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Avvicinarsi alla prosa e ai lavori letterari di Giulio Ghirardi

Ateneo Veneto
Venezia, 8 maggio 2012

Alberto Zava
docente di Letteratura contemporanea
Università di Ca' Foscari

Avvicinarsi alla prosa e ai lavori letterari di Giulio Ghirardi non significa solamente leggere un testo su una pagina oppure seguire uno svolgimento di una trama nello scorrere delle pagine di un volume o come in questo caso su tre diversi volumi di un’unica trilogia. La scrittura di Ghirardi dotata di un’impostazione plurisensoriale, multidimensionale e caratterizzata da quella quasi contraddittoria frammentazione compositiva, richiede allo spettatore, quindi molto più che un semplice lettore, un complesso e completo apparato strumentale di ricezione e attenzione, con la necessità assoluta di attivare, oltre ai consueti meccanismi della lettura, anche strumenti di accostamento tematico o di dislocazione concettuale ed estetica. Le linee narrative di Ghirardi non si sviluppano mai in un senso propriamente lineare, ma si appoggiano su livelli diversi, quindi attingendo molto di più alle tecniche della vedutistica, della ritrattistica pittorica, che è costituita di nuclei d’indagine e particolari meccanismi di focalizzazione che nonostante il loro impianto ovviamente statico, quindi apparentemente contemplativo, di fatto raccontano una storia poggiata su dinamiche che non necessariamente coincidono con lo spostamento fisico lungo le direttrici spaziali e temporali. Ecco che i veri protagonisti dei quadri narrativi di Ghirardi, e probabilmente li chiamo così perché sono dei veri e propri quadri in esposizione nei volumi di questo trittico, non sono i veri e propri personaggi come solitamente li intendiamo, ma sono i nuclei tematici che grazie all’ausilio dei personaggi che compaiono nella forma usuale, delineano, contestualizzandoli i propri tratti distintivi, quindi nuclei tematici che grazie ai delicati a volti sfuggenti fili delle trame narrative, si definiscono, s’intrecciano, costituiscono quella polifonia di colori, di sensazioni, di sfumature, che spiazza e affascina chiunque si avvicini alla scrittura di Giulio Ghirardi.

E’ in virtù di una tale sfasamento normativo, e in virtù della decentralizzazione della funzione del personaggio, che non sorprende affatto ad esempio assumere nell’ultimo quadro di “Teatrino Tascabile”, il secondo volume del trittico, sempre che ci sia un ordine in questo trittico, assumere il punto di vista di una poltrona in un’ambientazione di palcoscenico teatrale. Il lieve protagonista della narrazione in questo breve monologo è in realtà la voce per un surreale, anomalo punto di vista nel contesto teatrale delle dinamiche che nascono tra il pubblico e gli artisti, tra il regista e gli attori, tra gli autori e i critici. Quindi il mio intento in questo mio breve intervento è quello di evidenziare lungo i tre volumi del trittico, alcuni di questi nuclei tematici veri protagonisti della narrativa “ghirardiana”, identificando solo alcuni degli innumerevoli effetti che l’intreccio di tutti i diversi piani comunicativi, sensoriali e percettivi vengono provocati nel lettore, quindi demandando alla lettura personale stessa, così come accade nell’osservazione di una tela o per l’ascolto di un’esecuzione orchestrale, la definizione dell’esperienza estetica provocata dall’opera, che è spesso intimamente connessa con la disposizione interiore ed emozionale dello spettatore. Non è un caso che avvicini alla scrittura di Ghirardi gli universi pittorici e musicali, la precisione strutturale che viene indotta anche in modo subliminale dal particolare di un orologio nella copertina di “Numeri Chiusi”, il primo volume del trittico, la precisione strutturale della costruzione della prosa dell’autore, orchestra magistralmente l’incastrarsi dei piani, quindi dei punti di vista e degli snodi narrativi e figurali, proprio come in una partitura musicale in cui il compito di portare il tema principale viene di volta in volta assunto da strumenti e voci diverse, abilmente gestito in un gioco sinfonico di incastri armonici e correlazioni tonali.

