesso tempo sono coniugate la scrittura narrativa e la simbolicità delle immagini, così che il discorso si snoda in ampiezza, ma anche s’immerge in profondità per l’uso metafofico delle stesse immagini. Per tal motivo, quest’opera va “letta”: con attenzione. Va “studiata”: per scoprire, ad esempio, il valore di quell’“immemore” attribuito alle “fiamme” che noi siamo; della “ruvidezza” che qualifica le “onde”; per capire il “gemito” “nelle mani di una coltre più fitta”.

Ma l’opera di Pedroni ha anche cadenze estetizzanti: e risuona nella pagina l’armonia dannunziana:

“Ascolta. Le tue onde / ardono alla luce / ove dall’ombra dei lecci / cala il silenzio / ed il nulla ci accoglie / il vuoto ci unisce / nella perfetta armonia / tra cielo e terra. / Brioni…” (Brijuni).

Una specifica originalità dell’Autore è poi quella di inserire nel discorso alcune parole latine. Il ricorso alla contaminatio è del resto sapiente: avviene quando si vuole sottolineare un’idea, imprimere maggior valore ad un sentimento. I termini latini, calati con estrema naturalezza nel testo, elevando il registro linguistico ottengono l’effetto di catturare l’attenzione del lettore e di dare incisività al discorso.

La poetica delle “piccole cose”

La poesia delle “piccole cose”, dei sentimenti rientra nella poesia del «narrato». E «narrativo» è il registro linguistico: qui, realizzato con modalità ritmica, e rimata, che, cadenzando i versi, sottolinea un messaggio semplificato e quasi fiabesco.

La poesia si muove in pieno realismo, ancorata alla rappresentazione dei fatti e dei sentimenti. L’universo narrato concerne le comuni esperienze dell’uomo: gli affetti familiari. Nella vita, essi sono i vissuti originari, presentati qui con semplicità di cuore, affezionato a quei cari che non si scordano mai. In primo luogo, i figli: chi potrà dimenticare, finché vive, la tenerezza di chi è “carne della propria carne”?

L’autore ne ripercorre le tappe a partire dal loro ingresso nel mondo: la gioia, di fronte a quel “batuffolo” che è sbocciato come una rosa! L’espressione di gaudio del poetapadre tocca il colmo dell’umana semplicità, colma d’amore (Grazie di esistere). E segue i suoi figli lungo il percorso della loro prima esistenza – che non è semplice, ma che per un papà è sempre esaltante , come quando la bimba inizia il corso di danza o il figlio esordisce in un campo di calcio. Il fascino dei piccoli uomini coinvolge il poeta: il fascino di un “sorriso di bimbo” nell’omonima poesia, e sembra che proprio l’infanzia, in tutta la sua estensione esistenziale, ne orienti, come in Orizzonti, l’immaginazione poetica: allora i “seni infantili” della piccola donna si ergono come Musa che ispira le piccole cose della semplice vita d’ogni giorno.

Ma ciò che negli affetti paterni sembra condurre l’uomo ad una gratificazione, direi, promettente, nell’amore tra adulti, invece, compreso quello tra mamma e papà, si nasconde il pericolo: il rischio di sentirsi lontano.

È la problematica di due esseri che si snodano ciascuno secondo un proprio sviluppo e che possono arrivare a non capirsi (Capirsi): non saper più partecipare al vissuto dell’altro. Le sofferenze dell’uno si allontanano da quelle dell’altro come una nave partita da una rada incantevole.

È crudele, l’indifferenza (Crudele indifferenza)!

E che cos’è amore? Qui, sembra connesso all’imperituro: come per Pascoli, alla natura. Se l’amore tra adulti è un sogno che al risveglio svanisce (L’amore) e se la più profonda beatitudine è “essere padre” – così, nell’omonima poesia , l’emozione che meno tradisce è quella di fronte alla natura bambina.

La natura è sempre bambina!

È la libellula che si libra nell’aria leggera, come un sogno appena sognato (Dolce libellula). È la primavera che aleggia “per magia” coi suoi odori nell’aria che “ti sfiora, ti avvolge, ti mette allegria” (Primavera). È il mondo campestre con le sue verità incrollabili e semplici, cui l’autore guarda quasi stupito (Immagini).

Con questo spirito egli osserva, vive, ricorda ogni altra realtà, ad esempio il primo incanto, quello in cui, per la prima volta, un uomo e una donna si sono riconosciuti vicini... e si sono detti l’amore (Tenera è la notte).

Con la stessa intimità, tinta di dolcezza e fatta di concretezza, ci si trova insieme in famiglia, attorno ad un tavolo o seduti in salotto, per dirsi, col cuore, quanto si è, ancora, insieme (Serata d’inverno).

È tutta un’esigenza di “ascoltare il cuore”, come suggerito in Riflessioni, da cui l’autore non dubita di poter trascendere indicando nel desiderio di un amore universale, aperto alla vita, una strada per ogni essere umano (Desiderio d’amore).

Al di fuori di questo orizzonte non sussiste che un altro universo: quello dell’egoismo, della sopraffazione, dell’esasperata ricerca del proprio benessere fisico. Il poeta offre prospettive di un mondo migliore – come in Uomo e Preghiera. In questa direzione, la donna ha una funzione essenziale per guidare l’umanità al dolce sentire. E ai veri valori dell’uomo (Amare la vita).

Profumi d’aria

La poesia nasce sempre da una solitudine.

Lo scavo esistenziale non ha compagnia: la sua “essenza” è nel deserto.

Ma proprio in quest’orizzonte abbacinato, al confine tra il finito e l’infinito, scaturisce il profumo dei ricordi che provengono dall’al di là del visibile e svelano i colori che nel mare della coscienza stupefatta avevano un tempo brillato: “ritrovo colori che credevo perduti” (La solitudine).

La poesia è nascondimento al mondo e autorivelazione: è scoperta della propria verità e della verità del mondo, ed è ripresentazione del nascosto: “cercare / sorrisi nascosti / dimenticati” (Radici necessarie). Per ciò il suo cielo è più vasto del cosmo; e più che davanti alle stelle scomparse e invisibili, lo sguardo interiore si trova “davanti all’infinito che affascina” (La catena).

L’infinito umano ha essenzialmente i confini dell’amore: una scoperta che ogni cuore, sprofondato in quel fascino, scopre in sé.

Dentro e fuori: perché l’amore è cosmico, è esistenzialità che non si esaurisce in alcuna cosa del mondo e in alcuna situazione dell’uomo. Ma anche l’amore, come ogni alito che spira nell’universo terreno e celeste, ha i suoi puntiforza:

“Le mani degli amanti / strette le une alle altre / ripetono all’infinito / promesse / a un sentimento che sempre si rinnova”,

in un ciclo infinito di tenerezza che assorbe le energie e le espande, le contrae e le diffonde, senza mai morire che della propria vita che si rinnova, in un congiungimento di mani “come due elettroni al suo nucleo” (La catena).

Dagli spazi infiniti dell’anelito ad esistere, l’amore, come luce che non s’afferra ma che afferra il bocciolo e lo genera, diventa quotidianità, crea situazioni di vita, diventa l’“anello / di una catena interminabile” (La catena).

La “catena” abbraccia intimamente anche il mondo naturale:

“Si distendono i petali il cui sonno notturno / ha racchiuso perle di rugiada. / Ecco il sole” (Ibidem).

Sembra che in tutti gli aspetti del mondo reale si libri quel senso che è nel fondo di ogni cosa: l’amore. Anche le immagini trasmettono – o tradiscono? – significati che direi erotici: ove, per Eros, s’intenda l’“alma mater” generatrice di vita, la Venere del canto di Lucrezio sulla natura. I petali s’assopiscono al sonno d’amore, “il gallo ha cantato verso la campagna / arata e seminata / che si appresta a germogliare”, il sole s’alza “da abissali profondità / al di là dei monti” (Ibidem).

Ma l’amore è soprattutto autoidentificazione: rende consapevoli di sé. Genera l’io. Prima che i frutti, genera l’albero. Senza l’amore dell’altro – con l’altro e per l’altro , il “nome” è un fatto del mondo, l’io è anagrafico: “Questo nome chiamato” è senza presenza ma, quando è pronunciato dall’altroconme,

“mi pare rivestito d’aurora” (Il mio nome).

È il nascimento.

Conforme alla vita della natura è anche l’animo umano: “in attesa”. Il domani avrà la sua luce, e la poesia ha questa funzione:

“Lasciate che gli occhi miei rifuggano / dalla notte dei tempi” (La luce di domani).

La poesia è la forza di non naufragare. La vita non è sempre dolcezza: è anche il mugghiare delle onde in tempesta che scuotono gli scogli flagellati. Ma su tutto

“Esperia brilla lassù”, “per una ritrovata ragione d’essere e d’amare” (Esperia).

Non fa meraviglia che la poesia sia la dote dei piccoli: perché solo i piccoli sanno meravigliarsi del mondo, vedere e non solo guardare, “allungare una mano” e

“Sentire la vita pulsare / farsi più leggero il respiro / […] / e constatare guardando / di vedere” (Perché).

Se tutti i sentimenti sono espressi attraverso la natura, è soprattutto il senso di felicità che si prova a contatto con la natura a offrire l’ispirazione essenziale. Allora sembra che la felicità sia lì, nelle ombrose foglie che baciano la terra dispensatrice di vita, nella frescura in cui il corpo distende le membra impigrite, sulla rugosa scorza accarezzata come virente, mentre “saltella un pettirosso incuriosito” (Tiglio). Come in una “tavolozza di un pittore / invaghito del suo più caldo amore”, il mondo si colora di iridi, da quelli solari e aurei a quelli argentati.

La lirica che ne raccoglie le sfumature più sottili è Autunno a Glion, in cui un arcobaleno sembra si stagli sulle stagioni e sulle foglie in una “esplosione di colori”:

“Rosso tendente al giallo, giallo ocra / verdegiallo, tutto verde, sempre verde, / letto colorato […], verde pallido / erba di una novella primavera?”.

Ogni prospettiva, soprattutto della rinascita e della speranza, è affidata alla complice presenza della natura, quasi in simbiosi:

“Voglio arrivare a primavera, / con tenere foglie di pallido verde / e userò l’azzurro del cielo a cornice” (Risveglio).

È un sogno che accompagna tutta l’esistenza di una donna, fin dalla prigionia della scuola (“i banchi di scuola imprigionavano / le mie gambe e la mia fantasia”):

“Sognavo le capriole nei prati / aprire le braccia come le farfalle / dormire nell’erba avvinghiata alla terra / e aprirmi come […] i fiori all’alba / per tuffarmi nella rugiada” (Come fanno i fiori).

Dall’alba della vita all’evanescenza dei giorni: “siamo sempre più vecchi” (E siamo sempre più vecchi); ma anche in questo fluire di aurore, giorno dopo giorno, le mani si sciolgono, nella notte, perché tra le “rattrappite dita” filtri il sogno della vita che si rinnova insieme alla natura generatrice di speranza:

“e lasciano, filtrando, / albeggiare il nuovo giorno” (Ibidem).

Morte e speranza – speranza che “va oltre” il tempo? – è il tema profondo e ardito dell’ultima lirica, diversa nella struttura e nei contenuti ma collegata alle altre per l’atmosfera di “sogni” spezzati: è la poesia, tragica e storica, dei bambini ebrei deportati da Praha, che nel 1941 “partirono” per non tornare mai più (Disegni).

Qui l’autrice si fa cronista e madre.

“Potessi ricordarvi / tutti / piccoli / che partiste un dì / a migliaia / dando la piccola mano / al padre o alla madre / e con l’altra / le matite colorate / lasciando / sulla placida Moldava / e nel cielo di Praha / a ricordo / i vostri canti di allegrezza” (Ibidem).

L’itinerario va dal trastullo infantile, con un indugio narrativo che sembra voler soffermare quei “disegni” sul limitar di Dite, alla morte, dalle illusioni spezzate ai grandi incubi della storia accecante:

“[…] mentre / i camini di Terezin / fumavano”, una tragedia, che i bimbi non potevano neppure capire, andò a rompere di colpo i loro giocattoli. Con una mano stringendo mamma e papà e con l’altra le matite colorate, questa pietà del nostro secolo è scolpita nella pietra di mille “dolcissimi nomi”: una voce di silenzio che domanda il pianto, e chiede che il mondo diventi migliore.

La pace e l’armonia universale

La tensione verso il raggiungimento di un traguardo – sempre a “pochi metri” da dove ci trova – costituisce l’ansia primordiale di questa raccolta: in cui la lotta tra la ricerca del fine agognato e le remore dell’inconscio si combattono nell’animo come in una battaglia senza apparenza di speranza: anche i ricordi “si avvinghiano / come ceppi / e li trattengono” (Il sentiero della montagna).

Il superamento delle contraddizioni è un penoso arrancare verso un sentiero di pace: è nel rasserenamento delle pulsioni che è possibile contemplare le passioni e, contemplate, sentirle compagne di un viaggio duro, quasi infinito, ma esaltante. Questa pacificazione – temporanea e relativa, come ogni bonaccia in mare aperto – è un’offerta che giunge dalle profondità dell’essere: non si sa come, non si sa perché.

Si sa, però, che sei soltanto Tu.

L’autrice gli dà un nome: il Signore. Con lui l’animo si placa a considerazioni che vanno verso la purezza originaria: la partecipazione totale all’alterità amata, un dolce naufragare nell’amore spirituale, sì che “quando Ti amo non trovo altro / che il mio amore”, in cui scompare il mondo dell’avvicendamento e della trepidazione, al punto che “ho finito / di desiderare e penare / perché il Tuo amore m’invade» (Nôtre Dame).

