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La letteratura
occidentale si è aperta con la memoria di un viaggio (Odissea) per dare luogo
poi, soprattutto nel Novecento, ad un viaggio dentro la memoria (la Recherce
di Proust) o le profondità della psiche (l'Ulysses di Joyce). Se tutto
questo è accaduto lo si deve al fatto che essa è una delle risorse più preziose
della nostra vita che, grazie appunto alla memoria, è una realtà estesa, quasi
continua e progressiva, un viaggio nel tempo e con il tempo. Per fortuna non
immagazziniamo tutti i ricordi, alcuni dei quali vengono selettivamente
cancellati grazie alla facoltà dell'oblio che funge da filtro, sicchè solo i
nostri ricordi permanenti vanno a formare un tessuto compatto di concetti eventi
e sensazioni che costituiscono il nostro passato, la nostra biografia personale
o il nostro libro di bordo (per restare all'interno del filo rosso del viaggio
di cui, non a caso, mi voglio servire per questo libro). Un'attività anamnestica
sempre in funzione sarebbe d'altronde insostenibile e comporterebbe esiti
disastrosi (Ireneo Funes, il protagonista di un racconto di Borges, si trova
proprio in questa singolare e per niente invidiabile situazione). C'è una
memoria a breve termine ("memoria di lavoro") e quella a lungo termine.
Ora il
lavorio poetico presente in Memodìa, utilizza perlopiù questo secondo
tipo ("e rivivi il tenero | impaziente bianco | della giovinezza", Echi,
p.14; oppure "melodia ritorna | da un planare di ricordi | sull'acqua della
mente", Memodìa, p.84). E si noti, nella prima citazione, la calibrata
sequenza di aggettivi l'ultimo dei quali sostantivato; il bianco poi è il colore
della purezza, un colore neutro che in qualche modo segnala che niente è ancora
accaduto, perciò il suo accostamento alla giovinezza è felicissimo. Nella
seconda l'originalità metaforica per cui l'acqua diventa figura della mobilità
della mente. Ma in questo libro la memoria è meno dolce ed elegiaco abbandono a
un passato rasserenante che spina conficcata nell'anima ("mulino perpetuo" in
Piena). Allora ecco il primo punto: questo libro - il titolo stesso non
vuole nascondere alcun segreto - è fondamentalmente (ma non solo) un viaggio
nella memoria nel quale tutta la vita (il vissuto, l'immaginato) è rimessa in
circolazione e in discussione. Ma, a meno che non si voglia andare a piedi, ogni
viaggio richiede del carburante. Qui il carburante è il dolore, la
sofferenza, in un'accezione personale/storica. La coscienza (non un semplice e
variabile stato d'animo) del dolore mi pare il nucleo generatore - quindi uno
dei temi principali - della poesia zanovelliana. Ha proprio ragione la pistoiese
Maura Del Serra quando dice: "Il verso è ferita e medicina". Ovvero se il verso
è il certificato di una ferita che dolora è anche il farmaco più adatto a quella
stessa ferita. Tra le tante citazioni possibili scelgo le seguenti: Mutazioni
(p.37): "nel largo vestito del mondo | gonfio di pena"; "il dolce dolore
della Storia", verso della lirica omonima, p.47); Lampare (p.68): "dolore
sapore del mondo". L'operazione poetica è prima di tutto un problema di stato
e solo successivamente di resa. Ovvero occorre sentire dentro di sé uno
stato di potenziamento vitale e spirituale (e il dolore può per reazione
produrre una siffatta condizione: Leopardi più soffriva, più disperatamente
amava la vita), che poi può essere poeticamente liberato.
Memodìa
è un libro ricco, fitto, denso, e proprio per questo di non facile lettura.