Altrettanto la scrittura “ghirardiana” è assimilabile ad una composizione pittorica, che attraverso uno studiato, ma attenzione molto naturale, intreccio di colori e di toni che nella loro costitutiva opposizione e complementarietà, contribuiscono a creare sfumature e mescolanze inattese. Inoltre a confermare un impianto artistico di tal genere, contribuiscono gli stessi attori dei quadri narrativi di Ghirardi, spesso infatti i protagonisti o comparse sono artisti o musicisti e le tematiche pittoriche/musicali centrali o semplicemente incidentali.

Quasi una sorta di manifesto proimiale della narrativa di Giulio Ghirardi è rappresentato dal primo racconto del trittico, dal titolo “Un piccolo dono”, che fornisce la cifra stilistica della comunicazione letteraria dell’autore. E’ una piccola riflessione, una riflessione intima di una pagina, sullo scorrere del tempo, con al centro della vicenda un solo piccolo insignificante secondo in più, che si viene a sapere che verrà regalato nell’anno successivo. L’autore sottolinea che i regali minuscoli sono i più raffinati, ed è proprio quel secondo in più che da lo spunto per un raffinato catalogo improvvisato dell’infinitamente piccolo con in anteprima tutte le connotazioni e le implicazioni poetiche preferite dall’autore. Quindi la letteratura, la natura, la musica, la voce e il teatro. Così scrive Ghirardi: “… lasciatemi consultare l’orologio psicologico e ti comunicherò la lista di doni corrispondenti ad un secondo di vita. Il tempo di pronunciare una sillaba, di staccare un ago di abete, il tempo di un accordo ideale, di un’interezione, di una battuta teatrale alla Jonescu, un sì, un no, un ma, i puntini di sospensione debordano dal regalo”. Allo stesso modo un solo secondo in più, una sola un’unità di tempo aggiuntiva, per quanto piccola sia porta scompiglio in un’organizzazione strutturale rigorosa. L’aggiunto del tempo in un contesto in cui la divisione metrica sia rigorosamente stabilita, non è accolta ovviamente come un vantaggio, quanto piuttosto come un deragliare stesso dai binari di un certo continum, e questo in un certo senso destabilizza lo stesso personaggio del piccolo racconto.

I nuclei tematici principali e quindi i protagonisti del trittico s’intrecciano su diversi piani sensoriali e percettivi, ma attraversano con diversa frequenza ed intensità, l’intera raccolta, quindi espandendo la propria presenza in modi e forme diverse, reagendo in modo diverso con altri elementi emozionali. Ecco quindi che al centro delle pieghe letterarie di Ghirardi, uno spazio privilegiato viene occupato proprio dalla memoria, che nelle sue svariate declinazioni e applicazioni, viene a concretizzarsi spesso in modo inatteso e sorprendente. Come tutti gli elementi tematici di Ghirardi, anche la memoria viene sollecitata da reagenti esterni, quindi acquisendo sostanza concreta proprio nell’interazione diretta che molto spesso è casuale, inaspettata, in una sorte di richiamo “proustiano”, interazione con l’ambiente circostante, con le emozioni individuali, con gli snodi di vicende impreviste, ad esempio “Un giorno di febbre” che coincide con il titolo di un quadro di “Numeri Chiusi” può essere stimolo alla memoria che inevitabilmente, scrive Ghirardi, risvegliata dalle emozioni, produce racconti e raffiche di pensiero. Le direttrici della memoria non sono prevedibili e contestualmente alla situazione medica di un giorno di febbre si tratta, assumono nel quadro ghirardiano di volta in volta applicazioni e aspetti puntuali ed evocativi, così viene descritta in una delle tante occorrenze la memoria: “… la memoria è una colonnina di mercurio, scende, si blocca, sale in fretta, come sollecitata da uno strofinio non previsto”.