La meta è chiara: ridiventare “persona” (cfr. ApatiaAgosto 1992). Impossessarsi di se stessi nel più intimo dell’anima, per arrivare alla piena consapevolezza senza più ombre: leggeri come un’ala di gabbiano – che “non pesa”, anzi solleva i pesi. Su questa linea esistenziale tutto il resto è percepito come inutile: anche il corpo non appartiene all’essenziale (cfr. L’anima di Gionata). Perciò “tutto ciò di cui ho bisogno” è “il Tuo amore” (Nôtre Dame).

L’immagine del fine agognato si configura in modo preciso nella pace conseguita nell’unione con l’anima universale: il maha Purusha.

È lì, nella luce del Bhakti – la pace , che perde significato ogni oro che abbaglia ma non soddisfa, ogni frutto che piace ma non sazia: ed è lì che l’anima trova dolcezza, in un cammino sempre proteso e sempre fermo al contempo, come quello di un viandante interiore che mai esce da se stesso e continuamente esce da se stesso superandosi verso una comprensione più profonda, e pacificata, dell’io. Il rapporto con il proprio fondo – per dirla con Jung – assume i connotati di una generazione come da padre a figlio: lo “spirito” che dà beatitudine all’io è “Padre” di una creatura novella (Al mio Creatore) e nasce al “calore” di un amore più caldo del fuoco e più intimo della propria stessa coscienza; c’è una misteriosa congiunzione di consanguineità – omogeneità – e di alterità – subordinazione , in una “dilatazione” dell’interiore che al contempo “si annulla per diventare tutt’uno” con l’universo e che si autori costituisce nella propria identità “portando con sé / tutta la grazia dell’incantamento” (Al mio Creatore): così quando

“il mio granello di polvere vorrà / gettarsi nell’oceano della Tua pace, / che io arrivi come figlia / per riposare ai Tuoi piedi» (Come un calore).

Non c’è da illudersi che il processo interiore si svolga in una quiete senza tempo. La quiete è il fine, ma la strada è irta di solitudini e amarezze: la vita nel mondo è un navigare per mari in tempesta, approdare da rivoli a rivoli, pur sempre

“anelando al ruscello / delle limpidi acque” (Se venendo).

L’aspettativa trascendente e globale della rinascita alla vita universale si articola tuttavia in mille rivoli di quotidianità. Di agonie e risvegli. Stritolato dall’indifferenza, il cuore a volte non riesce a darsi la ragione d’esistere:

“Vivo […] / come un violino / senza corde / cercando / impossibili armonie” (Agonia).

Il cuore si conforma però alla medesima ansia di totalità e di immutevolezza: come quando il bambino vive il tempo come fuori dal tempo e sembra di possedere la sua esperienza in una “sicura” immutabilità (Dove il sole risorge). La coscienza della contraddizione dell’essere – per cui il positivo è legato al negativo – s’impone comunque, e a questo punto scatta, consapevole e matura, la speranza di riconquistare l’armonia universale, le “melodie” che pur sembrano “impossibili” (Agonia) –

“A tentoni / le mie mani cercano / una piccola fessura / che gli occhi non riescono / a trovare” (Ibidem),

come in un’attesa del nuovo sole, nel ciclo delle variazioni:

“Ma il sole vive / con la morte accanto / […]. / Ma attendo / tremante / che albeggi / guardando sempre / là dove il sole / risorge” (Dove il sole risorge).

Il ricordo di Padre Davide Maria Turoldo, tratteggiato nei suoi lineamenti più veri e immortali – “[dal]le mani nodose” “seminò nel campo / parole di speranza” (Come un albero possente) , serve a rimarcare le convergenze sottese ad ogni grido di speranza: quelle di un poeta dell’occidente cristiano e dell’esperienza mistica orientale.

Al fondo dell’arrabbiato esistere della storia, alla fin fine sono due, e solo due, le opposizioni radicali. Da un lato, la tracotanza dell’uccidersi a vicenda per miraggi storici, la lotta per il potere e per l’arricchimento che semina morte, ovunque ci sia un figlio d’uomo, e s’accanisce contro l’inerme,

“in un mare di sangue / che tutto sommerge” (Invocazione);

dall’altro, la promessa di una vita liberata: parteciparvi vuole dire disarcionare il fardello di Caino, muoversi verso sponde in cui sovrana è l’unità tra tutti i figli d’uomo.

A che serve occupare un suolo al sole o assicurarsi il godimento di un macchinario per estrarre i tesori economici della terra, se poi ciò che viene a perdersi è la serenità dell’animo, la pace della mente?

Dove, dunque, noi trarrem gli auspici?

Dal gorgo dell’accanimento, o dalla sorgente dell’armonia dell’universo?

Inizialmente, e solo apparentemente, intimistica, la progettualità della scrittrice si staglia sull’orizzonte degli umani destini, catapultata per forza obbligante: o la terra riscopre la logica della realizzazione interiore di sé e la assume a criterio discriminante, come fine unico e non già succedaneo, di ogni uomo e di tutti gli uomini, o continuerà a girare intorno a un perno di autodisgregazione, in cui le “illusioni” appaiono massive verità, mentre non sono altro che, appunto, “illusioni” che “credevamo vere”:

“Ci credevamo miracolosi / siamo stati solo / ‘degli sciocchi esseri mortali’ ” (L’attesa sul mio Gange).

Ma che cos’è che fa sperare in una gioia più grande, in un mondo più dolce e bello? Può essere mai che la speranza sia da porre nella dialettica degli interessi che scavano tombe per gli altri e le preparano per chi le scava a danno altrui? “Sciocchi esseri mortali”, siamo! È questa, forse, l’intelligenza umana? È questo il dono dei Celesti?

Occorre liberarsi, innanzi tutto, del proprio “bagaglio”: il nemico dell’uomo è dentro di lui.

L’immagine e lo specchio

La vita non è sogno.

Ma il sogno è la culla della vita.

Qualcuno ha scritto che i sogni a occhi aperti ci dicono ciò che non siamo: inganni intessuti dai nostri bisogni, ingigantiti a volte e distorti dal conflitto tra il cuore e il reale, dalla frustrazione generata dal “vero”.

I sogni onirici dicono ciò che noi siamo: nella profondità della psiche che la coscienza ha cercato di nascondersi e che premono tuttavia nel magma oggettivo dell’anima sommersa.

Per questo motivo riusciamo a riconoscerci a stento, dopo che, nel sonno, abbiamo sognato di noi.

Da svegli, in effetti, diventiamo un’altra «persona»: diventiamo ciò che «vogliamo». Non più quello che, nel profondo, noi siamo.

E a stento riusciamo a mettere i piedi per terra.

“Sogni […] / come ombre fluttuanti / che s’aggirano in un deserto / di sabbia dopo l’arsura”. (Sogni).

Ormai la luce ha spezzato il sogno: il desiderio soppianta l’inconscia pulsione:

“Sogni che spariscono e si dissolvono / […] / appena cerchi di raggiungerli / […] / Sogni della notte, dove tutto / è ombroso e impenetrabile / come foresta aggrovigliata / di fitto mistero, ma dove tutto / t’appare reale e vero. / Dove chiaro e scuro / s’intrecciano e si rincorrono / in un eterno gioco di luci e ombre” (Ibidem).

Tuttavia c’è sempre qualcosa, nel mondo, che ci rimanda alle nostre profondità più sincere e veraci: può essere la “furia del vento” (Furia del vent0). E non a caso.

Il vento sferzante è simbolo della forza del proprio profondo: lo sguardo, attonito, si appunta nel nero del cielo – e dell’animo – che il vento accumula minaccioso ed urlante.

Non bisogna aver paura del “nero”: bisogna “guardarlo”.

E fare i conti con lui.

Il nero non è il male.

Il nero è la parte di noi che vogliamo celare senza potercelo dire, ma è proprio quella parte di noi che può darci la spinta per ogni nostra resurrezione.

Si risorge soltanto dalla tomba.

La vita è in continua resurrezione, in perenne scoperta del mondo di sé.

Oppure non è vita. Ma apparenza. Finzione. Un ballo in maschera.

“Sconfinare all’infinito” (Attimi fuggenti) non esprime, perciò, soltanto una fuga dalla realtà conflittuale, una fuga dalla coscienza turbata –

“Vorrei librarmi con ali di vento / per sfuggire dalle insidie del mondo” (Ibidem) ;

esprime anche quel “viaggio” nell’infinito che è in noi e che ci mette a contatto con il “luminare” che è lo stesso io profondo:

“Oltrepassare spazi e confini / per ritrovare dei nuovi destini” (Ibidem).

Non è un viaggio facile, s’intende: occorre rifare a ritroso tutto il percorso della nostra esistenza. La gioventù!

Ripartire da lì: dalla “grande chimera” (Gioventù). Il tempo, certo, ce l’ha rapita: la gioventù è passata “come un lampo” (Ibidem); ma il sogno ce la ridona, trasfigurandola in un momento prezioso del presente.

Aurora del nostro futuro.

Il poeta ha questo privilegio – che è anche una condanna : sentire sempre, dentro di sé, “qualcosa d’incompiuto” (Sorte). E tendere alla completezza che la vita difficilmente può dare.

La poesia – l’arte in genere – è la forma consapevole, e in parte inconscia, del sognare. Essa non viene dalla mente: viene dalle profondità del proprio mondo interiore. Ciò che il poeta immagina d’intuito, e d’improvviso, è una porzione delle sue immensità. Che consuonano con quelle d’ogni essere: irradiare la propria vitalità nel mondo, e restare immortale.

“Se fossi un foglio, / vorrei essere di papiro / per non perdere col tempo / mai valore” (Quello che vorrei).

Aspirazione d’ogni essere mortale: che sa di dover morire, e sa di voler “esistere ancora” (Poeta).

Oggi. Ieri. Domani.

Per contro, il poeta – e in questo caso la poesia di Alfano – si snoda in un incalzare di attimi fuggenti nell’esperienza quotidiana.

Sono momenti che tutti viviamo, gesti che tutti facciamo; ma coglierli sotto il profilo della loro suggestione li rende più veri. Li rende più umani.

Questo punto di vista dell’autrice oltrepassa perciò il puro dato: le cose che la circondano rimandano ad una sensazione che coglie i rapporti tra le cose e chi le esperisce. Il vento sembra il pianto di un bambino (Il vento); la notte fa scoprire la “triste sconfitta della vita” (Notte insonne).

L’esperienza della “misera esistenza” (Notte insonne) esaspera il senso del tempo fugace: giustiziere – sembra – della vita che ci fu data come una rapina e che porta via con sé “la vita, l’amore, la gioia e il dolore” (Passa il tempo). Tutto!

Un segno del tempo, un segno inconfutabile – misura soggettiva più ancora di quanto lo sia sul piano oggettivo , sono le “rughe” dell’età che avanza (Lo specchio e l’anima). Che cosa passa nell’animo di un uomo, di una donna, quando s’incomincia a scorgere il documento fisico del cammino già percorso?

Gli anni anagrafici sono un “numero”; le rughe sono macigni che toccano la pelle.

Le rughe sono la nostra carne: e pesano sull’animo!

Francesca Alfano ha sentito il macigno. Ma lo esprime con leggerezza, riflessa nella scrittura melodica, quasi da filastrocca (Lo specchio e l’anima). Il verso è volutamente elementare, per significare che, sì, è vero: i capelli imbiancano; ma non bisogna esagerare nel dramma.

In fondo, siamo sempre quelli di ieri!

Ma, soprattutto, siamo ciò che saremo domani: dopo la vita «quaggiù».

La vita terrena è «condizionata», è incatenata.

Si può sentirsi affezionati alle catene? Anche una vita ulteriore, dopo quella attuale, se continuasse ad essere vita sulla terra, sarebbe di nuovo un’esistenza incarcerata (Luce astrale). È meglio pensare che il «dopo» sarà come la luce: eterna, impalpabile, estranea alle leggi del condizionamento; al contempo vagabonda e tranquilla, incorporea e sicura, soffusa ed eterna.

Questa visione luminosa tuttavia non sembra continuativa: a volte l’anima aspira a diventare “un essere puro / nella Luce dell’immortalità” (Luce astrale); a volte la morte rappresenta la “nullità assoluta / dell’essere stato” (Nascita e morte).

Ma non c’è contraddizione. Il nulla riguarda l’“essere stato”, riguarda il passato transitorio nel mondo (una “passeggiata”, Vagabonda); l’immortalità astrale è invece una nuova dimensione dell’esistenza futura (Puro spirito). È come il frutto che, scomparso e annientato, genera un’altra realtà.

Altra vita.

Il ricordo e la rifondazione dell’uomo

Il ritorno al passato, nella “notte / agonizzante” calpestando “sterpi che piangevano / rugiada”, avviene senza che sia trovato “alcun sentiero / conosciuto” (Schegge di passato).

Il ricordo è nella lontananza: avvicina le cose superate. Non è questione di ripensare a qualche brano di esistenza lontana e di dimenticarne qualche particolare: la lontananza è data dal superamento coscienziale di ciò che è in quanto è stato. L’uomo non vi si riconosce: il suo atteggiamento è mutato. Il mondo soggettivo è creato dalla propria percezione: solo l’io lo salva, così come l’io lo procrea e lo distrugge. Chiamiamolo «colore»: il senso coscienziale che l’uomo dà alle cose.

Il colore dà significato a una mano (I colori del ricordo), di volta in volta indaco, grigia, nera e poi scarlatta.

L’indaco esprime il fanciullesco – l’età vitale e primordiale che si effonde uniformemente fino agli invisibili orizzonti , la cui freschezza marina pare riflettersi “sulla piccola mano che raccoglieva / minuscoli sassi colorati / al limitare del mare […]”.

E di “mare” è il ricordo di quell’età che somiglia alla libellula libera e sana: di quando il ragazzino, in “una giornata di mare”, “aveva rubato da un muro / la gioia / che vi rifioriva”, la gioia di una piccola rosa che oggi l’adulto stringe sul “cuore ferito” (Come una libellula).