L'autrice poi vi opera uno strenuo lavorio sulla parola, il sintagma e il verso
a costo di complicare la ricezione testuale. Di ciò pare lucidamente
consapevole, come si deduce peraltro da un suo saggio teoretico: "Non sempre vi
è presa diretta del testo sul lettore, anzi la trascrizione stilizzata,
l'inedita scelta lessicale, pur operata con calcolata coerenza, gli artifici di
suono, l'alta percentuale di metaforicità, l'ambiguità di senso, il paradosso
[...] rendono talora ardua la ricezione" (Scrittura poetica e funzione
estetica, "Punto di Vista" nr.36, aprile-giugno 2003). D'altronde la
complessità di un libro di poesia riuscito rinvia sempre alla complessità del
mondo. L'acutezza del lettore è dunque messa alla prova da queste 58 liriche
equamente distribuite in quattro sezioni. Inoltrarsi in esso è come attraversare
un bosco in cui ad ogni piè sospinto si affacciano davanti agli occhi del
viandante sentieri grandi e piccoli. E' allora giocoforza scegliere alcune
direttrici di senso. Il discorso sul dolore e sul viaggio che facevo poco fa
rientra ovviamente in questo approccio. Vediamo le altre. Innanzitutto direi che
siamo in presenza di una scrittura che si radica nel sublime. Per "sublime"
intendo l'elevatezza del pensare, del sentire, dell'immaginare e
dell'esprimersi. Così facendo, la poetessa padovana lancia una vera e propria
sfida a questi nostri tempi, così estranei al concetto e alla pratica del
sublime, così inclini alla manuntenzione del corpo, non a quella dell'anima. Il
titolo della prima sezione (Tiene così alto il tono) mi sembra indicativo
a questo proposito; quale che sia il suo referente testuale è come se LGZ ci
dicesse: se tutto sembra trascinarci in basso, cerchiamo di volare alti.
Leggendo le poesie di questo libro mi è venuta alla mente la famosa massima di
I. Kant: "Il cielo stellato sopra di me, la legge morale dentro di me". Il
filosofo tedesco opportunamente non ha detto ciò che vedeva intorno a sè, perchè
forse avrebbe dovuto parlare della miseria umana che lo circondava (come tuttora
ci circonda). Infatti quanti cieli nella poesia zanovelliana! Stellati o
nuvolosi, albeggianti o arrossati dal tramonto. L'io trova perlopiù conforto
nell'alzare lo sguardo. Proprio per questo parlo di sublime, il cui opposto è il
basso (o l'infimo). La polarità si fa chiaramente percepibile sul versante
ideale e etico, ma non su quello espressivo (infatti sono escluse parole ed
espressioni basse). Insomma si ama tutto ciò che è nobile o regale (cfr.Regalità,
p.24) e si odia ciò che è plebeo o volgare. Questa polarità (basso/alto-sublime)
rinvia per omologia a quella, pure presente, peso/leggerezza, essendo di tutta
evidenza che ciò che è basso è anche pesante e ciò che invece è alto si
accompagna all'idea della leggerezza.
La lingua
zanovelliana, con i suoi arcaismi, i latinismi (auscultare invece di
"ascoltare", ma è solo uno dei tanti esempi possibili), i preziosismi, la
sintassi paratattica e l'uso limitato e asintattico della punteggiatura mi pare
segnata da una splendida inattualità. Questo linguaggio "sublime" ha una
funzione distanziante, smaterializzante rispetto alla puntualità degli eventi e
delle affezioni dell'animo. Ma certo si potrebbe parlare di oltranza per
l'adozione del registro sublime, mentre la tendenza di fondo del Novecento,
specie della sua seconda metà, è stata la riconciliazione col quotidiano. Ma
scorgo dell'oltranza anche nel perseguire trame foniche (rime, allitterazioni e
assonanze) a costo di perdere un po' di vista il senso del discorso, talchè il
lavoro di LGZ presenta qualche zona di oscurità. Generalmente se l'oscurità è
simulazione di profondità è censurabile, se invece - come perlopiù qui - denota
sforzo di sondare l'inesprimibile o il non facilmente esprimibile è
giustificabile. Tuttavia due paginette di note essenziali e contestualizzanti in
fondo al libro ne avrebbero agevolato la fruizione.