Nel capitolo dedicato ai testamenti di Mr. Brooks, la memoria invece si concretizza in testimonianze fisiche, quindi conseguenza della funzione stessa del personaggio di custode e collezionista. Quindi un tentativo di recuperare e di conservare gli strati della memoria e le vicende della storia in oggetti che, al di là del loro valore intrinseco, diventano vere e proprie manifestazioni materiali di un processo mnemonico individuale, proprio per altro di una persona che nella sua stessa inclinazione politica conservatrice nasconde l’etimo della conservazione storica e memoriale, e la disposizione all’antico, così lo inquadra Ghirardi: “… Mr. Brooks è un conservatore, un uomo all’antica, i ritratti dell’Ammiraglio Nelson tra repliche ed originali campeggiano in tutto il palazzo, è un collezionista meticoloso, un cultore di cimeli storici e porcellane lussuose, di pastelli, acquarelli di ogni soggetto…”. Il tentativo stesso di incasellare la memoria, di fermarla in una definizione statica, stabile, s’infrange inesorabilmente contro la precarietà e la sfuggevolezza dei puntini di sospensione, contro la varietà di riferimenti causali e conseguenti, mescolata com’è fin nella sua essenza intima con i pensieri, con le sollecitazioni cromatiche e sonore. Infatti in un semplice dialogo in treno tra un direttore d’orchestra e un bambino, nel brano intitolato Erdiman, nella mente del direttore le sensazioni s’intrecciano inevitabilmente con i ricordi, in un processo imprescindibile, necessario, ma allo stesso tempo inafferrabile e il breve inciso “ghirardiano” coglie con immagini simboliche e minimali l’intensità del processo, scrive Ghirardi: “… la memoria è una scatola magica, si apre e si chiude, i ricordi scappano, i segni particolari perfino gli sguardi dei personaggi prendono la via dell’esilio…”. Sempre più la memoria assume i contatti concreti di un vero e proprio palcoscenico di vita, un luogo dove le cose accadono più che essere rievocate, un vero e proprio “teatrino tascabile”, proprio il titolo del secondo volume del trittico. Uno sfondo quindi dinamico su cui facilmente tutti i generi della rappresentazione si adattano, in cui si allestiscono tutti i possibili allestimenti e si sviluppano tutte le possibili trame, quindi perdendosi in una metafora che sempre più avvicina la vita stessa ad un contesto teatrale e la memoria ad una recensione privata costellata però non solo di valutazioni e giudizi, ma di suoni, di emozioni, di colori e di luoghi. “La memoria è un teatrino tascabile”, scrive Ghirardi, “è uno scenario che si adatta a tutte le trame, ogni piazza, ogni campo è una platea sonnolenta, i palchi spuntano come finestre, le mani si affacciano senza fare rumore, gli applausi non sono richiesti, i complimenti affaticano le corde vocali…”, ma soprattutto la memoria di Giulio Ghirardi è un vero e proprio personaggio narrativo, una costante presenza che grazie alla scrittura raffinata dell’autore acquisisce uno spessore visivo ed addirittura performativo, dotato di una propria voce, di una propria capacità d’azione, di un suo suono distintivo che accompagna in un parallelo misterioso la dimensione fisica della vita. Nel quadro narrativo “Il gioco del testamento”, il terzo volume del trittico “Un cumulo di bugie” si legge: “… la memoria non perde la voce, la memoria risveglia con la grazia di un carillon voci, battute, figure che nel bene o nel male ci hanno aiutato a puntellare i dubbi, le nostre domande non sempre opportune…”.