Il grigio indica il vissuto del giovane che si diverte a gettare, per gioco e con “arte”, “biglie colorate / in una strada di sassi”: scansonato e divertito, ma consapevole che il tempo sta oscurando la spensieratezza inconsapevole.

L’adulto si è misurato con l’esperienza della fine, ha già incontrato

“un corteo di mestizia / e di dolore in un sentiero / che attraversa un campo / con cippi graffiti di marmo / nero”:

la morte ha fissato il suo orizzonte futuro, dall’indecifrabile orizzonte oceanico, che col cielo e le stelle disegna un unico affresco, alla circonferenza la cui cifra è la fine della vita.

Ma al di là e al di qua della morte – della coscienza di essere e di non essere più , il colore che tinge l’anima è lo scarlatto violento: la mano che punisce l’altra mano “della perenne / rabbia e solitudine”.

Su tutto il passato si stende un velo dal “colore del rammarico” – come s’intitola una poesia. E qui fiorisce un altro concetto, all’apparenza incomprensibile:

“Le cose più belle sono / i ricordi / di fatti mai accaduti / di sogni mai sognati”.

È il ricordo di ciò che si è cercato ma invano; che, desiderato ma non conseguito, appartiene all’immaginario libidico; e allora non resta che il senso “di essere un escluso” dal reale. È come un sogno inseguito da una nuvola alta levata: il sogno è la “favola di ieri”, e quando esso va ad accostarsi troppo alla nuvola, la nuvola “scivola” verso “il turchese della pianura”, si riflette “in uno specchio d’acqua” tersissimo e genera due dimensioni del vissuto passato: l’una aderente al reale ma mobile come l’agitarsi dell’acqua; l’altra, inchiodata alla fantasia – garantita perché si autocrea , che mostra “volti sconosciuti e sfuggenti” (Una nuvola insegue un sogno).

Un’osservazione è subito d’obbligo: la dimensione della frustrazione, incuneata nella vita reale, è un problema che neppure la «memoria» risolve e discioglie, nonostante essa abbia il potere di cambiare i connotati delle cose più massive e oggettive; tuttavia ciò che interessa non sono i dettagli della realtà come fotografie in un album. L’importante è ricomporre e ricreare il passato – “in tenui colori rappresi” – con un sentimento che ad esso dia senso rinnovato e riprogetti un futuro da mettere al mondo (Un sogno ad acquerello).

Ma anche se il futuro è “senza senso e senza scopo” e l’epilogo appare un “vuoto a rendere” – fragilità d’esistere da restituire alla sorte , il ricordo rappresenta la misura del cambiamento (Specchio delle mie brame). Può addirittura creare “l’irrealizzabile / di un ipotetico futuro”. Non è un paradosso, per la potente immaginazione della mente inconscia. Il poeta è una porta aperta in cui passano le realtà più impensate che sfuggono alla ragione dalle idee chiare e distinte: idee che valgono solo per i giochi della società (Come un uscio).

Per la poesia, lo strumento del sogno – rifondazione del passato e della vita – è la parola.

La parola – lo diceva già Gabriele d’Annunzio – ricrea la realtà: quelle parole che sono nascoste “sul fondo di tenebrosi / labirinti mentali” e che – partorite dall’inconscio – sono luci

“che accendono le speranze / e spengono la solitudine / che accendono i ricordi / e spengono le angosce / che accendono la voluttà / e spengono le incognite”,

e fanno, così, riaffiorare dall’irrazionale il senso esistenziale del proprio essere.

Sono la verità della consapevolezza di ciò che si è nel proprio profondo insondato.

Vediamo alcuni punti del riscoperto passato nel mutato atteggiamento presente. Non mi soffermo su alcune figure, per quanto importanti, quali il padre o la donna; traccio invece le dinamiche generali di questa «memoria». Uno dei momenti più nitidi è il tempo in cui si è in attesa del proprio futuro (Inverno 1954):

“Era come restare seduto nell’anticamera / del Limbo in attesa che il tuo nome / – scandito dai rintocchi del mare – / emergesse dal nulla […]”.

È allora che “capimmo che la recita era ormai / cominciata […]”.

La coscienza del passato si fa poi drammatica quando evidenzia il contrasto con il tempo presente:

“Ho già perso il cuore: non sono / che un pupazzo colorato che perde / brandelli di stoffa e di sogni / ad ogni procedere forzato” (Ho visto volar via la Fenice).

La contrapposizione tra le condizioni mutate del tempo conduce ad una ansiosa ricerca di tenere i fili perduti, con un senso di depressione che rasenta il rifiuto:

“Ho gettato lontano da me – oltre i ricordi – / i quarzi […] / […] che avevo confuso / con la pietra filosofale. / Sono rimasto con un corpo di pezza”.

E ad un certo momento appare un po’, nella vita, un “giorno / di inutile attesa”, mentre il sole, che sorge ogni giorno, lancia sprazzi di luce su attimi che sfuggono e che ci lasciano

“sempre più poveri / a mendicare / una carezza / come cani randagi” (Una traccia d’argento).

Il bilancio è desolante:

“Io sono quello che / andava cercando pace / e mi sono trovato tra le mani / selci appuntite”, che sognava amicizia e ha trovato “groviglio / di serpi” (Un graffito 1981).

In questa sensazione di scacco esistenziale, la funzione del ricordo si traduce in quella del sogno che cerca di riconquistare le spiagge del “feto racchiuso / nel suo statico Limbo” (Il rifugio dei sogni).

La poesia – come obiettivazione lirica del sogno – assume questo significato psicologico.

La letteratura ne è, quasi tutta, un esempio: non solo nella evidente ricerca del «nido» – secondo l’espressione di Giorgio Bàrberi Squarotti –, per il Pascoli; né solo per un Leopardi che nel sogno d’amore realizzava l’irrealizzato; anche per Petrarca, che fissò in un mondo infrangibile, eterno la sua amata sfuggente o temuta perduta; per un Ariosto, che nel fantasmatico giocò a sfuggire all’opprimente contatto col mondo reale; e per Dante, che ritrovava Beatrice nel seno infinito e immutabile del paradiso terrestre e celeste.

La poesia, infatti, sganciata dalle remore reali, e obliate le barriere del mondo esteriore, permette ai bisogni di liberarsi e sgorare in libertà incontrollata. Come nel processo onirico.

“E riuscivo ad evadere da qualsiasi realtà / fastidiosa o solamente noiosa. / […]. / La mia fantasia / contro tutto ciò che mi opprimeva / e mi imprigionava serrando / angosciose manette […]” (Il rifugio dei sogni).

L’evasione – che però non è semplice regresso alla fase fetale ma anche riscoperta di vita più personale – sembra tanto più facile in quanto la vita sia stata tutta una fuga: vissuta in superficie, dentro una maschera che nasconde l’allontanamento da sé. La quasifavola C’era una volta un ragazzo… lo dichiara a piena voce: quel ragazzo

“che nascondeva tra le risate / […] / una tremenda solitudine interiore”, “E quando cambiava la donna / […] / lo faceva / come se dovesse scegliere / un film”.

Non era vana superficialità, ma atteggiamento di radicato e radicale superamento di sé, nello scontento, in parte introverso, in parte propulsivo.

L’autogratificazione, condotta sul filo dell’esasperata insoddisfazione di sé, conduce alla consapevolezza matura, al superamento delle posizioni primarie verso un’esigenza che potrà essere relazionale o, ancora, immaginaria fino all’autodistruzione:

“Si accorse che la vita / vissuta alla Dorian Gray / era persino noiosa / e monotona”, tanto “che un giorno se ne andò. / Spense la luce / e distrusse il suo Creato. / Girò l’interruttore della vita / e tutto il misero mondo / sparì nelle tenebre”.

L’esito è la cancellazione dell’esistenza insidiata dal tarlo della fugacità e della fallacia, ma la conclusione finale è in questi versi:

“E restò solo / nel buio. / A urlare la sua angoscia / fuori dal tempo / e dallo spazio”.

Potrebbe sembrare la fine dell’interrelazione con l’esterno. Ma la potenza d’un poeta ha questo di straordinario: tra i miraggi solitari del deserto riesce a condursi ad un pozzo che lo collega alle verità della terra e, quando l’età ha disilluso ogni illusione, può ricrearsi “una vita” (Disgregazione).

Anche i ricordi «storici» segnano la mente poetica. Così è per l’incontro a Bordighera tra Mussolini e Franco, rivisitato con gli occhi da adulto ma riflettenti quelli del fanciullo di allora: “Una data di una Storia fatta / e concepita da uomini fotografati / sempre a mezzo busto o su / un cavallo, brandendo una spada”.

Così gli uomini entrano nei libri di storia. Ma per il bambino anche quell’episodio diventa la ricerca della propria libertà di esistere (Scatola cinese sei–“libertà va cercando”).

Ed ecco arrivati al nocciolo della questione che sta alla radice della tensione vitale del poeta e che ha interessato non solo molti scrittori, ma anche studiosi della psiche.

Si può sintetizzare dicendo che la Storia è il luogo deputato e consacrato alla libido di possesso; la sfera dei sentimenti è invece il mondo in cui, nella tragicità dell’autocoscienza, l’uomo si costituisce come soggetto.

L’idea del brano poetico Scatola cinese sei – “libertà va cercando è sviluppata in una lunga composizione in cui è dichiarata l’inesistenza del presente: il «presente» inteso come infanzia, libertà di sognare l’originario e la purezza, di vivere la propria natura non contaminata dal prevalere della volontà di potenza e di possesso (dell’avere in luogo dell’essere).

Già il Leopardi del canto Alla primavera o delle favole antiche si esprimeva in questi termini: “Vissero i fiori e l’erbe, / Vissero i boschi un dì”, ecc. La ragione ha creato la civiltà razionalista, e la civiltà ha sviluppato a dismisura la ragione deprimendo l’istinto.

Chi sogna più la “favola bella” del d’Annunzio di La pioggia nel pineto? Pochi. Chi è capace di pensare ad altro che al nostro «benessere», o meglio «benavere»? La Storia – con gli uomini che la guidano da millenni – ci ha pensato molto: e ha cambiato le lance e le spade con la bomba atomica. Per il nostro benessere!

Qui, però, vorrei seguire il discorso non sul terribile possibile futuro della terra, ma sulla dinamica di fondo. Privilegiare il possesso delle cose non dipende da altro che dal privilegiare l’attività razionale rispetto a quella affettiva. Lo ha detto già Nietzsche: con il prevalere dell’atteggiamento apollineo – da Socrate per passare a Platone, ad Aristotele e a tutto l’intellettualismo occidentale , l’importanza dell’Utile ha fatto trascurare l’inutile, l’istintuale, il sentimentale:

“Il presente non esiste più. / Come non esiste più la speranza. / Come non esiste più l’amore” (Il presente non esiste).

Il problema non sta nel progresso scientifico ma, alla base, nel progetto esistenziale – per dirla con Sartre – che ha scelto la ragione a sola guida dell’organizzazione del mondo. Ma la ragione, senza che sia dato altrettanto spazio all’emotività e alla sensibilità, genera il mostro.

Oggi l’uomo è mostruoso.

La sua natura è stata già adulterata: la ragione è surcresciuata a danno dei sentimenti originari.

E perciò ha potuto uccidere i suoi simili in nome di ideali.

Il Tempo e la verità

La poesia di Barbieri è soffusa di “nostalgia, con una vis malinconica caratteristica”, prossima alla “tematica crepuscolare, con immagini quotidiane semplici e quasi dimesse, con un’ansia e un’inquietudine non prive, talvolta, di componenti d’ordine sessuale” (Mario Conti), in tensione tra autoesclusione e sogno, rimembranze evocatrici e ansia esistenziale proiettata in un futuro possibile e improbabile, tra autobiografico pressante e senso epocale del tempo.

Tuttavia la récherche del Barbieri, che pur cerca di agguantare la fuga irreparabile del tempo, travalica l’orizzonte del recupero. Nelle pieghe dell’immaginazione – sul fuggente passatopresente – scorgo una trascendenza concettuale e una polivalenza segnica. La sua parola rimanda a un universo metafisico, ulteriore rispetto all’immaginabile e al realizzabile, che l’intuizione svela e racchiude al contempo. È una poesia del reale che è tutta surreale: trascrive una dimensione onirica e incoscia assoluta, irraggiungibile dalla logica discorsiva. Prendiamo i versi, all’apparenza scontati, di dedica della raccolta presente:

“E quell’attimo in più sarebbe / stata l’eternità / di una vecchia che si aggrappava / ad una giovane vita”.

Qui c’è la metafisica esistenziale della coscienza legata al tempo. Certo: è normale che il morente cerchi con gli occhi il sole, come disse Foscolo. Ma la forza semantica, che discende dall’accostamento delle espressioni, rende identificate la giovinezza e la vecchiaia, quasi che, dialetticamente, la vita giovane non esista senza la mortalità e la mortalità sia vana senza la giovinezza.

Il Tempo resta il filo conduttore della raccolta. Ma è un Tempo che porta all’uomo la pena di vedersi così diverso da quando era fanciullo.

Il vento del Tempo è dunque di gelo (Sogno uno), il passato diventa un sogno, come quando si sogna di essere tornati bambini (Ibidem). Ma non ci si riconosce più: quando si hanno ormai “occhi / spenti / di chi non sa più / sognare” (Tram uno).

E il Tempo lascia inesorabile la sua “polvere” su ogni uomo (L’altra faccia della luna).

Così, del passato – che diventa quasi irrealtà come i sogni irrealizzati – non resta che “l’odore di polvere” (Il pulviscolo dorato).

Il Tempo è insieme fuga – anche l’attimo appena passato “è morto” e “non tornerà mai più” (Il guerriero) – e stasi: scorrimento d’un fiume gelato. Non resta che spargere

“[…] polline di sogni / sopra lo stagno gelido / che imprigiona il nostro / Tempo” (Gli ultimi aquiloni).

