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Introduzione a
Eratoterapia
di Roberto Mosi
la Scheda
del libro
Le
stanze della memoria
Giuliano Ladolfi
Eratoterapia...
Chiunque si accinga a leggere questa raccolta di poesie non si può sottrarre
alla necessità
di
“decifrare” il significato del neologismo che Roberto Mosi ha scelto come
titolo. La seconda parte,
“terapia”, non richiede senza dubbio spiegazioni, la difficoltà sorge dalla
prima, “Erato”, denominazione
che a
uno studente di formazione classica immediatamente riporta alla mente la Musa
del canto corale
e della
poesia amorosa. La raffigurazione tradizionale la descrive come una giovane,
incoronata di
mirti e
di rose, che tiene in una mano una lira e nell’altra il plettro. Vicino a lei si
scorge un Amorino armato d’arco e di turcasso.
Il suo
nome va riferito a Eros, il dio dell’amore, secondo quanto riferisce Apollonio
Rodio nell’invocazione ad Erato che apre il terzo libro delle
Argonautiche. Ne parla anche Esiodo nella Teogonia, il quale la invocava,
secondo Strabone, nel proemio di un poema ora perduto, la Radina. La romantica
storia di Radina, la cui tomba si trovava sull’isola di Samo, nell’antichità
richiamava folle di innamorati infelici. Erato fu rappresentata come una figura
collegata all’amore anche nel Fedro di Platone. Tuttavia solo più tardi ciascuna
delle Muse furono riferite a una specifica arte.
Da
queste indicazioni si deduce che la poesia amorosa possiederebbe il dono di
“guarire” o, secondo la comune odierna vulgata”, il dono di diffondere il
“ben-essere”.
Ma il
“ben-essere” di chi? Dell’autore che rappresenta un proprio cammino interiore?
Del lettore che
dalla
poesia trae beneficio e sollievo dalle difficoltà quotidiane?
Anche se
intendo rispondere a tale quesito, desidero lasciare aperta la questione, per il
fatto che nessuno, neppure il critico più esperto, può pretendere di esaurire la
polisemia del testo di Mosi. La mia è
una
delle possibili letture, non l’unica. L’iniziale citazione oraziana ci
introduce nel
mondo
della poesia mediante un’invocazione ad Apollo: il poeta lo supplica di non
abbandonarlo in
tarda
età. E quest’ultimo concetto ritorna immediatamente nella prima lirica in uno
scambio di battute
tra la
nipotiva e il nonno, secondo la formula del sermo merus della satira latina,
ribadita da Mario
Luzi
nell’esergo della raccolta Nel magma: il nonno di professione «fa il poeta».
Quindi il “canto” è la dimensione in cui realizza il suo entusiasmo per la
straordinaria città in cui vive, sovrastata dalla stupenda cupola Brunelleschi,
affrescata all’interno dal Vasari, entusiasmo per la zona ricca di memorie
storiche (Il sentiero di Garibaldi), per Palazzo Vecchio, dove sessant’anni
prima ha celebrato il matrimonio,
per la
poesia che ritrae Giulia «elegante / al fianco di Proust / alla cena dell’Hotel
Ritz, Place Vendôme»...
Simili
accenni inducono a compiere una scelta nel dilemma che ci siamo proposti: il
poeta attraverso la
scrittura in versi opera in se stesso una vera e propria terapia riscoprendo la
bellezza dei luoghi in cui
è
vissuto, nei confronti della cultura appresa nel passato e nei confronti
dell’esistenza. Egli avverte che
ogni
cambiamento distrugge la memoria. La ristrutturazione della casa comporta
l’eliminazione dei ricordi e con questi anche l’identità («Vago per le stanze
vuote / alla ricerca del mio io»). Ecco la necessità di uno strumento
sostitutivo che sottragga al tempo la sua azione devastante: la poesia.
Come
ogni manifestazione artistica di valore, l’esperienza personale si colloca
come strumento euristico e gnoseologico di carattere generale e si propone come
invito al lettore a servirsi degli stessi
strumenti per vivere una vita più autentica, più motivata e più serena.