Un secondo nucleo tematico che volevo evidenziare in questa sede, con tutte le ovvie limitazioni delle analisi circoscritte specifiche che non possono che risultare parziali e campionarie rispetto all’esperienza di una lettura personale che può far interagire il proprio sentire con la prosa che è molto ricca di spunti e di suggestioni di Giulio Ghirardi, un altro elemento è quello della sfera sonora e di quanto i rumori, la musica, il silenzio stesso incidano nell’esperienza narrativa “ghirardiana”. Già come si è visto in precedenza l’impianto stesso della scrittura dell’autore tradisce una struttura e una mente organizzata secondo canoni di composizione musicale, in più i suoni stessi, che siano rumori o musiche e l’assenza di essi, assumono funzioni fondamentali nello svolgimento della vicenda o nell’allestimento del quadro narrativo, arrivando a personificazioni o oggettivazioni dinamiche ed entrando in rapporto diretto con i personaggi, con le azioni e addirittura con gli animali. Ecco quindi che nel ritratto descrittivo organizzato dalla nonna protagonista del già citato “Un giorno di febbre”, nel primo volume “Numeri chiusi”, la voce della signora assume oltre alle sfumature sonore anche altre caratteristiche, in un intrecciarsi di piani espressivi e percettivi, quindi oltrepassando la pura finalità di comunicazione del personaggio ed assumendo talmente forte da renderla protagonista essa stessa della narrazione. Così scrive Ghirardi: “… la voce è un’antologia di frammenti, poche frasi e centinaia di note, di analisi, di giudizi non richiesti da alcuno se non dal volere del critico o dallo snobismo che premia le edizioni critiche e disprezza i versi nudi, scandalosamente sprovvisti di indumenti consoni alla morale filologica dei ben pensanti, le chiose, i preamboli esprimono la fatica di abbordare i concetti espressi dai versi, limpidi e puri come i pensieri dell’antenata…”. La musica ancora si confonde con i rumori nel brano “Fuochi di mezzanotte”, sempre “In numeri chiusi”, in una situazione in cui per il gatto del protagonista il fuoco d’artificio non rappresenta un colorato spettacolo visivo, ma un trauma acustico vero e proprio, in uno spostamento di attenzione qualitativa nei confronti dell’evento, che non è più appunto cromatico/visivo, ma esclusivamente sonoro, nel racconto i fuochi non si vedono, vengono rappresentati esclusivamente come rumori. In una surreale trasposizione del punto di vista, anzi del punto d’udito, nel personaggio animale domestico, la musica soverchiante che copra questi suoni, questi rumori di botti, è l’unica soluzione, quindi Bruckner, Händel, Wagner, Chopin, diventano anno dopo anno esperimenti di protezione per le orecchie del gatto, unica salvezza dal rumore di un bombardamento festoso. Solo negli intervalli e nei cali di concitazioni musicali riappaiono le minacciose esplosioni, in realtà segno di festa. Di fatto una raffinata riflessione sull’interazione del rumore e della vita e sull’opportunità di un sottofondo adatto ad ogni attività, sottolineando in chiusura del testo come il ronzio minimalista del climatizzatore, nello stesso luglio veneziano dei fuochi del Redentore, sia il sottofondo più adatto ai monologhi e agli appunti stonati, un vero e proprio esempio di trasposizione dinamico attiva dell’accompagnamento sonoro.

Numerose infine sono le immagini puntuali cui il lettore può cogliere l’espressione proprio grazie alla multidimensionalità sonora, ecco quindi che in finali che non finiscono, una fugace silhoutte femminile che viene connotata caratterialmente grazie al dettaglio sonoro, così la breve descrizione: “… la ragazza indispettisce la calle con i passi affrettati, offende il ponte con il fragore martellante dei tacchi…”. Oppure l’atto stesso della scrittura che sorprendentemente viene descritto e connotato in “Voce di miele” dal secondo volume proprio dalla qualità sonora della stessa, scrive così Ghirardi: “la scrittura cos’è? Rumore, il pennino graffia la pagina, indispettisce le orecchie, il dispetto devasta lo spirito, increspa la pelle, l’estro cade come un peso superfluo e invoca il cappuccio che giace sul pavimento in attesa di aiuto… la scena è banale, più banale del ticchettio della macchina da scrivere… la scrittura è silenzio, le pagine più rumorose nascono dal silenzio e al silenzio ritornano dopo un ciclo di attualità limitata”. Il suono della scrittura quindi, suono che però non può fare a meno di tornare verso quell’inevitabile silenzio da cui è partito, ma che ormai non è più come il silenzio iniziale e che ora è somma di tutti i suoni e rumori, tanto quanto la luce è somma di tutti i colori. Un silenzio che elegantemente interpretato dalla prosa di Giulio Ghirardi e dalle sue raffinate riflessioni e pause, comunica molto di più e molto più efficacemente di parole sguaiate e scagliate ad alto volume.
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