Il Tempo è anche prigionia: altra immagine che svela come esso non permetta più il sogno e incateni a una fattualità irreversibile. Il Tempo ha anche imprigionato “[…] la collina / dove volano gli ultimi aquiloni” (Gli ultimi aquiloni),

“in quella piccola pozzanghera / dove si specchia / il primo arcobaleno / dei miei nuovi voli / verso l’eternità / ed il sole» (L’inverno è finito).

Il conflitto tra Tempo e fanciullezza è reso radicale nel momento in cui il secondo termine del contrasto assume i caratteri dell’eternità infinita, e “anche le stelle avevano / un profumo d’infinito” (Il profumo della nostra gioventù).

È un’eternità coscienziale che si riassume nell’indefinibile senso di libertà e capacità di sognare, come in un cosmo dal “pulviscolo dorato”. La memoria – o la memoria poetica? – ha la funzione di immortalare il passato, fissare il pulviscolo come in una fotografia che fa rivivere il gesto, anche quando la foto è ingiallita: “Può essere che il tempo da allora / sia passato”, ma…

“Ma io per voi [per mamma e papà] l’ho fermato / in quell’attimo[…]. / E’ tutto fermo ancora così / e le parole dette allora / sono rimaste rapprese nell’aria” (La vigna).

Non credo si tratti del concetto della poesia eternatrice, di foscoliana memoria, che sconfigge il Tempo con la «divina» facoltà di tradurre in arte – in un iperuranico simile a quello delle Grazie – le contingenze travolte dalla fuggitiva materialità delle cose. Credo che la dinamica di fondo consista essenzialmente nel bisogno di recuperare e di fissare se stesso nell’immagine di quella prima – e verde – età la cui essenza è il sognare:

“Ma tu […] / come hai fatto a dimenticare / sole luna e stelle / ed il vento della tua giovinezza…?” (Ultima dedica ad un amico).

Emblematica è una lirica in cui il Tempo, oltre a configurarsi come vento che seppellisce il passato, è rappresentato in opposizione a quell’eterno sole che ha indorato le strade “della nostra gioventù / favolosa”; e qui si vede bene che il ricordo è un gran bel sogno, nell’edenica visione di prati, boschi, verde, cieli, in un totale abbandono

“[…] nel grembo / della natura / ancora amica e madre» (Ho udito la voce del vento).

Ecco il vero significato del ricordo: tornare nel grembo. Restare fanciullo (Cristalli sognanti), rimanere ragazzo col “sole negli occhi” e “gli occhi pieni di stelle” che

“illuminavano i miei desideri / accovacciati / in piccole buche scavate / in sabbia tiepida di mare» (Due occhi pieni di stelle).

E anche quando “resta un uomo solo con se stesso” e con “un pensiero” sbiadito,

“Resta un uomo ancora ragazzo / che attende nascere”

quel sole, quel mare, la spiaggia, e quella panchina, di quando era ragazzo… (Panchina due).

A volte il ricordo è di piccole cose della quotidiana esperienza, che s’infrange contro la dura realtà del presente: ed è il «tum / di un vecchio cuore / stanco» (Suoni del passato).

A volte predomina l’atmosfera del passato in bilico tra l’onirico e il fantasmatico, il surreale e l’immaginifico realistico. Irrompente è Il profumo della nostra gioventù: in cui i vent’anni rispecchiano l’io negli occhi dell’altra. Fantasia di camminare sotto la guida della complice luna – lungo un sentiero di ulivi che conduce sempre in cima a una collina : ma in cui non è la luna a svolgere il classico ruolo di pronuba.

Qui è l’“ombra” della donna a stimolare – così appare – la giovinezza che “aspira la grazia” di una lei “dagli occhi pieni di bagliori”.

E proprio questo è significativo, per decifrare il contenuto del «ricordo»: importante non è lei – né la luna, sia pur solidale. Né importante è il “vestito di cotone” che l’ombra riveste; né il nome né il volto di lei – anch’essi furtivi come l’ombra. Importante è la funzione veicolare della donna: “nei tuoi occhi nascosti”, ella resta il mezzo attraverso il quale l’autore guarda il firmamento sconfinato e si mette a “contar le stelle”.

È la dimensione nella quale esiste soltanto il fantasma – che non è l’illusione e neppure il semplice oggetto della mente fantasticante, ma è il reale come trascendenza dalle delimitazioni fisiche e temporali : e per la quale, di conseguenza, il Tempo e lo Spazio, che circoscrivono l’esperienza presente, diventa la fossa della vera esistenza.

Il presente è un presente di “escluso”. Il Barbieri vi insiste, traducendo la solitudine nell’inutile attesa di una telefonata (Capodanno 1988). E soltanto a una condizione è possibile uscirne: se sboccia la tensione immaginativa verso gli orizzonti della libertà infinita, in un impulso di onnipotenza (Lo stupore della libertà). Onnipotenza creatrice:

“La mia superbia e la mia libertà / vogliono aprire quel quarto orizzonte / e ritrovarsi dove la vita / inizia e finisce. / Dove sta nascendo un nuovo sole / che creerà rossi pianeti / […] / di candidi speranze / e sfolgoranti sogni” (Le stanze del tempo).

La libertà appare di nuovo quella di “sognare”: un mondo di pulsioni che hanno creato “labirinti” in cui l’uomo cerca se stesso; ma senza trovarsi (Scrivevo per gioco). E senza trovare nessuno: gli uomini sono tutti scomparsi. Resta soltanto il soggetto che sogna: anzi, resta soltanto il sognare, “i suoi ricordi / e la sua fantasia” (Il superstite).

Perciò, quando non s’è più capaci di sognare, resta niente:

“Sto scomparendo a me stesso” (Il vento mi sta soffiando come polvere).

Il sogno, dunque, è in realtà un sogno che sogna se stesso.

L’autore ne è consapevole: ciò che impedisce di vivere non è il mondo esterno – anche se la realtà è, in effetti, costituita di automobili metalliche, smog, cemento e luci annoiate delle televisioni ; è il mondo interiore, che a un certo momento si arrende di fronte al sognare labirintico e solitario (Ieri guardavo fuori da una finestra) e alza “bandiera bianca”, come nell’omonima poesia. Il limite dell’uomo è dunque se stesso: quando la mente diventa una “stanza dei giochi” nella quale “seppellire i miei sgomenti / e le mie paure”, quando la mente diventa l’orizzonte conclusivo che si slarga in libertà di “tutti i colori dello spettro”, ma in una libertà circoscritta, ripetitiva – il cui nucleo interno è “solo un grande blocco di ghiaccio” (Epilogo 1988):

“Mi sono annoiato di me / e dei miei riti ripetitivi per evocare / un passato favoloso. / Mi sono stancato di me e del vuoto / che trovo quando cerco / di immaginare un domani” (La stanza dei giochi).

Il contrasto tra passato e presente si slarga sull’orizzonte della storia, ma anche in questo caso il passato, pur tragico, si ricompone in un affresco la cui sinopia è meno nera del presente. Era il tempo della guerra, che ha trasformato in rifugi le cantine; era il tempo dell’odio, del razzismo, del mito del condottiero, che ha spezzato i sogni della fantastia. Ma al confronto la vita dell’oggi sembra ancora più tragica: tra il corrompersi dell’unità famigliare e dell’amicizia (Orizzonti).

Nel confronto tra un’epoca di stenti – quella della seconda guerra mondiale – e una d’opulenza (“Ora c’è tutto”), la differenza emerge nello smacco umano della perdita di sentimenti.

La stessa povertà d’un tempo perde ogni connotato di dolore, alla luce della travolgente attualità che sembra aver lacerato non solo lo stanco cuore ma anche la stanca storia (Un giorno speciale).

Da qui, la nostalgia del passato: come si fa a non vedere più bello – reso libero e roseo dagli occhi rattristati dell’oggi – il tempo in cui si credeva alla vita (Le luci del passato)? Il tempo in cui l’uomo, pascolianamente fanciullino, vedeva i colori, nella natura, di cui ormai quasi nessuno s’accorge (Neve uno)?

Alla fine l’autore traccia un proprio ritratto d’uomo e di poeta: allo specchio. Guarda se stesso, e dentro se stesso, come sdoppiato da un riflesso che lo oggetivizza. E ripercorre, come lungo una scia già percorsa, la propria personalità profonda, la propria estraneità rispetto ad un mondo che né lo affascina né lo imprigiona.

E ne scaturisce una piccola storia d’un’anima.

Il panorama esistenziale dello “strano poeta” – tale egli si definisce – si conclude in una precisa consapevolezza di “elezione”: nell’idea dell’“eletto”. Il concetto rimanda a d’Annunzio: inesausta appercezione dei «colori» del mondo e della vita, attraverso la sensorialità squisitamente raffinata. Tuttavia, ritengo che il Barbieri differisca da d’Annunzio per un simbolismo in più che la sua poesia racchiude.

Barbieri corre spesso sul filo che congiunge il reale al surreale, il biografico all’immaginario onirico. Per questo motivo, alcune sue percezioni perdono lo spessore estetizzante di d’Annunzio e ottengono significanza metafisica. Ad esempio, l’immaginario di nuovi mondi e di nuova vita – in cui sembra che l’intuizione poetica attenti al mistero – non deriva dalla sensibilità affilata nel contatto con l’io naturaristizzato, ma dalla precomprensione simpatica – in senso etimologico – con la realtà trascendente. Sul piano espressivo ne consegue una scrittura che molte volte non indulge all’estetismo. E proprio ciò, credo, aveva forse in mente l’autore nel suo ritratto allo specchio: la coscienza che un poeta può scoprire negli abissi inafferrabili della propria turbolenza le tracce cosmiche della verità dell’individuo e dell’essere.

E ciò è entrare nella sfera metafisica della poesia.

Per una breve eternità

Nell’immagine della morte c’è tutta la sua passione per la vita: protagonista delle poesie è la vita, l’amore per questa povera breve esistenza. Ma la misura di quest’amore, imperioso, travolgente è data dalla “presenza” proprio della morte.

La morte è appena oltre un cancello mal custodito.

Te la vedi lì accanto, lungo una corsia d’ospedale, buttata sui letti, tutti i giorni rifatti perché non sembri che giunga improvvisa; te la trovi sul tuo letto di pianto, mentre la tua «anima» cerca di conciliarti con lei, insinuando le dolci parole che preparano al trapasso ad una vita migliore.

Non sembra che ci sia alcun sentiero d’ombra in cui buttarsi, furtivi, per nasconderle il volto.

Forse, la morte potrebbe venire addirittura agognata: le cause della morte possono essere state solo l’oggettivazione di un desiderio, la pietrificazione d’un abbandono irreversibile...

Per il poeta, la morte, invece, fatica.

Sull’orlo della fine, egli ha passato una notte sognata “ad occhi aperti per tutto / l’arco della luna nel cielo” (Breve eternità).

La luna, lenta, percorreva il suo corso che sembrava diventato immobile: fissi, gli occhi proiettavano nel cielo la lenta agonia del proprio corpo, quand’ecco, come un pargolo che sbuca non si sa da dove – e non si sa perché ,

“il bagliore di un giovane / sole che gioca con le tende di una finestra” (Ibidem).

La vita è rubata alla morte.

Non è stato l’effetto di farmaci “miracolosi”: è stata la speranza, a strappare una fugace eternità alla tirannia del tempo che corre verso il nulla.

E “sorrido di gioia / alla vita (Ibidem).

Ognuno ha le sue debolezze; e a volte la morte, vicina, può indurre a gesti che riesumano, inconsci, quelli imparati da bimbi: nell’allucinata attesa in una corsia d’ospedale –

giornate trascorse “inutilmente”! (L’esorcista) ,

nella solitudine rarefatta d’una domenica vuota di festa, quando il crepitio di una cassapanca, nel buio d’un irreale silenzio, immette in una “paura infantile” percorsa da brividi di morte, inconsapevole s’alza la mano, “pronta ad un segno di croce” (Ibidem).

Ma non è questo il gesto che trattiene il poeta sul limitare di Dite: non è questa la sua àncora che, esorcizzando la morte, tenta di affondare e affidare la vita, che se ne va, in una vita che deve venire.

Oltre il cancello indifeso ci sarà, certo, un “mondo parallelo”.

O forse no? Ma se c’è un altro cancello, anche quello è di un “altro cimitero”.

L’“altra dimensione”, dunque, quella “di là”, è lastricata di silenzi come questa “di qua”: forgiata in parallelo a questa “di qua”, che ogni giorno ci abbacina con la sua protesta di vita e con la sua promessa di morte (Un cancello sull’infinito). Le “orme” che portano “oltre l’invisibile” vanno anch’esse, dunque, al nulla eterno? (Orme oltre l’invisibile).

Il Foscolo invocava la voce dei poeti: quella voce di musa eternante che contrasta il rovinare del tempo e delle cose e s’oppone all’oblio che involve nella sua notte anche le estreme sembianze e le reliquie della terra e del cielo; o auspicava almeno il pianto dei cari, che soccorre all’umano grido che ci trattenga al di qua del buio e del silenzio: così che l’estinto viva con l’amico, e l’amico con lui. Barbieri non ci crede.

La vita è una partita solitaria.

Anche il cane può morire prima di te: l’unico essere che ha aspettato, finché è morto, che tu tornassi da una corsia d’ospedale dove ogni giorno passeggiava la morte, e la morte ogni notte.

È con terrore che si scopre di essere soli: ma lo si scopre, tuttavia!

Una legge del cosmo? Può darsi.

Una legge della vita? Può darsi.

Una legge del caso? Può darsi.

O è un caso senza legge?

Fatto sta che ad un certo momento può capitare a tutti, o può capitare a qualcuno, di provare la sensazione così espressa da una “piccola conchiglia”:

“il creato / l’aveva abbandonata / alla sua solitudine” (Scatola cinese due: “la piccola conchiglia”).

