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Sodalizio di Giuseppe Fabbri con i “contrabbandieri” di certo “intellettualismo”

da: Odisseus (2011)

Chi è Giuseppe Fabbri?

Nato a Pieve di Cento (Bologna) il 23 luglio 1901 (scomparso ultra novantenne a Roma nel silenzio assoluto della stampa) entrò nel giornalismo a Bologna nel 1921 all’“L’Assalto” e passò a Milano nel 1923 dove fu alla “Illustrazione italiana”, redattore capo de “I Giovani” e direttore del giornale futurista “L’Antenna”. Nel 1930 condirettore della “Quarta Roma” e quindi redattore capo del quotidiano “Ottobre”, sempre a Roma e corrispondente dalla capitale di un gruppo di quotidiani del nord. Nel 1931-32 fu redattore capo del quotidiano “La Cirenaica” in Bengasi e inviato dei quotidiani “Il Mattino”, “Il Corriere Padano”, “L’Impero”.

Nel 1936 corrispondente di guerra de “La Tribuna”, in Africa Orientale e quindi della “Gazzetta del Popolo”, vicedirettore del “Corriere dell’Impero”, direttore della rivista “Etiopia” e del settimanale “L’impero illustrato”, corrispondente di guerra dell’“United Press”, e de “La Sera”, “il Resto del Carlino”, “Il Messaggero” e “Gazzetta del popolo”, fino al 1941, anno in cui cadde prigioniero delle truppe britanniche. Durante i cinque anni di prigionia di guerra ha dipinto predelle e tavole sacre per le chiese delle missioni cattoliche del Kenia, dell’Uganda e del Tanganica.

D. Lei afferma di essere stato amico di intellettuali, ritenuti, dal punto di vista di certa opinione pubblica “contrabbandieri”.

R. Comincio con la conoscenza di Ardengo Soffici il qual immediatamente manifestò il suo largo consenso per la mia poesia africana e soprattutto dei Canti Africani osservando che ben pochi in Italia potevano vantare una visione così completa del continente nero così come me stesso. Potrei includere Aldo Palazzeschi, anche egli “contrabbandiere” della pubblica opinione soprattutto in quelle prose che, purtroppo, oggi sembrano dimenticate; egli ha scritto precise illuminanti prefazioni ad alcuni miei libri e soleva dire di me che ero un qualificato rievocatore di un mondo sconosciuto quale era allora i mondo africano.

Vorrei richiamare pure la figura di Curzio Malaparte con il quale ebbi violenti scontri polemici che si possono riassumere nelle definizioni dei suoi audaci equilibrismi sull’italianità di Italo Balbo, al quale peraltro aveva appiccicato l’epiteto di “pizzo di ferro”, dopo l’espressione di una altissima amicizia tradita poi con attacchi violenti e inconsistenti che mi indussero a scrivere una serie di articoli che raggruppai sotto l’egida “La Malaparte di Curzio” e pubblicati dal giornale “Ottobre” nel 1934 e ripresi poi da larghi settori della stampa.

Ovviamente potrei citare moltissimi altri “contrabbandieri” dell’opinione pubblica raccontando fatti e storie cucite addosso, ma, come comprenderà, mi dovrò limitare a qualche nome a cominciare da Benito Mussolini a Filippo Tommaso Marinetti, da Luigi Pirandello a Guglielmo Marconi, da Franco Gentilini ad Antonio Marasco, dai Duchi D’Aosta a Umberto II di Savoia e naturalmente la lista si prolungherebbe troppo; ma al riguardo mi consenta di riferirmi, autocitandomi, al mio recente libro compendio di eventi e di personalità di questo secolo: La comunità mondiale dopo il tremila (Serarcangeli Editore, Roma, 1988).

Di Guglielmo Marconi vorrei raccontarle come l’ho conosciuto perché l’incontro mi sembra particolare e la dice lunga sul carattere dello scienziato.

Siamo a Cattolica nel 1920, avevo solo diciannove anni e già ero giornalista presso “L’Assalto” di Bologna, allora diretto da Giorgio Pini.