Una polarità
importante è quella eros/thanatos, ma è facile avvertire che l'eros è rimosso e
sublimato in amore, inteso come slancio dell'anima tendente ad abbracciare la
totalità creaturale; a thanatos si collegano invece presagi di morte e figure di
morti. Ma entrambe le pulsioni dettano espressioni di grande delicatezza (per la
prima cfr. Renovatio, p.38: "un cuore inconsumato sella | per un'altra
avventura"; ma penso anche ai vagiti di bimbi appena nati: "peso che sgrava
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nel tondo grido rosso | di un vagito" in Nascenze, p.30 e qui mi pare
notevole quella che chiamerei una sinestesia rafforzata). Ho detto poco sopra
"delicatezza" anche perchè ho riscontrato tutta una serie di aggettivi (mite,
frale, dolce ecc.) ad alto tasso di frequenza che insistono su
questa area semantica. Giustappunto, quello che mi colpisce nella poesia
zanovelliana è la perfetta fusione di forza e appunto di delicatezza: la prima
deriva dalle proprie irrinunciabili convinzioni; la seconda è invece relativa
alle particolari modalità con cui le si esprimono. Un'altra polarità degna del
massimo interesse è stasi/mutamento perchè sembra legarsi ad una singolare
visione del mondo con qualche risvolto profetico. Incidentalmente osservo che
profeta è chi parla prima che le cose si manifestino, evocandole con chiarezza
pur senza descrivere nello specifico la realtà futura; e che non è una pura
coincidenza se la prima poesia di questo libro s'intitola Vaticinio. In
Spirali (p.72) il vascello della coscienza traghetta l'anima (proprio
quel viaggio di cui parlavo all'inizio) "dal vivaio degli insapienti | alla
linea | di gioco | nel fuoco | degli eventi | che mutano | e crescono |
dell'universo il fiore". Nella successione rapida dei versi è facile cogliere
una fibrillazione mentale ed emotiva straordinaria. Ecco, gli eventi mutano o
muteranno e il dolore con essi si dissolverà dando frutti che oggi non è dato
conoscere ma sulla cui certezza non v'è alcun dubbio. L'immagine del "fiore
dell'universo" dà un potente respiro cosmico alla poesia zanovelliana, e la
certezza di far parte di un concerto universale in cui il pianto di oggi
diventerà la gioia di domani, in cui i nostri titoli di credito conserveranno
intatto il loro valore (e non si trasformeranno in carta straccia come quelli
della Parmalat, è presente in Pasture (un titolo che di per sè non
farebbe pensare a qualcosa di immateriale, di qui la sorpresa) dove si legge:
"lascia suggere il miele | del tuo profilo migliore | che se ne cresca la Vita,
| che dall'innesto del tuo piede | sulla terra, | anche di te si pasce | per
rifiorirti petalo diverso, | ennesimo colore che non era | nel novero dei nati".
Tutti possono capire che questo è un passaggio stupendo, dove alita un'autentica
spiritualità. Ora voglio notare che il nostro tempo vive nel vortice del
cambiamento e della trasformazione: ma è un mutamento orizzontale, continuo e
spesso dissennato, senza un elemento che verticalizzi l'esperienza, che dia
senso all'uscita da sè, alla metamorfosi. In Memodìa questo elemento
verticalizzatore è una tensione che non posso non chiamare escatologica.
Talvolta, più modestamente, è la "bianca nuvola " di Nel quadro di Monet.
C'è qualcosa di più metamorfico e leggero di una nuvola? Costringendo a guardare
in alto diventa il segno del trascendente. Secondo E.Canetti lo scrittore è
"custode della metamorfosi"; la letteratura sarebbe il luogo della memoria e del
nuovo, di qualcosa che proiettandosi verso il futuro si pone al di là della
memoria stessa. LGZ si muove proprio su questa linea.
La condizione
dell'io mi sembra paragonabile a quella dell'esule, dello sradicato, piagato ma
non piegato. Dimentica le sue ferite quando contempla uno spettacolo naturale,
dimentica che il mondo è l'eliotiana terra desolata quando intravede una qualche
incursione angelica o si abbandona alla generosa utopia della metamorfosi
escatologica. Non a caso ho usato la parola "utopia", suggeritami da un passo di
C.Baudelaire: "E' un grande destino quello della poesia! Gioiosa o lamentevole,
porta con sè il divino carattere dell'utopia. Essa contraddice senza
tregua il fatto, pena il non esistere più. Nella prigione si fa rivolta; alla
finestra dell'ospedale è ardente speranza di guarigione; nella mansarda sudicia
e lacera, si acconcia come una fata dl lusso e dell'eleganza; essa non constata
soltanto, ma ripara. Dovunque si fa negazione dell'iniquità". Ora io non so se
la poetessa padovana sia a conoscenza di questo passo bodeleriano, ma so che la
sua poesia si colloca nello stesso orizzonte ideale. E' infatti una poesia
riparatrice e negatrice dell'iniquità. E' una poesia che si colloca sul
mobilissimo confine che divide il sogno dalla realtà, la luce dalle tenebre, il
male dal bene, il visibile dall'invisibile; sa ascoltare il grande respiro
cosmico del mare ma anche il fruscio della piccola foglia. A proposito di luce
segnalo che l'ultima sezione di questo libro, caratterizzato da un forte
dinamismo interno, come spero di aver dimostrato, s'intitola Canto di luce.
Ora noto che se v'è canto, c'è gioia - e il dolore diventa ormai una presenza di
sfondo - e che la parola "luce" è contenuta nel nome della poetessa: Lucia.
Insomma, parlare di luce non è un po' come mettere la propria firma?
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Recensione |
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