Non c’è da fare troppo assegnamento sull’organigramma dello stesso universo: se all’origine della “creazione” vigeva il principio dell’impulso vitale, se all’inizio l’“innocenza” consisteva – come nella vita del singolo – nell’apertura alla vita, nel tendere a nuove scoperte, nello spingersi avanti, nel “credere” che verrà qualche cosa di nuovo, poi la regola sembra essere la consumazione, la consunzione, la stasi mortale.

E allora l’uomo crede soltanto alla morte, acquattato

“in un angolo / interno della mente” (Scatola cinese uno: la “Porta del Passato”).

Per Barbieri l’antidoto alla morte è immanente al pensiero: la mente ha il potere di fermare il tempo.

Quale tempo?

Non il presente, impregnato di fuga: già i capelli tradiscono dove l’oggi sta andando! Rendersi conto di esistere assomiglia al momento in cui uno, sparatosi un colpo alla nuca senza sapere che il revolver era scarico, per un attimo si chiede se è morto! È come una “lotteria”, il risveglio. La mattina ti chiedi: sono vivo davvero?

E il futuro? Che cosa c’è nel futuro, a cui aspirare dicendo: questo sarà vero senz’altro? Oggi, sì, cammini: ma

“dopo che avrò camminato / sulla polvere dei miei sogni / che orme potrò lasciare / nel buio del futuro?” (Dedicato a Pavese).

D’altronde, il tempo passa.

Questa consapevolezza incontestabile rappresenta nell’opera di Barbieri l’essenza dell’ispirazione poetica nel suo aspetto di negazione.

La vita è illusoria.

O meglio, è un gioco, è “tutto un gioco” (Un guerriero antico).

Si gioca con chi, con che cosa?

Col tempo, per l’appunto.

Ma è un gioco beffardo: già si sa chi vincerà. E chi perderà è colui che a questo gioco non vuole starci!

È dunque il tempo, il padrone. Il quale non solo è sempre vincente, ma è anche così tiranno che non permette che non si giochi con lui!

Ripensi agli amici di un tempo, ripensi a tua madre, ripensi alle cose care che ti sono passate vicino, e scopri dappertutto, sui volti e sulle superfici degli alberi, tra le mani e nel cuore, perfino tra le carte che hai tenuto in un cassetto per decenni,

“il passaggio / di una signora vestita / di nero” (Undici amici).

Dunque, il gioco è malvagio: perché “illude”.

Non è l’illusione per cui qualcosa appare vera, mentre non lo è. È l’inganno per cui ciò che era vero resta, sì, vero, ma ingoiato dal tempo: un “vero perduto”.

La natura, in effetti, crea tutto ciò che realmente può promettere felicità, e la elargisce anche, ma poi

“ti uccide con le spine / dei suoi fiori più belli” (La ragazza dell’aquilone).

Il momento in cui il positivo era un “vero” è il momento in cui “Esisteva sempre il / domani”, quel domani offerto all’umana immaginazione per

“attendere che il nostro / sogno più bello / ci passasse accanto” (Undici amici).

Grazie a questa «immaginazione», il bene c’è; ma qui occorre dire di quel fortunato momento in cui il bene è un “vero”: è il tempo della “innocenza”, è il tempo in cui

“si credeva / nella vita. / E si chiedeva tutto / alla vita” (Nel nostro castello dei sogni).

Fermare il tempo consiste dunque nel ritornare a quella condizione esistenziale privilegiata.

Con il ricordo.

Poter tornare al “passato” è la forza che tiene in vita l’uomo e gli permette di opporsi al richiamo della morte. Come a dire: finché posso ricordare, non posso morire. E alla morte ribatte:

“ho gli occhi / che ancora vivono / nel passato” (Anima mia).

Qui non è questione del ritorno – in pratica, alla fanciullezza – nel senso di una riconquista esistenziale delle condizioni interiori del fanciullo. La riappropriazione della fanciullezza è “in memoria”, semplicemente; ma grazie alla memoria il “tempo perduto” diventa “il più favoloso istante” del corso della storia individuale.

“Come faccio a capirti / Anima mia / quando mi chiedi di restare / immobile / ad attendere un premio / di nulla?”,

appunto il premio dell’«al di là».

“Devo seguire il corso di stelle / ormai spente / e ricordare – assieme a te – / il tempo perduto / che fu il più favoloso istante / che io abbia mai / vissuto” (Ibidem).

Da ciò, nasce una scrittura quasi prosaica, un registro descrittivo: come se l’autore non voglia perdere nulla del passato, neppure i contorni particolareggiati, le memorie della quotidianità.

Da ciò, ancora, deriva un approccio alla realtà che non ha da guardare avanti a sé, ma solo da investigare nei “sogni” collocabili al tempo dell’innocenza: e anche ciò è un “sogno”.

La poesia diventa così un “cammino a ritroso nel tempo”, come il titolo di una lirica enuncia. Più precisamente, è un inseguimento, a volte feroce, a volte dolente, di “quel bambino fiducioso che ero” (Ieri bevevamo... ma oggi?).

In questo contesto si nota il ricordo di amici o della madre, ma soprattutto si ripropone il tema della collina e del fiore rosso: emblemi delle esperienze di gioventù.

Ecco una plastica descrizione del cammino a ritroso di questo “vecchio”, ormai “stanco di tutto”:

“salirà stanco ed esausto / sulla collina degli ulivi / che sovrasta il deserto / lastricato di buone intenzioni / disseccate al sole. / Il vecchio camminerà un poco / per quei vecchi sentieri / su quelle ripe scoscese / […] / e fisserà in alto / la nuvola bianca / che ha inseguito per anni / senza raggiungerla. / E ricorderà che è passato / tanto tanto tempo / da quando attendeva / immobile e sognante / una ipotetica / irreale / sfolgorante apparizione / dal profumo di donna / […]” (Quelli che cavalcano le nuvole).

Ma proprio a questo punto scopriamo che l’operazione di fermare il tempo, di respingere la morte, di crearsi una, sia pur breve, “eternità”, rivela i suoi limiti e dimostra quanto grave sia il pedaggio da pagare.

Innanzitutto, questa è una rivisitazione che “incastra” in una nostalgia di parole:

“In quella montagna di parole / […] / il vecchio bambino si è incastrato / con la sua nuova arca ricolma / solo di ricordi, di nostalgie, […]” (Requiem per un poeta).

A che serve riandare indietro con la penna che insegue il tempo perduto, come un vecchio, in sogno, segue, divertito, l’ombra di aquilone?

La risposta è implacabile, nel denunciare l’inutilità di ogni tentativo di contrastare il fato:

“Stanchi e ripetitivi sogni di un passato / che ritorna con i suoi ricordi / acuminati e contorti”.

E poi c’è il radicale problema della fenomenologia del rivissuto. Per quanto si voglia sprofondare nell’esperienza esistenziale del passato, il passato non può essere rivissuto secondo lo stato d’animo di allora, perché esso è percepito secondo quello di oggi. Dunque, ritornare “bambino” è impossibile, per mezzo del ricordo.

Ne è una prova, fra le più interessanti perché tra le più sottili, la descrizione di quello che era l’impulso alla vita quando si era fanciulli. I ragazzi giocavano in un castello abbandonato, vi entravano quasi furtivi come a scoprire nuovi mondi,

“e i nostri occhi / ridevano / l’illusione d’eternità” (Nel nostro castello di sogni).

I fanciulli tentano di fermare il tempo, di dare una “eternità” al loro momento, al loro gaudio, e ne fissano sui muri, in qualche angolo, in un pezzo di vita e di mondo, un frammento: per ritrovare, un giorno, tra le rughe dell’età,

“intatti / i nostri fiori / con il loro antico / profumo di gioventù” (Ibidem).

Orbene: il bisogno di obiettivare la vita, per un’illusione di eternità che serva a vivere quando si sarà vecchi, è un’esigenza di quando si è vecchi, non di quando si era ragazzi. Il fanciullo agisce d’istinto: sarà poi il vecchio a considerare che l’immensa, prorompente speranza nella vita e la tensione verso la felicità è legata alla nostra “capacità di immaginazione / e di sogno” (Ibidem). Ed è l’adulto che, constatata la delusione della speranza, deduce che l’immaginazione è anch’essa ingannevole.

Ciò non toglie che le raffigurazioni immaginifiche dell’età innocente riescano, spesso, piene di dolce fascino.

Ma la coscienza dell’oggi, pur nel dolce rimembrare, rimane inesorabile a segnalare il potere del tempo che corrode tutto: anche l’incoscienza del fanciullo... Così il poeta riflette sulla sorte impietosa dell’umana specie, contro la quale s’accanisce, “ladro e assassino”, il fuggir della vita... e alla quale il tempo non accorda che

“pochi attimi di falsa eternità” (Ibidem).

Il ricordo diventa, allora, semplice nostalgia per quell’arco di vita privilegiato nel quale l’“eternità” è, benché falsa, possibile. L’aquilone così assume il colore di un

“pallido ricordo / di un pulviscolo bianco / che smuove le piume candide / della nostalgia” (Ibidem).

L’autore, però, ha piena consapevolezza delle due dimensioni esistenziali: quella giovanile, innocente e (quasi) pura, e quella adulta, desolata e (quasi) disperata.

“La ragazza della fonte / scende sinuosa la scalinata / […] / scende altera a piedi nudi / sospesa in un velario di sole. /[…] / Nei suoi occhi brillano / acque terse […] / […]. / Son tornato al paese dopo / […] / […] anni. / […] / […] un / vestito […] / […] copriva ben poco / di quel povero corpo / in sfacelo. / Scendeva ansimando / la scalinata. / […] / Quando barcollando / risalì le pietre e l’erba / […] / il mio orrore non aveva limiti” (La ragazza di Garcia”).

Sembra che la lezione di questa raccolta si assommi nell’orrore per il tempo che distrugge non solo le speranze, ma, con le speranze, anche le fattezze. Il corpo e la mente, le mani e il cuore, i capelli e il passo che incespica: tutto è travolto. Che resta?

“Solo un vestito lercio restava / del passato / della ragazza della fonte” (Ibidem).

La conclusione, che potrebbe apparire serena nella sua obiettività, trapassa in una considerazione estensiva, anch’essa reale come la pietra:

“Ecco che cos’è la gioventù se non / tante promesse / tanti sogni / che naufragano impietosi / nell’immenso mare di un / futuro in decomposizione” (Ibidem).

Si comprendono allora le definizioni della vita: “desolata rassegnazione” (Requiem per un poeta), in cui il sintagma sta a connotare non accettazione attiva, ma passiva constatazione di ciò che la realtà è. Fragile nella sua epoca d’innocenza, problematica nella riappropriazione del passato, dura nella consapevolezza del presente, la vita è un pupazzo “di cartapesta” (Una vela bianca). Meglio ancora: “infernale” (Ieri bevevamo... ma oggi?).

Da qui, la prospettiva si allarga al cosmo: ogni cosa partecipa della medesima legge di consumazione e consunzione.

C’è una fantasmatica visione che ricalca la cosmogonia non della formazione dell’universo, ma della sua distruzione (Lo stupore della fine). La lirica che sembra meglio conchiudere l’universale meccanismo che coniuga mondo e mente in un unico gioco a perdere, è Dove nascono i sogni. Vi è immaginificamente presentificato il luogo oltre il tempo, dove è l’inizio e la fine, dove si concentra e al contempo si consuma il tempo. Il colore verde dà la sensazione di uno scenario extraterrestre, e il panorama emotivo è l’urlo che consuona di disperazione. È l’ultima parola: la “parola fine”.

Alle sue spalle, un “nastro spento”: anche queste “ultime tracce” – le parole – sono incise sull’aridità del deserto.

Sul silenzio.

L’ombra bianca

“Ombra”: così potrebbe definirsi la donna d’amore nella esperienza poetica di Barbieri, emblematicamente fissata al primo verso di Ricordo di te:

“La tua ombra è qui / sopra le mie palpebre / chiuse […]”.

Ma “ombra” non vuole significare una negatività del concetto di amore né racchiude tutta la sua fenomenologia, che anzi è assai complessa e sottile. Vuole solo indicare la difficile, e radicale, congiunzione tra realtà e ricordo, la dialettica tra corposità e rarefazione, tra la presenza ed il “sogno” di uno dei più sublimi e misteriosi sentimenti umani. L’amore è cantato ai confini tra illusione e rimembranza, desiderio e indifferenza, bisogno e fatalità. Qui, mai l’amore è banale; anche la passione diventa un granello di sabbia rovente che nel deserto fa apparire i miraggi. I miraggi provocano brividi: anche se è sempre l’ombra che disseta.

Non è facile parlare di questo nostro cuore innamorato:

“Amore, che scivoli e inciampi su questo / mio nuovo sentiero lastricato di parole / e frasi antiche e risapute […]. / Presto guiderò una spedizione di parole nuove / ad inseguire la carovana di vecchie / e vetuste frasi” (Frasi antiche e risapute).

Su un tema così antico, i cui discorsi sono “polverizzati dal tempo” come “dune sabbiose” del deserto mai sazio di abbagli (Frasi antiche e risapute), l’originalità di Barbieri non è tanto nel linguaggio, pur “lastricato” di “parole nuove” in scarnificate immagini che spesso hanno l’eco di un tonfo nell’inconscio. La novità lessicale e semantica è nell’esprimere l’arduo rapporto tra l’onirico e il concreto dell’amore. In questo raccordo, che oserei definire discordante, si evidenzia la forza della parola “nuova”. Qui esemplifico la scelta terminologica limitandomi alle tonalità cromatiche, che offrono una pregnanza concettuale specifica.

Il volto della donna, scolpito su “marmo bianco / nel nero / della mente”, esprime l’irruzione dell’amore nelle tenebre della esistenza: la femminilità è bianchezza che si staglia sul “rosso” del ricordo, mentre il desiderio è di un “incandescente viola”.

