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La grazia sufficiente
Université Paris-Nanterre
Ho letto quest'estate La grazia sufficiente di
Giancarlo Micheli, nelle pause di un viaggio in moto con la mia compagna nel sud
ovest della Franciae poi nel nord della Spagna. Forse è stato un errore leggere
questo romanzo in un periodo di costanti spostamenti e vibrazioni meccaniche. O
forse no. Un errore, forse, perché la scrittura dell’Autore richiede molta
attenzione, molta presenza attiva in chi legge, scrittura concentrata, prodotta,
lo si avverte ad ogni frase, con estrema concentrazione, e che esige dal lettore
altrettanto impegno: perciò, leggere un pezzo un giorno, far centinaia di
chilometri, visitare, discutere d'altro, e poi riprendere la lettura aveva
qualcosa di frastornante; forse, dico forse, La grazia sufficiente
andava letta in un momento di pace esteriore e interiore (ma questa seconda
forma di pace mi è spesso difficile, per motivi “soggettivi”, legati a chi sono,
all'irrequietezza che mi tiene in pugno; e la prima mi è difficile quasi
sempre, per motivi “oggettivi”, ma che credo derivino in parte dai precedenti:
ho sempre fatto sì da essere iperimpegnato (iperattivo).
Ma forse invece non è stato un errore, proprio per il contrasto tra l'agitazione
di quel viaggio e la calma che pervade e emana da La grazia sufficiente.
Dico calma: non so se sia la parola giusta, ma non sono riuscito a trovarne
altre più soddisfacenti per designare lo “spazio” in cui si svolgono le
avventure narrate. La grazia sufficiente apre, fonda, inventa uno
spazio, uno stato, una realtà come out of the word. Presenta i personaggi e i
fatti in una luce d’oltremondo, come se narrasse non tanto i fatti e i
personaggi quanto le quinte insondabili ed estemporanee del loro agire.
Mi ritrovo pienamente in certe cose che scrive Stefano Busellato riguardo al
Micheli romanziere: è vero, assolutamente vero, che il primo contatto con la sua
scrittura è difficile, ostico quasi: impossibile per il lettore entrarci senza
farci caso, con disinvoltura: il lettore deve invece darsi da fare, prendersi
per mano, durare lo sforzo d'iintendere. Accettare (e ricordarsi) che
leggere non è come sentire una canzonetta, maè un vero lavoro. Ed è vero anche
che, superata la prova, adottato il suo ritmo, addomesticata la sua atipica
prosodia, introiettato il suo “stile” (nei tanti significati del termine),
leggere un testo di Micheli è un'esperienza inconfondibile. Una volta “entrato”
dentro, ogni volta che riaprivo il libro, mi trovavo subito riassorbito in
quella atmosfera rarefatta, essenziale, quintessenziale, in un qualcosa che a
che fare col mito (ho pensato spesso a Pavese, non so bene perché, dal momento
che la scrittura di Micheli è lontana assai della sua; ma ho visto che viene
nominato anche in altre recensioni).
Leggerò altri lavori di Micheli, per primo probabilmente Elegia provinciale,
il suo esordio. Ormai ho capito che la sua non è letteratura d’intrattenimento…
Aspetterò il tempo opportuno.
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Recensione |
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