Mi ero messo in testa di fare la conoscenza di Guglielmo Marconi il quale abitava in una villa che era l’ultima della riviera adriatica, al confine con le Marche dove aveva inizio quella marchigiana con il centro turistico di Gabicce. Volevo conoscerlo per intavolare una conversazione con colui di cui tutti parlavano sia come uomo e vieppiù come scienziato, ma volevo anche indagare per capire quale dei due suoi occhi fosse di vetro e perché anche questo particolare era fonte di discussione per la cui soluzione permaneva il mistero.

Riuscii ad avvicinare Marconi grazie al mio fanatismo smisurato nei riguardi dell’uomo e questi acconsentì a parlarmi dopo una cordiale stretta di mano.

La conversazione, se si può chiamare così, non fu brillante in quanto Marconi fu parco di parole e preferì ascoltare il giovane dal piglio impetuoso e dalle domande curiose.

Intuii che egli avrebbe apprezzato un mio aiuto (ero giovane e robusto) per spingere la sua barca a remi che di solito lo conduceva a largo per le sue “meditazioni”. Così fu e con costanza e fede tutti i giorni dei mesi di luglio e di agosto di quel fatidico 1920 aspettai che Marconi uscisse dalla sua villa per recarsi a riva e poi intraprendere la consueta solitaria escursione in banca.

Lo invogliavo a parlare, a commentare le notizie stampa che gli comunicavo e mi soffermavo su quelle riportate da “il Resto del Carlino” e dal “Giornale del mattino” di Bologna, diretto al tempo da Pietro Nenni.

Vestito di bianco con berretto a visiera tipo marina lo scienziato Marconi guardava attraverso il suo unico occhio vero, che lui soltanto conosceva quale fosse e certamente formulava in sé un ritratto introspettivo di me e di quanto ci circondava, ma sul quale non faceva trasparire nulla.

Del resto non parlava d’iniziativa e tanto meno nulla chiedeva.

Per me, Marconi, era un mito. Per Marconi Fabbri era una non persona, non esisteva.

D. Mi vuole parlare più diffusamente sui rapporti intercorsi fra lei e gli artisti di maggiore spicco degli anni Venti?

R. Anche qui sono troppi gli intellettuali-artisti conosciuti e frequentati, però le parlerò soltanto di alcuni che più mi stanno a cuore.

Il maestro Francesco Balilla Pratella è stato il maggior musicista futurista, in altissima considerazione anche da parte del più grande critico musicale del tempo Giannotto Bastianelli.

Diretto discepolo di Balilla Pratella è stato senz’altro il maestro Francesco Casavola, futurista anch’egli, naturalmente, il quale raggiunse una vera celebrità con l’opera Il Gobbo del Califfo rappresentata nei principali teatri.

Non mi perdonerei mai se non parlassi di Lorenzo Viani, poeta, scrittore, pittore e critico, che conobbi alla Fossa dell’Abate, quartiere viareggino nel quale spicca la Villa Viani, tra le Apuane e il mare.

Il mio sodalizio di amicizia con Viani risale appunto agli anni Venti ed ebbe inizio con l’intercessione dello scultore Domenico Rambelli, autore del famoso monumento a Francesco Baracca a Lugo di Romagna e al Fante di Brisighella, cittadina a un tiro di schioppo da Faenza, città della sua formazione artistica, la famosa Culla dei Cardinali tra i quali ricordo l’attuale [l’intervista è del 1990, nda] notissimo Cardinale Achille Silvestrini.

Dimenticavo Giuseppe Ugonia, il più significativo tra gli illustratori della Mondadori, il quale faceva parte del famoso artistico Gruppo Faentino che aveva come esponenti i ricordati Rambelli e Gentilini, nonché Francesco Nonni, Armando Cavalli e i fratelli Toschi.

D. Ho capito, caro Fabbri, lei ha tanta vita vissuta tra l’arte e la letteratura che immagino vorrà ricordarne i passaggi più salienti in un altro libro di ricordi-memorie.