Man mano che l’esperienza trapassa dallo stato del sogno a quello della quotidianità, i colori si stemperano:

“Domani dipingerò i nostri / gemiti / su semplici sassi / grigi / di mare” (Ho scolpito il tuo volto).

Femminilità è bianchezza: è candore (Alcione armonioso dei miei sogni). Lo è sempre, quando la voluttà è coniugata al sogno e ripropone l’innocenza primigenia dell’animo “fanciullo” che si apre alla vita. Allora l’amore ha “candide vele” (Vele nel vento), il “bianco calore della / sabbia senza orme” (La ragazza del deserto).

Il cammino errabondo, in cui l’uomo è teso alla ricerca di tale identità, è “un giorno di pietra bianca calcinata” (Il volto del passato), ma l’incontro – l’atto in cui la purezza dell’attesa si fa corporeità e diventa presenza – è “un piccolo fiore rosso / […] / che le nostre labbra hanno fermato” (Favolose primavere che saranno). Ed è allora che il sogno “si è / solidificato / in un fiore rosso” (Percorro il deserto): il colore di cui si veste il pensiero che ferma il transitorio. “Una traccia rossa. / È il tuo fiore nella mia mente” (Una traccia rossa): un “fiore rosso / è tutto il passato / che mi rimane” (Un volto antico di pietra).

La caratteristica fondamentale del vissuto amoroso è d’essere “sogno”: di “un piccolo fiore rosso” (Una traccia rossa). Per capire questa dimensione esistenziale, bisogna precisare che nel quadro dell’amore qui delineato non è disatteso l’aspetto realistico. Sotto tal riguardo, la poesia di Barbieri trova accenti di originalità, ma forse non sfugge sempre alla tirannia, se non delle “parole antiche”, magari delle immaginazioni “risapute”. L’affiatamento di due cuori si schiude “per i cieli turchini” di nuove speranze di vita. Ecco dunque l’iniziale potere dell’amore: far nascere un

“nuovo giorno che la tua / bocca e le tue labbra hanno / riempito di nuove speranze” (Nuove speranze).

Consueto, ma terribilmente splendido:

“Avevo la bocca riarsa / e tu hai dissetato / questo abitante / di deserti” (Brillanti primavere).

A quest’effetto scontato si aggiunge una considerazione di grande rilievo: il “ritorno al grembo / della natura abbandonata”, a quella originarietà di sé da cui un mondo di inautenticità ci tiene separati con “nere sbarre” di ferro (Speranza di vita).

Miraggio? Illusione di chi s’aggira stordito ed alieno per le deserte lande del bivaccare terrestre? Se lo è, è un miraggio unico; se lo è, è sublime illusione: prima di essa, “prima / che ci incontrassimo” (La nostra vita), c’era una eternità vuota. Dopo, e cioè “ora”, l’eternità si sveglia alla pienezza, a un contenuto integrale:

“assieme […] guardare / – oltre l’orizzonte che si curva – / l’eternità che ci appartiene / e ci unisce” (Favolose primavere che saranno).

È nota la sensazione esistenziale d’essere uniti da sempre e per sempre con la persona amata, quando ad incontrarsi è l’amore che trasforma l’esistere:

“Io sapevo e volevo / e sognavo / da una vita la tua esistenza” (C’è stato un tempo).

C’è chi ha parlato di introiezione, portando in causa dinamiche dello psichismo oggettivo. Certamente, il meccanismo non può radicarsi che nell’inconscio. Ma il fatto di questa percezione, che ha lo spessore quasi della fisicità, resta fermo, ed era ben noto anche ai cantori delle favole cortesi medioevali:

“Tu che ieri ora domani / sei il mio presente” (Sonia tre).

“La mia vita. / La nostra vita. / Sembra una eternità / ciò che abbiamo / vissuto prima / che ci incontrassimo” (La nostra vita).

L’amore di due cuori che si identificano ciascuno in se stesso e ciascuno nell’altro è la sutura tra passato e futuro.

A scandagliare oltre il dato esperienziale, la ragione di questa “eternità” immaginifica è molto semplice e vera: nell’esperienza d’amore, lo spirito si autorivela nella propria identità, cioè si identifica con il proprio sé e si sussume come io in una pienezza che trascende i termini del tempo fisico.

Con l’amore, passiamo dall’opacità dell’incompleta consapevolezza di sé

“alla ricerca di noi stessi / alla ricerca del nostro vero passato / alla ricerca della nostra ultima / speranza di immortalità (Vele nel vento).

L’essere si riconosce pienamente come io:

“Io ero io” (Il profumo della nostra gioventù).

E solo allora vede il proprio tempo, capisce il proprio passato, si progetta in un futuro armonizzato. E l’avvenire è non un “domani”, ma un “oggi” che sta già nel “prima”.

Sensazione d’eternità.

Ma come lo si incontra, l’amore? O: come lo si riconosce?

Con il “sogno”:

“Un’ombra sale la collina. […] / È solo il mio ultimo / sogno / che mi raggiunge / in cima alla collina” (Commiato).

Il sogno non è il fantasticare. E non è il semplice desiderare.

Il sogno, qui, è la verità.

La verità si distingue dal fatto, dal vero concreto. Il fatto è mendace, il reale è un falso che ha apparenze di pietra. Transitorio, esso non ha consistenza:

“sulle rive / dei nostri guanciali / […] avremo inutilmente / bruciato le lente ore”.

Il sogno invece crea.

Crea la verità interiore delle cose:

“Solo così / potrò raccontare / […] / la favola di un eterno ragazzo / […] / che si è creata una immagine reale / tutta per sé. / Che esiste. / E che ora gli siede accanto. / Mano nella mano” (Devi esistere).

Il sogno fissa per sempre la realtà. E la ricrea ancora:

“Ho riempito il vuoto / […] / con sogni ad occhi aperti / […] / Riesco a farti esistere: / […]. / E a poco a poco emergi da un passato / […] / e diverrai reale in un futuro” (Devi esistere).

L’abbandono a questa dimensione immaginifica ha il suo rischio: aver creato un “assurdo / universo / di sogni illusioni chimere” (Questo mio assurdo universo).

Tuttavia, il “sogno”, nella semantica di Barbieri, ha una connotazione ulteriore rispetto alla creatività immaginifica: è la possibilità di andare, sempre, oltre il dato materiale.

Il “sogno” è dunque la dimensione stessa della vita.

La realtà è fiaba, ricordare è intingere

“nei colori che si mescolano / sul fondo dei miei occhi / sperduto in un mondo di fiabe” (Ho dipinto il tuo ritratto):

“Ora hai capito / le mie parole / che creano un Passato” (Sonia tre).

Questa potenza del “sogno” si specifica, nella creatività immaginifica, come dimensione del vissuto amoroso: la fusione amorosa ha come pregiudiziale la capacità della donna di entrare ella stessa nell’orizzonte del “sogno”:

“Il tuo volto è qui / accanto al mio / – come nel sogno –. / Il tuo sguardo è dolce / e promettente / – come nel sogno –. / Ma la tua bocca ha labbra / di pietra […]. / Così io non ascolterò / mai / le parole di un sogno” (Le parole di un sogno).

La donna è presente, in quanto trascenda la presenza fisica e diventi

“Soffice più della nuvola / su cui inseguo i miei / sogni” (Soffice).

Se la donna consente a questa apertura verso l’irreale fiabesco, è possibile la comunione: che “io sogni anche per te” (Frasi antiche e risapute). Altrimenti, il reale distrugge la verità:

“È nato un amore […]. Ma è morto un sogno” (La tua voce).

Il distacco allora avviene quando “Tu non sai più / sognare con me” (Le orme che lasciano i miei sogni), quando tu “ascolti / solamente il mio corpo” (Il vuoto che ci circonda).

La fenomenologia dell’incontro reale, fisico, ha il suo destino nella “infinita lontananza” (Una traccia rossa).

“La ragazza del deserto / mi ha chiamato a sé / ed io giro intorno / a me stesso per trovare / il sentiero / lastricato di illusioni” (La ragazza del deserto).

Il suo approccio è “sempre un poco / in ritardo / col tempo dell’amore”, il fiore carminio che egli posa sulla donna è sempre “un fiore appassito” (Percorso nel deserto).

Poi c’è sempre in agguato l’incomprensione:

“Che tristezza la lontananza / di due menti / che dopo essersi / specchiate / l’una nell’altra / più non si riconoscono” (Che tristezza).

L’amore reale è minacciato da una distanza incolmabile.

Ma c’è anche, come in tutte le cose, la rapina del tempo che fugge: dopo che il tempo “vissuto prima” di incontrare la persona amata è parso un’“eternità”, ora non restano che…

“pochi attimi di sole / per osservare il pettirosso / che vola da un ramo / al davanzale / dove abbiamo gettato / briciole dei nostri / ultimi sogni” (La nostra vita).

C’è anche, in queste poesie, il problema della disparità di età (Non c’è spazio tra noi, Polvere di tempo, Un muro ci divide):

“E io bevo misticamente / ogni stilla […] / della tua giovinezza” (Una traccia rossa).

Ma c’è, soprattutto, l’inafferrabile presenza dell’altro: il sole che verrà vedrà due esseri che

“tremano sempre quando / restano soli / insieme” (Le orme che lasciano i miei sogni).

L’amore concreto è dunque come un suono di “rauche parole”. Vagano nel “deserto arido / delle mie illusioni”:

“Son tornato dove tu / avevi appoggiato il tuo / volto sulla mia spalla. / […] / Son tornato... Son tornato / da solo / […]” (Son tornato).

In definitiva, il mondo esistenziale di Barbieri s’inquadra bene nel clima novecentesco: anche per lui, l’uomo è inesorabilmente “solo”, trafitto, come scrisse Quasimodo, da un “raggio di sole”.

“Ed è subito sera”.

Presenza e solitudine

Il sogno si armonizza con la realtà grazie alla scoperta – biografica e surreale – dei più intimi valori umani: intrascendibili, perenni, universali. Quasi in sogno – che penetra nella specificità fenomenologica del vissuto , la ricchezza dell’incontro d’amore si staglia luminosa.

In primo luogo e sostanzialmente, l’amore non è congiungimento di corpi. È completamento di essenti: unionerealizzazione della persona in quanto persona che è. Nell’amore, in gioco è la personalità. E più ancora che unione, è riconoscimento di sé: l’amore genera la consapevolezza dell’io integrale e ne segna la misura totale: “e pareva in attesa / delle bianche luminosità plenilunari…” (Quella prima sera).

La persona – l’essere che è per la coscienza di sé , immersa integralmente nella autocoscienza, è proiettata in una dimensione nella quale, possedendosi, si vive come identità, senza dicotomia tra il sé e il fuoridisé. È la sensazione di eternità.

Normalmente, invece – quando l’uomo si imbosca nei chiaroscuri del mondo , coglie se stesso entro il flusso delle cose e si percepisce spezzettato nei vissuti: e vive la differenza. Non solo tra sé e il mondo: anche all’interno di sé. Non è un io che si possiede. Il suo tempo è il tempo delle cose, è la successione delle proprie relazioni col mondo. Nel partorire l’autoidentificazione, l’amore crea “un breve attimo della sua vita eterna”.

Nel dinamismo interpersonale, l’eros ha la funzione di approccio. In un punto del tempo cronologico,

“[…] non fu necessario / parlare ancora. / […] una complice intesa / nei nostri occhi / e le tue mani […] / cercarono le mie” (Quella prima sera).

È così che si possono vedere “crescere le stelle”.

L’unione fisica non fa che esternare, oggettivandolo, il compimento interiore: quando “non parlammo più”, quando le stesse parole appartenevano ormai al fluire. Ora valgono, ormai, solo “esclamazioni di stupore”, per esplicare l’eterno calato nel tempo.

Senza questa «armonia dei corpi», quando è solo eros o «sogno» incompiuto, l’amore è gioco del tempo: che scandisce la sua fugacità:

“ Non ci sono più le tue calze / abbandonate – come un burattino / dalle gambe spezzate – su quel / vecchio anacronistico tavolino. / […] / Tu, tu non ci sei più” (Risveglio con incognita).

Altra esperienza. Altra fenomenologia esistenziale: nella quale non già il «sempre» e il «sé» realizzato, ma il «non più» è quello che prevale. A quel punto non basta più «un segno» a fermare due monadi incontratesi; non può esserci nulla che valga a fissare “che tu poco prima”, tu c’eri!

Così, anche l’amore si sperde nel segno del tempo che rapisce

“i nostri ricordi / e i nostri sogni più belli” (Ieri ho letto nei tuoi occhi).

La vita conosce anche la labilità dell’amore. C’è un amore agganciato a uno stelo: in una notte sotto un cielo stellato. Si tratta di un appagamento che tiene le mani “avvinghiate” e che il “vento del tempo impietoso” allontana ed unisce, unisce e separa (Questa notte saranno in due a contar le stelle).

La vita, comunque, è soprattutto amore. C’è un amore che abbraccia tutte le cose e va oltre lo specifico vissuto sentimentale ed erotico. “Il tempo d’amare” – come s’intitola una poesia – non subisce le stagioni che passano, non ha tempi morti. Esiste da sempre. E vale per sempre: è la madre, il fratello, l’amico, “la ragazza che ti porti / negli occhi”, è la natura ed il cane.

Vivere significa amare.

A parte l’eterna stabilità della coscienza d’amore, tutto l’arco esistenziale di questa raccolta si scandisce tra l’attesa e poi ancora l’attesa. Di contro alla primavera interiore che crea le “nuvole bianche” – nelle quali la mente riflette i pensieri , il “gelo” solidifica come una Sfinge i bisogni del cuore e vi scava intorno una distesa di deserto infuocato (Il deserto senza fine).