La
terapia produce i suoi effetti sia sull’animo del poeta sia sulla scrittura in
versi («Nella notte mi sveglio / […] / La poesia prende il posto dei sogni»).
Pertanto egli può contemplare l’esistenza con atteggiamento di stupore di fronte
alla bellezza della natura («In ogni angolo della vita / i colori
dell’arcobaleno», le «vacanze al mare», Populonia, Il profumo dell’iris), di
fronte a un’insegna luminosa.
Presta
attenzione ai gesti minimi della povera gente («Amin, in fila dietro di me,
compila / un modulo»;
«Dove
vanno le badanti / a Ferragosto?»), all’iscrizione su una maglietta. La saggezza
e l’esperienza non ignorano la sofferenza personale («Brucia l’angoscia della
solitudine»; Lupo solitario) e quella presente nel mondo (Aleppo è vicina). Il
poeta avverte anche l’affetto che gli giunge attraverso la rete informatica,
attraverso l’amicizia (Le nozze d’oro) o anche attraverso segni minimi come i
Passi sulla neve.
E da
questa temperie emotiva fioriscono bellissime rappresentazioni “esteriori” e
“interiori”, frutto di attenzione, di passione, di gioia e di malinconia (Il
viale dell’ospedale, Il cimitero). La vita esplode in tutte le sue forme, sempre
mutevoli, sempre cangianti, anche se prevale un atteggiamento positivo
(«Benvenuti alla mia tavola, / amici giunti dai tempi lontani»).
L’ultima
composizione è una lettera alla nipotina, nella quale il nonno svela il segreto
della poesia:
«Credo
che sia possibile curarsi con la poesia, per vincere le paure, stati di
sofferenza, per stringere
sogni
che passano in volo, per divertirsi. La voce della poesia arriva dal dentro,
potente nelle ore della
notte,
debole e distratta il giorno. Porta sollievo, se non guarigione, dolcezza di
ricordi, sapori tenui di
malinconia». E il dilemma iniziale trova risposta definitiva in ambedue le
accezioni.
Per Mosi
l’arte “inutile” della poesia possiede un incanto unico, quello di rendere più
sopportabile
l’esistenza e di svelarne i misteri della bellezza e della gioia.
Il
messaggio si presenta quanto mai attuale in un momento storico in cui l’aspetto
“economico” ha assunto un
valore assoluto. Le raccolte di poesie non si trovano sugli scaffali delle
librerie. Le grandi case
editrice
le pubblicano con una parsimonia che rasenta l’ostracismo. I mass mediale
emarginano. La
scuola
non le prende in considerazione.
Ci
troviamo di fronte alla morte della poesia rispetto ad altre manifestazioni di
scrittura artistica
ben più
redditizie?
A mio
parere, proprio in questa situazioni di marginalità la poesia rappresenta la più
tenace forza di
resistenza al capitalismo che valuta la realtà soltanto in base al valore
economico. Anche se non appare,
anche se
non è letta, anche se non è studiata, la poesia viene praticata da milioni di
persone che ad essa
affidano
i segreti della propria esistenza e da questa operazione traggono “terapia” e
conforto. Se la vita
si
limitasse soltanto a un calcolo di beni posseduti, i ricchi sarebbero felici e i
poveri infelici e, invece,
quando
si supera la soglia dell’indigenza, ci si accorge del contrario, perché la
cupidigia, come afferma Dante, «dopo il pasto ha più fame che pria».
Come
sostiene il sociologo Zygmunt Bauman, il consumatore ideale è colui che è
“insoddisfatto”, che ha
sempre
bisogno di altri beni materiali in una spirale senza fine mediante brevi momenti
di appagamento,
immediatamente seguiti da ansie e da ricerche. Per questi motivi la raccolta di
Mosi va interpretata come un vero e proprio inno alla poesia, al suo valore e
alla perennità della sua funzione nella storia della stirpe umana.
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