R. Prima di risponderle voglio accennare all’estrosissimo falegname faentino Benandi, di notorietà universale per le sue teorie sulla previsione dei terremoti. Un episodio: quando la stampa degli Stati Uniti, intorno al 1930, scrisse che l’Italia poteva vantare i tre più grandi uomini del mondo: Guglielmo Marconi, Benito Mussolini e Benandi, suscitò l’irritazione del capo romagnolo il quale indignato si vide “paragonato” a un, sia pure estroso, falegname quale appunto Benandi.

Quanto al fatto che lei mi invita a scrivere un nuovo libro sarei lietissimo di farlo, ma purtroppo sono più vicino ai novanta che agli ottanta anni e con questa “giovinezza” che mi ritrovo non posso certo ipotecare il futuro, però compirò ogni sforzo consentito per documentare all’opinione pubblica e ai più eletti studiosi fatti, storie ed eventi degni di essere tramandati come cronistoria del nostro tempo, anche perché serva di legame a certi nostri distratti cultori di storia e di storiografia i quali di solito dimenticano di illustrare le azioni di eminenti personalità.

Questa intervista mi è stata rilasciata qualche anno prima che l’amico giornalista- scrittore morisse. La sua malattia, alla quale non riservava alcun rancore, non gli permise di scrivere come egli avrebbe voluto.

Da qualche tempo non lasciava il letto se non per le neces-sità mediche riferibili al suo stato di malato cronico, però la voglia di fare e la lucidità di pensiero non gli mancarono mai e neppure la critica costruttiva nei riguardi di certa letteratura gli venne meno.

Il mio amico Fabbri voleva conoscere un po’ di tutto, sapere di fatti e di persone. Si interrogava spesso sul “mondo” e tra di noi insorgevano filoni di idee che lasciavano tracce di discussioni, di problematiche da sciogliere, d’interrogativi da risolvere. Era amareggiato per la poca esattezza della storia insegnata ai giovani, per la stoltezza di certi mistificatori che raccontavano episodi storici in chiave ideologica, ma l’artista, il poeta, lo scrittore e giornalista Fabbri era molto turbato soprattutto per la mancanza nei giovani di curiosità, di spinte verso la conoscenza. Né era tenero nei confronti di chi aveva “scritto” la storia falsando il significato delle premesse e svuotando i contenuti.

A certa cerchia di “intellettuali” rivolgeva il suo pensiero perché rivedessero le loro posizioni critiche e prendessero coscienza della realtà.

Il giornalista Giuseppe Fabbri, valoroso corrispondente, inviato speciale e direttore di significative testate, ha lasciato un patrimonio morale di altissimo livello, riscontrabile soprattutto nei suoi numerosi scritti (saggi, romanzi, canti e poesie) di profondo sentire umano e nelle sue tele africane. Vasta e varia è stata la sua attività culturale e artistica nei settori del teatro e pure come ceramista.

Ricordiamo i titoli di alcuni suoi libri: il precitato La comunità mondiale dopo il tremila, una summa-riepilogo di incontri inusuali e di analisi che coprono circa ottanta anni di storia italiana, un libro di scoperte e riscoperte, di valutazioni, di autentiche sorprese storiche e culturali che legano, attraverso il filtro del presente, il passato con il suo più distante futuro. E prima di questa mirabile enciclopedia della conoscenza, ricordiamo i precedenti scritti: Sarabanda, Rapsodie africane, Sarab fonte del deserto e poi Canti africani con prefazione di Vincenzo Cardarelli, Vita segreta di Gesù con prefazione di Giuseppe Ricciotti e viatico del premio Nobel Gabriella Mistral e, ancora, Vita ignota di San Francesco, Canti olimpici e, per mettere un punto, Canti d’Africa con prefazione di Aldo Palazzeschi nonché, ultimo nel tempo, Zaffate di vento.

Questo artista e umanista, galantuomo nella vita e nel pensiero, è uscito di scena dal mondo umano nel più assoluto silenzio non solo degli intellettuali e artisti contemporanei, ma soprattutto di coloro che ne conoscevano l’onestà intellettuale e la cultura. Giuseppe Fabbri è stato ed è rimasto l’amico della mente e del cuore.

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