La solitudine diventa, così, la condizione dell’uomo: essere soli è come essere unici al mondo (Quando si è soli)! Forse nessun altro stato d’animo costituisce, in negativo, il momento così totalizzante, bruciante come il sole, abissale come la vertigine: perché ciò che si perde è il proprio sé. Perso “nel nulla” (Le speranze del domani).

La solitudine “inebetisce” (Un cuore stanco): il cuore non sente, non capisce, non gioisce, non spera, non dispera (Cuore sordo), diventato un “automa”, come recita il titolo di una poesia. Non sente, e non vede: come in un tunnel attraversato dal “buio completo”. Eppure basterebbe una

“lucciola di giugno / una rosa rossa di maggio / un volo in seta nera / delle rondini di marzo…” (L’alibi di vita).

Basterebbe. Ma non basta!

La sua situazione profonda dell’autore è “il deserto / che vive da sempre / dentro di me” (Sogni antichi).

Ci si chiede se il deserto sia la dimensione specifica dell’uomo. Sembra potersi rispondere di sì. Essere persona significa essere in rapporto immediato solo col proprio io. Con il mondo, umano o naturale che sia, la coscienza è in rapporto mediato; e solo l’amore unisce in una solidale consapevolezza due soggetti – ed è mistero dell’anima. Normalmente invece, ognuno ha il suo «sogno», il suo universo interiore, con cui solo la coscienza sognante è a contatto diretto.

La coscienza di essere così solo, da apparire così “strano”, è una conseguenza che l’autore sviluppa con lucida mente. E quale significato abbia per lui l’orgoglio di preferire questo “prezzo” a qualsiasi guadagno, risulta chiaro quando si comprende che «sognare» è la stessa cosa che realizzare autenticamente se stesso.

Già Heidegger distingueva tra vita autentica, quella che realizza la propria «libertà» in cui consiste la coscienza – il farsi in assoluta autofondazione , e vita inautentica, sbriciolata nella quotidianità intesa come immedesimazione della coscienza con la realtà delle cose.

Barbieri difende la sua libertà anche a costo di trovarsi sempre a inseguire “nuove chimere” (Colpi di tacco) ed esemplifica l’inautenticità nell’omologazione con l’universo degli spot pubblicitari e dell’umanità inventata dai mass media («Vivi te stesso»): in termini generali, con l’alienazione dalla propria intimità da parte dell’uomo, per vivere così immerso nel mondo «cosale» (direbbe JeanPaul Sartre), da identificare il bisogno di sé con le cose del mondo – un’auto roboante, una nuova vacanza in paesi esotici, una lavatrice automatica, una tuta da ginnastica…. Qui si tratta “di estinzione di cervelli / e di sentimenti” (Ibidem)!

La vita della «illusione» è contrapposta, dunque, alla vita del reale oggettivo: e all’alternativa di abbarbicarsi alle cose, diventando un tutt’uno con esse, l’autore preferisce

“inoltrarsi in un deserto / “per incontrare il suo miraggio”, per non essere, come i molti, “un morto vivo”, uno “zombi della Tv” («Vivi te stesso»).

Una cosa è certa: scegliere la libertà può essere entusiasmante, può anche definirsi un dovere dell’uomo, ma non è certo un viaggio piacevole.

È un peso enorme – la lbertà : una fatica di Sisifo.

La libertà è sempre al di là delle conquiste raggiunte: bisogna sempre attendere l’“angolo dell’ultimo / vicolo” (Colpi di tacco), non arrendersi, neppure nel vuoto più nero, con la speranza che torni ancora un cielo d’aquiloni (La fine di un sogno).

“Il profumo della libertà”, che dà il titolo ad una poesia, non è dunque un profumo di rose.

L’epilogo della libertà appare addirittura tragico, appunto, ne Il profumo della libertà: una piccola talpa, insofferente delle immutabili regole del vivere secondo i ritmi imposti alla specie, arriva in cima ad una collina per scavare le sue gallerie; lì mette su una bella famiglia – e la sua compagna è persino invidiabile, perché sa anche tacere! , ma neppure questo le basta; s’inerpica sulle rocce, sale sui picchi, fissa lo sguardo tra i cieli azzurri e verso il sole splendente, finché incontra la grande fortuna: la sua sete

“di verità e di luce / fu premiata dalla natura / benigna e madre”:

un falco la artiglia

“per portarla nel più alto / dei cieli / dove sfolgora la luce / e la verità”:

e dove un nido di falchi attende di mangiare la piccola talpa.

Non si può negare che il «prezzo» della libertà non sia caro: la libertà è consumarsi fino a morire.

È accettare di annullarsi come creatura del mondo.

L’uomo, per essere libero, deve sempre aspettare.

Ma a volte sembra che manchi la prospettiva futura: ed è questo il momento più problematico e, direi, vertiginoso della ricerca di un’autentica realizzazione di sé.

Un sogno può distruggersi d’un colpo, senza che si possa più riutilizzare per il proprio domani, come avviene per l’aquilone che, caduto in mare, è rovinato per sempre:

“E non potrà più / volare / alto nel cielo / della fantasia” (Due ragazzi corrono).

Eppure, benché sempre franto e sempre “caduto”, il cuore non si ferma neppure all’“ultimo” sogno che ormai si è infranto: la speranza non cede le armi (Ho visto cadere un sogno). Neppure di fronte al pensiero della fine: anzi, neppure nella morte (Addio giovinezza).

È questo l’aspetto più veritiero e compiuto del senso del sogno. Il sogno non significa seguire chimere con gli occhi del mondo. Significa, invece, dare credito all’immortale tensione del cosmo – e dell’uomo in esso conchiuso e di esso partecipe – verso spazi esistenziali sempre possibili e sempre imprevedibili.

“Dietro la curva dell’infinito / […] / C’è solo il profumo intenso / di una nuova speranza / di fede e di vita» (Dietro la curva dell’infinito).

La vita dell’uomo che cerca di realizzare la propria libertà – diventare uomo davvero – è paragonabile a quella di un avventuriero.

L’avventuriero è, in un racconto di Barbieri che chiude questa raccolta di poesie, l’uomo di sempre che tenta di essere quello che la sua natura gli impone. Ecco dunque che egli passa attraverso il Tempo, e vede i volti ed i corpi “invecchiare e sparire tra le nebbie del Tempo”.

Ovviamente è un uomo solitario: che rifiuta di radicarsi nel fugace e non vuole generare figlioli.

Rifratto nel mondo, l’avventuriero non si è neppure legato a qualche attività preordinata: muta ali, spazia in mille nomi e in mille volti, cambia continuamente maschera e interessi. Ma la sua vocazione più profonda, che infine lo ha trascinato in un deserto di “dune frementi sotto il sole implacabile dell’angoscia”, è nelle

“ombre cupe di caverne a scavare gli scheletri dei suoi primi sogni”.

Ed è da qui, da questo ritorno all’indietro di mille e mille giorni e mille anni, che viene il miracolo.

Si tratta del miracolo di cui abbiamo parlato all’inizio: la sorprendente presenza di una donna che fa diventare “inerme poeta” un guerriero sempre inquieto alla rincorsa di qualcosa di nuovo.

Ed ora il guerriero, per la prima volta, ha accanto a sé

“due occhi splendenti nuova giovinezza e nuove illusioni”.

L’infinita irrealtà del reale originario

La tensione dalla quotidianità del reale – dalla piattezza del suolo terrestre (cfr. Stelle spente) o, per usare un’espressione dell’autore, Roberto Nebbiolo, dal «limbo della monotona quotidianità» (Neve di vita) – verso orizzonti di cielo è la forza trainante dello spirito umano.

Soprattutto per l’animo adolescente: che si apre alle promesse della vita.

Verso la terra “promessa”.

La vita è vitale, esattamente in quanto contiene una fede verso il “promesso”.

Non è un gioco mentale. Né una scoperta della ragione: è un angelo di carne nel midollo spinale; è una fede che nel flusso di sangue, scorre come un ruscello per tutta la pelle: sono i mille “riverberi di sole” che si stendono “sulla tela ancora bianca” della vita (Il colore dell’immensità).

Mentre l’adulto – sconfitto dal “vero” di leopardiana memoria – si protende come un cieco verso l’angolo di cielo in cui risuona il canto delle allodole – là, ove il sole incomincia a morire , perché dal canto e dal sole tragga l’illusione, che “pur lo sofferma al limitar di Dite” (Ugo Foscolo), di sopravvivere alla bruma della palude , il giovane sa, nel suo intimo, “il colore dell’immensità” (Il colore dell’immensità); e se egli vede – e se tu gli dici – che sulla tela marcita della vita esiste solo il nero, egli sente, tra le arterie – è questo, il vitale dell’essere , scorrere profili di cieli, iridi dai mille colori e protende le mani del cuore là, ove il sole incomincia a morire: e vede lì, ove il sole trapassa nel buio, una tela colorata d’immenso.

È difficile capire quello che sente un fanciullo, quello che vibra nel giovane, nella carne e nel sangue: nell’adulto, anche il cuore è coperto di calcare grigio.

E se tu gli chiedi se spera, sì, l’adulto spera: con l’intelletto che architetta le molteplici combinazioni dell’essere, alla luce fioca di un ingegnere della storia.

Ma non può andare nell’Oltre delle coincidenze e delle mescolanze immaginabili: non sa sconfinare al di là, dove “l’acqua si piega nella sua curvatura” (All’orizzonte), e il cui limite è solo il “muro di sogni e di fantasie” (All’orizzonte).

Per l’età verde, il viaggio è per “un mondo / che mi chiamava / aspettandomi”, e solo per essa il mondo si preannuncia, in enigma, negli occhi “ansiosi di vederlo” (La polvere di mille strade).

Nascere è entrare nella favola del mistero del viaggio.

La delusione dell’adulto, che ha, nelle pupille, impresse le tracce sbiadite dei sogni dispersi, si colora di speranze future: ha la tenacia di chi conosce le possibilità del possibile contingente.

Quella dell’età verde è, invece, recupero del passato: rinasce dalla vita che è dentro.

Ritorno alle origini: ed allora il mare senz’onda, la terra senza vita – così ne Il ritorno – e la pergamena bruciata – “tutto ciò che rimane / dei miei sogni” – diventano essi stessi richiamo di vita, “invocando / il ritorno / dell’uomo”.

Infatti, la pulsione è ancora prossima alle scaturigini, a quel paradiso di sogni in cui l’uomo è vissuto con gli stessi sogni di vita, nella

“magia / della primavera di un tempo / conservata solo nella fantasia / di un poeta / nel cuore di cristall0 / di un sogno” (La primavera di un tempo).

E allora tutto “è nato oggi”.

E anche se la vita è “illusione” e un “ricordo di cose / mai avvenute”, se il “domani è un’angoscia / di illusioni / che mai si realizzeranno” e il “passato è superato / e disprezzabile”, tuttavia “Il mondo nasce al canto / del gallo” e “La notte è una morte / temporanea” (La primavera della morte).

È molto forte la pulsione di ricongiunzione con l’originario: immediata e naturale autoricreazione.

A differenza della progettazione razionale e volitiva, il superamento del negativo è, nel fanciullo, una «prontitudine» della vita che si libera, da sé e dall’interno, dal vischio dei «raggelamenti» dell’esistenza: ed è sempre pronta a “partire di nuovo”:

“Ora so che quando le strade / cesseranno di rincorrersi / sotto i miei piedi / io ritornerò quello di sempre / nel sogno infinito di mai” (La polvere di mille strade).

L’antitesi temporale “maisempre” esprime l’antitesi tra il reale ed il “sogno”, nella quale è significata la trascendenza del sogno sulla vita: ma non per illusorietà della vita, bensì perché la trascendenza è nell’originario, nell’impulso assoluto dell’ente vitale.

E il poeta è il fanciullo. E il fanciullo è il poeta: sognare creando. Creare per sogno l’“azzurro del cielo / splendenti di capelli di sole” (La primavera di un tempo),

e vedere l’effetto che fa lanciare “un sasso / nel mare che mi sussurra / parole incomprensibili”, e trovare, sull’onda, “uno specchio / del proprio «passato” (L’ultimo cane di pezza).

Tuttavia, l’adolescenza non vive la pulsione in forme sempre gratificanti. Se così fosse, l’uomo sarebbe una statua di Eros e Psiche su un piedistallo di stelle immobili e fisse. Le ombre di morte si stagliano da quando le tenebre confliggono con la luce. La vitalità dell’essere è insidiata dal “vento della distruzione” (Grido d’inchiostro): dalla propria stessa negazione. Fin dal primo vagito: e “Dove ci sarà un uomo / ci sarà una tomba” (La vita della morte).

E allora sono le “navi della paura” che “tagliano l’onda della disperazione”» cantando “lamenti di guerra” (All’orizzonte).

Ma anche questo è un sentimento che s’imbeve non tanto delle precarie situazioni mondane, quanto, invece, della stessa precarietà dell’esistersi come realtà originaria: la delusione del fanciullo, perciò, crea “un altro universo” (Grido d’inchiostro). E quando

“I miei passi / non fan più cantare le foglie / i miei occhi vedono / la luce delle tenebre e / le orecchie odono / la musica dei pianeti / che […] / io solo ho ascoltato / […] / prima d’assopirmi / prima che il lupo / cessi di chiamare / stelle che si sono spente”,

allora nasce la speranza

“che qualche ignoro Re Mago / capisca lo schizzo / del mio cuore / e vi si riconosca» (Stelle spente).

È questa la proiezione del poeta, è questa la certezza che sostiene il fanciullo: la sensazione profonda di una salvezza di tutto il contingente – e della stessa sua precarietà , che non può non essere raccolta, o dalle nuvole, o dalle stelle.

La vita non è morte: è il sussistere in un orizzonte oltre l’inconsistenza delle mortalità dell’esperienza, per cui si vive

“Dove ci sarà una stella / ci sarà un bagliore di vita / su mille cimiteri” (La morte della vita),

e mai saranno inghiottiti nel sonno eterno una lacrima un gesto una speranza un’attesa su cui scivola il chiarore di un astro – che noi a volte neppure scorgiamo con gli occhi inumiditi di nebbia.

