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Amare serve
La
silloge contiene poesie scritte
nella prima meta degli anni Duemila,
unificate (come suggerisce una nota
introduttiva dell'autrice) da un discorso
sull'amore come fitta trama di relazioni
intercorrenti tra chi ama e chi è amato, così come tra chi ricambia
quest'amore amando a sua volta. Un
insieme di attenzioni, premure, generosità,
disponibilità a servire in un
mondo disattento, indifferente, avaro, uso a comandare: ecco cos'è,
tra le altre cose, l'amore. Sovverte le
regole dell'egoismo e della
competizione: "Servire a qualcuno, a qualcosa,
l'ambizione più grande per ciascuno che
si trovi da questa parte del
Creato ed è questo servizio la vera missione dell'esistere. La si
assolve amando" precisa ancora la nota che precede
le trentuno liriche, fornite di una estrema densità concettuale. "Amore | è la metodica luce
| che fiorisce i giorni", inizia,
e già quel "metodica" è aggettivo su cui moltissimo si potrebbe scrivere,
esplicare, dilungarsi. Prosegue: "avvenente e avvenuta melodia | di
questa servitù di passaggio", e potremmo
ripeterci.
Il tema, affrontato con la perizia di linguaggio che le
è
conosciuta (Lucia Gaddo ha all'attivo oltre una quindicina
di raccolte), incoraggia il lettore a farsi strada nel testo,
seguendo semplicemente le libere
associazioni, le evocazioni e le
risonanze che ciascun vocabolo, verso e immagine susciteranno
in lui. La dialettica è tra "amore serve" e "amare serve", a dire
la necessità tanto del dare che del ricevere poiché
l'atto, nell'amore autentico, è di per
sé scambievole. Ma non automatico: beato, afferma l'autrice, chi "studio e
fatica imprime al voler bene", che è sì dono istintivo e gratuito, ma tutt'altro
che cieco e ignorante. La nostra "immite finitezza disagiata",
debitrice di pace e assetata di virtù, anela "l'inesausto acerbo
adempimento" del proprio compito terreno, che è l'amore.
Questi pochi lacerti esemplificano il valore di un dettato
sostanzioso e nutriente in tempi nei quali, purtroppo, il discorso
sull'amore è banalizzato oltre ogni limite.
Dopo queste prime
poesie introduttive e "programmatiche", tuttavia, il libro procede
con liriche nelle quali l'amore non è quasi più nominato, né vi ricorrono immagini che lo evochino. La situazione
appare spiazzante: la poesia inizia a
parlare d'altro, d'assenza e
abbandono, di perdita e silenzio, di paesaggi invernali e di
gelo, con decine e decine di vocaboli rivolti nella stessa direzione.
Dov'è quest'amore che
serve?
Lucia Gaddo Zanovello non dice nulla al riguardo e noi, in
queste pagine, non possiamo che riconoscere un lutto, ignoriamo se reale e
metaforico, ma un lutto. L'amore riappare verso la fine del libro, ma
sembra trasfigurato: "Non è io sono, ma tu sei me | il motto che
richiama imperituro". L'ultima poesia,
Nello
stesso
manto,
culmine della silloge per significato ed esito: "Da una assenza
sperduta vi chiamo | con le parole morbide dei primi albori. |
Gli sguardi fra le anime ritessono il mantello..." sfociando poi nella
dichiarazione che "l'io è nel noi perché Tu, | voce di sapienza
esatta, sei negli amori, | quel te che in me si è perso | sapore di quel che
so di me | identità che
vede della Tua luce".
Non riportiamo gli ultimissimi versi,
lasciandoli al lettore, e ribadiamo: non sappiamo di cosa esattamente, biograficamente, Lucia Gaddo ci abbia
parlato, ne lei lo spiega. Ma il suo
cammino nell'amore, nella sua idealità e
trasfigurazione, trasmette il senso e il respiro di un discorso altissimo,
al quale accostarsi cercando – più che emozioni immediate – occasioni di
seria riflessione e preziosa conoscenza.
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Recensione |
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