Perciò il poeta affida i suoi “sogni / al vento della primavera”: alle nuove rinascite incontrollabili ma certe, perché i sogni siano seminati laddove divengano realtà (Sogni ed illusioni).

A volte, anche i sogni s’impennano contro il muro della diffidenza: “e moriranno in una terra / dove nessuno / li vorrà accettare» (Sogni ed illusioni).

In effetti, non è vero che l’infanzia o la fanciullezza equivalgano a serenità e spensieratezza. Queste, piuttosto, sono acquisizioni dell’uomo maturo: proprietà di chi ha combattuto la battaglia tra le istanze originarie – il principio vitale – e le «ragioni del reale». L’età «vergine» è tale anche perché le pulsioni sono integrali: non integrate. Perciò la diffidenza è più nei confronti di sé, che del mondo esterno: e proprio per questo è più pericolosa, ed è atroce. Si tratta di autoriconoscersi. Di autoidentificarsi.

Che cosa si é, da fanciulli? Tutto e niente.

Niente di già fattuale, e tutto il possibile delle istanze vitali. È difficile – è una nuova nascita, fra le tante già avvenute e le tante che avverranno – il passaggio dalla “ambizione” della fanciullezza – al limite della “originaria onnipotenza” del vitalismo – al “definire” il sé, che però permette di assumersi nel proprio limite e al contempo di impossessarmi della propria porzione.

Diventare “uomo” è prendere dalla natura – dalla propria stessa indeterminazione – la propria fetta di torta (cfr. Uomo).

Icasticamente:

“Chi sono io? / […] / Non lo so. / Non sono mai stato / me stesso, o forse / sempre. / I miei mille volti / mi confondono. / […]. / Chi sono io? / Forse non sono / nessuno. / Un soffio che vive / di illusioni […]. / Sono nessuno e / capisco di / essere qualcuno”.

Finché nasce il nuovo verbo:

“Io sono. / Il resto non importa. […] / Vita […] / parla, ed io / avrò il mio / volto” (Essere nessuno).

È chiaro dunque come l’identificazione di sé in conformazioni particolari e definite si presenta, alla luce dell’autenticità pulsionale del fanciullo, come pura e sconfinata apertura alla vita: che è fuori, ma che è dentro. La vita è per lui ciò che “parla”: non ciò che impone; è in un rapporto, direi personale, nel quale il fanciullo ha piena fiducia, e per il quale a lei si abbandona.

Tu parlami: e io darò ascolto alla tua fantasia…

Il gioco dell’incanto del fanciullo conduce a rapporti sconosciuti se non a chi sappia, pascolianamente, vivere dentro – ed insieme – alle cose, in una unità che alza e toglie le razionali barriere; o a chi, dannunzianamente, sa percepirsi nell’unità del tutto vitale. Ma, nel caso del fanciullo reale, manca l’assillo della ricerca: in lui, l’identità non ha scarto, e resta al di qua dalla cultura. Essa manifesta l’origine assoluta, come in questo brano:

“Ti ho tenuta per mano / sino al limitare del bosco”,

ma

“tu sei scomparsa e nella mano / stringevo foglie e vento. / Ti ho sentita tra le foglie / mentre cantavi con l’usignolo / parole d’amore. […]. / Poi mi hai bagnato col silenzio / di una pioggia […] / dove danzavi in ogni goccia. / Tu eri la pioggia”.

Tu eri la pioggia, mio amore!

E tu eri il sole che tramonta,

“ed io sono diventato te. / Il Tempo ha cominciato / a nascere e morire in me” (Ti sto aspettando).

Ma la prossimità con l’originario conosce anche la fenomenologia dell’onnipotenza, dell’eternità, dell’onnipresenza: che non deriva da una dicotomia coscienziale rispetto al reale, ma da una tendenza all’astrazione psicologica dalla limitatezza dell’esistere qua e come ioqui.

L’autore si rende conto di impigliarsi “tra la seta di capelli”: basta un lampo, e si accorge di essere coi piedi per terra. E tuttavia ha sperimentato la vita fuori d’ogni luogo, fuori d’ogni spazio, nell’incertezza “se si sta vivendo / o sognando”.

È la sensazione dell’assoluta “libertà”, vissuta come in sogno, in cui non si sa chi sia colui che adesso sogna, che cosa sogna, chi sta sognando il sogno (Re di una fugace eternità).

Il poeta compie il suo ingresso nell’universo con gli occhi del bimbo:

“Sapessi quante poesie / ho legato alla coda / di mille comete / per far vagare i miei sentimenti / nello spazio infinito», e “quanti colori / profumi sapori e musiche”, prima che “la luce [abbia] disilluso / i miei occhi”!

Eppure, anche se aggrappato al filo d’un aquilone, vede questo mondo con il profondo sguardo di quell’altro che ancora naviga nella mente, inconsapevole:

“Così scopro / che nell’aria c’è un arcano / profumo di mistico / c’è uno strano profumo di / magico” (La fine di un’alba).

Il mezzo espressivo si nutre di immagini che non hanno soltanto l’arditezza simbolica: hanno, dentro la violenza semantica, il mistero della vita.

Il “grido d’inchiostro” percorre tra la “nota acuta […] / uscita dal rigo di stelle / per perdersi nel silenzio”», quando il “fuoco del sole / diventa ghiaccio” e “il sospiro / di una arcana promessa / d’amore”, l’unica immagine “rimasta a specchiarsi / in un foglio di carta” (Grido d’inchiostro).

Nulla è più attiguo all’animo vergine – e nulla più poetico, disse il Leopardi – della percezione dell’«arcano».

L’arcano non è il mistero arzigogolato da cervelli sopraffini che si figurano il cosiddetto incomprensibile, solo perché hanno delineato nella testa, prona sul tavolo degli alambicchi, i limiti cartesiani tra il raggiungibile e l’irraggiungibile.

L’arcano, nell’intuizione sensibile dell’animo incantato, è la potenzialità irrefrenabile che sovrasta e che regola il sogno di esistere.

È la stessa vita, l’arcano.

Se non conosciamo la vita, è perché è essa a superare se stessa!

Il poeta percepisce questo autotrascendimento dell’esserci: e sa accoglierlo nella sua verità.

Il caso e la necessità dannata

I casi della vita sono tanti. Tra questi, c’è quello di nascere. Per caso.

Per caso, o per necessità.

Ma non ogni necessità è benefica: non lo è, quando si nasce senza essere desiderati.

La protagonista, Madlen, soffre di carenze affettive.

Inutili gli sforzi, da bimba, per attirare l’attenzione e l’affetto paterni: tenta di stare male, cerca di far registrare al termometro improbabili temperature da cavallo, si procura ferite volontarie. Sul proprio conto, ella sente sempre dire dal papà alla mamma: “«Non le badare»”. E: “«Ignorala!»”.

Poi, quando il papà sta per morire –l’istante in cui la verità, inesorabile, viene alla coscienza , ella sfugge all’abbraccio abbozzato d’un tratto…

Eppure, quali sogni d’intesa col padre hanno invaso il suo cuore di bimba!

E che ridere, quando la vita appare ancora benigna, e non si sa quanto sia invece matrigna! Aveva tre anni. Ricorda: “«Ho il cuore traboccante di gioia perché si è messo a quattro zampe, mi ha caricato in groppa, e tra abbaiamenti e fragorose annusate ad ogni angolo, trotta per casa, sollevando contro il muro l’una o l’altra ‘zampa’. E più mi strozzo dalle risa, più si dimena, minacciando di ‘disarcionarmi’»”.

Non soltanto sul padre ricadono le responsabilità del disastro. A rovinare l’esistenza mortale si è almeno in due.

Il padre e la madre. Sono il padre e la madre, quando sono nati da padre e da madre, a loro volta, mortificati, irrisolti. Schiavi a vicenda, morti a se stessi, feriti da coloro che li hanno generati.

Di generazione in generazione: finché il dominio dell’uomo sull’uomo sarà contrabbandato come amore, e finché l’amore non sarà concepito come pura gratuità. Semplicemente.

Libertà assoluta. Totale. Senza condizione.

Come un miracolo!

Alla morte del padre, Madlen investe la madre così: “«L’hai avuto tutto per te, in vita. Ma è a me che ha rivolto l’estremo, velato sguardo. Le mie mani l’hanno aiutato a bere l’ultimo sorso, geloso, d’acqua… Ma è stata, vedi?, la sua morte!»”.

Parole di marmo. E di sangue.

Una delle più profonde, e nascoste, conseguenze della frustrazione è dissimulare l’impulsività emotiva. La moglie obliata trattiene la rabbia nei confronti del coniuge: nessuna scena violenta. Al “sì” e al “no”, forti e recisi, si sostituiscono le mosse strategiche. Si sostituisce la “menzogna”. Continua.

Di fronte ad un maschio, poi, la fuga: improvvise sudorazioni nervose, le gambe si piegano quali steli afflosciati dal vento, la testa gira… È il panico.

Cosa può accadere, nel sangue e nelle viscere di una bambina, se, adulta, ricorda lo sventurato racconto sulla sua nascita, indesiderata dal padre? Da un padre che, davanti alla bimba, dichiara: “«Sono guastafeste soltanto, ‘incidenti sul lavoro’, i marmocchi»”?

Allora Madlen, quando vuole sposarsi, sceglie l’uomo perfetto. Perfetto, sì – come un padre! , ma gelosissimo. Così ella respinge l’affetto, istintivo e vero, di un compagno di lavoro, per essere fedele al marito: il quale – sostitutivo del padre – nel corso della vita la ignora – guarda caso! – pure lui.

Quanto male può il bisogno frustrato d’amore!

Schiacciata dalla “perfezione” di lui, ella s’adopera fino allo stremo, per tenere la casa – quasi cella dorata – pulita: con l’esito di essere tacciata d’infingardaggine dalla suocera.

Anch’ella madre! La quale, forse, vuole ancora suo figlio tutto per sé!

Come non bastasse la pesantezza di essere misconosciuti da una sola persona, occorre moltiplicare le torture, ed i torturatori.

Vendetta chiama vendetta. Né importa che essa sia inconscia. L’errore invoca l’errore. E le menzogne – e le devastazioni – si riproducono. Fino alla fine dei tempi.

Finché arriva la resa dei conti: l’uomo che aveva sempre dichiarato a Madlen il suo attaccamento e le aveva gridato che l’uomo da lei scelto non era fatto per lei, ora diventa l’amico sincero della donna distrutta.

“«Talmente in sintonia, così affini siamo…, che un’eventuale unione non avrebbe aggiunto nulla a questo ideale rapporto»”, ella dichiara.

Il cuore ha una legge interiore che nessuna legge del mondo può infrangere.

Cos’è la vita, senza l’amore? Ma quando è inaridito il cuore, quando il cuore è disseccato, l’autopunizione diventa il proprio boia.

Così Madlen, nel tentativo di trovare uno scopo di vita, ha preso un impiego. Ma a che serve?

Quando è dentro che manca la vita, dal di fuori la vita non entra.

Frustrazione si aggiunge a frustrazione: ella lascia il lavoro, e non vede più un collega che le aveva dimostrato tanto affetto.

Un affetto lo trova, però. Nel proprio figliolo.

E inganno si aggiunge ad inganno.

E danno a danno: infatti, anche il figlio non vede, d’intorno, l’amore. E come potrebbe vederlo, se quando il papà ha avuto un attacco cardiaco, la madre ne è rimasta quasi felice!

“«Non provavo nulla, capisci? Assolutamente nulla. Esclusa una paradossale sensazione di sollievo, come di fronte alla fine di un incubo»” – ella confida a suo figlio. Del resto, come può riceverlo, l’amore, se la madre si attacca a lui per se stessa, per riempire un proprio vuoto, e non semplicemente per lui? “«Portami via con te! Via per sempre, […]»”, vorrebbe supplicargli la madre.

La salvezza del figlio è nell’allontanarsi da casa. Qui parrebbe giunto il punto di rottura con la catena della dannazione. Il figlio comprende una cosa essenziale: bisogna vivere per se stessi, prima di poter vivere per gli altri e con altri. Crescere in autonomia e libertà. Invece la trama del dominio – dell’uomo sull’uomo, ognuno spezzato, dimezzato, insussistente – continua a dipanarsi inferno dopo inferno, trincea dopo trincea: il figlio si lascia soggiogare da una ragazza dominante e possessiva – così, nella percezione di Madlen. Vero o falso? Non si sa. Ma dinanzi ad una donna che fantastica la fuga da casa, e poi dinanzi alla sua dipartita dalle pareti domestiche – non si sa dove, non si sa come , ci viene un interrogativo.

Che esprimo con miei versi.

Ripeteremo

giorno dopo giorno

e ogni giorno per il tempo che ci resta

la giostra infausta

della prigionia

e lasceremo

soltanto al vento

di sollevare l’ala di un gabbiano?

 


Finito di stampare
nel mese di maggio 2005
presso Legoprint S.p.A., Lavis (Trento)

Fotocopie per uso personale del lettore possono essere effettuate nei limiti del 15% di ciascun volume, dietro pagamento alla SIAE del compenso previsto dall’art. 68 comma 4, della legge 22 aprile 1941 n. 633 ovvero dall’accordo stipulato tra SIAE, AIE, SNS, e CNA, CONFARTIGIANATO, CASA, CLAAI, CONFCOMMERCIO, CONFESERCENTI il 18 dicembre 2000.

Le riproduzioni ad uso differente da quello personale potranno avvenire, per un numero di pagine non superiore al 15% del presente volume, solo a seguito di specifica autorizzazione rilasciata da AIDRO, via delle Erbe 2, 20121 Milano, tel. e fax 02 809506, email: aidro@iol.it

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