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Erotismo e delitto come “Ianua aeternitatis”
ne L’esecuzione di Apollo

Una composizione stratificata ed esoterica come L’esecuzione di Apollo si presta ad una complessa serie di analisi che coinvolgono il critico e il comune lettore, proprio in ragione della straordinaria polivalenza semantica di cui è carica.

La poesia sembra originata da un biglietto che l’amico Grytzko Mascioni invia dal mare greco, definendo la poetessa “ultima Musa” di Apollo, ma la figura apollinea, con la sua metaforica “ilarità”, permea da sempre la poesia lenisiana, come allegoria di una gratificante rivincita poetica sul tempo, sul dolore, sulla precarietà dell’umana vicenda. L’Apollo cui la poetessa fa riferimento è quello Veio, la statua acroterio, fittile e policroma, del periodo ionico-etrusco, facente parte di un gruppo comprendente anche l’Hermes, conservato a Villa Giulia.

La situazione narrativa è quella di un delitto, forse di un doppio delitto, in quanto il verso 3, con la proposta di variante della/dalla, ammette tanto l’esecuzione del dio, quanto quella della sua “sacerdotessa”. Ma poco importa chi sia la vittima designata: tanto, si tratta di un crimine compiuto con reciproca complicità.

Ha scritto Flaubert: “L’amore è l’unico delitto in cui non si può fare a meno di un complice” e, in effetti, qui assistiamo ad un metaforico coito, in cui si giunge al reciproco annullamento, che diviene mistica esaltazione, in una “morte” che si fa palmare metafora di un mutuo, delirante, totale appagamento, di un’integrale rigenerazione.

Un erotismo valoriale e totalizzante non può, infatti, ammettere qualcosa di diverso da un pieno annullamento delle singole individualità, fino a postulare una fusione che è misticismo puro, concettualmente vicino alla cancellazione del sé, in nome della ricerca di una superiore e perfetta integrazione (ha scritto Julien Green: “Mi sembra certo che lo sbocco normale dell’erotismo sia l’assassinio”).

E tale “misfatto” è tanto perfetto da evocare il Seneca dell’“Hercules furens”: Prosperum ac felix scelus | virtus vocatur, come dire che un “delitto” coronato da successo diviene, nell’opinione comune, virtù.

Così, nel nostro testo, troviamo un’esecuzione che viene descritta con crudezza di particolari (“strappi il cuore, | i capelli di pietra”, “fori gli occhi”, “incida la bocca”), eppure il lettore, affascinato e complice, percepisce immediatamente il significato rituale ed erotico dei gesti, come intuisce la complicità del dio che “aspetta” l’esecuzione, non con masochismo, ma in preda ad un’intensa, febbricitante ed impaziente emozione, arpionato da un palpitante coinvolgimento fisico e mentale.

È come se la statua volesse, con la cancellazione della propria natura inerte, animarsi e trasformarsi in un essere vivente, capace di sussulti, di passioni ardenti, di pulsioni umane che gli sono estranee e che invidia.

Come gli angeli di Wenders, Apollo “desidera” identificarsi nell’umana debolezza, che significa anche capacità di amare e di soffrire, ed è disposto a rinunciare alla propria immortale, atarassica, ma gelida perfezione. Così la sua apparente morte è un aprirsi alla nuova vita.

Come la scultura michelangiolesca, che procede per sottrazione, così l’umanizzazione di Apollo, magistralmente compiuta dalla Lenisa, comincia col togliere alla statua un cuore di pietra, strappa i lunghi bioccoli scuri distesi a ventaglio, fora gli occhi a mandorla bianco lucente dalle nere pupille, consentendo finalmente di vedere, e dalla loro chiusa cecità traboccano limpidi sprizzi d’azzurro, simili a quel trasparente mare greco dal quale Grytzko manda i suoi voti.

Così l’“Apollo mortale” ora può provare emozioni e vedere, ma non può ancora sentire e parlare. Ecco che Maria Grazia gli apre le orecchie e “col punteruolo” incide la bocca, umanizzando quest’immobile orifizio dal sorriso enigmatico e freddo.

Per parte propria, “l’ultima musa” subisce una sorte contraria, per effetto di un procedimento perfettamente speculare: muta completamente la sua natura, divenendo materia della stessa materia (“si fa pietra della stessa pietra”) e dunque, in qualche modo, eterna.

Il mare si ribella a questo stravolgimento e vorrebbe opporsi al sacrilegio, ma la sacerdotessa della poesia, che con la sua profonda intuizione ha saputo “aprire gli occhi” alla comprensione di tante verità, è ormai completamente pietrificata, congelata nella fattispecie di una divinità, immutabile ed eterna, destinata, con la sua morte, a vivere per sempre. Perché, per essere eterni occorre avere pazienza, bisogna morire per risorgere.

Forse è il dio che, umanizzandosi, è divenuto poeta; forse è la poetessa che si è trasformata in divinità, rendendosi perenne nella materia immarcescibile.

Certo è che l’uno e l’altra vivono in perfetta simbiosi, avendo integrato e inscindibilmente combinato le reciproche identità, quasi per un miracolo d’impossibile manipolazione genetica. Ma questa è semplicemente una delle tante ipotesi di lettura che il critico può suggerire, senza esimersi dal dovere di ricercarne e segnalarne alcune altre, non meno potenti e suggestive.

L’Apollo omerico del primo libro dell’Iliade è la divinità che scaglia le frecce mortifere sul campo greco, ma – per quella logica dei contrari cui non sfugge il mito – è anche “purificatore” e salvatore, ovvero allontana il male e scampa dalle pestilenze, come sotèr e iatròs.

Come non leggere, dunque, il contrasto anche in questa chiave apotropaica nei confronti della sofferenza fisica e della malattia? Come non scorgere nello scontro mortale uno scambio di ruolo, una lotta per la sopravvivenza, che origina da un innato istinto di conservazione?

D’altronde non è fuori luogo ricordare l’aspetto oracolare legato al culto del Dio, anche in riferimento alla sua celebrata “ambiguità” che, letterariamente traguardata sul versante polisemico, costituisce una delle doti di fondo della vera poesia, e particolarmente di quella della Lenisa, moderna Pizia dal verso multiforme e spiazzante, rispettoso di sé e spregiatore dell’ovvio.

Varrà quindi citare l’origine babilonese o ittita del dio dell’estasi mantica, che poi la fantasia greca farà “musagete”, ovvero Capo delle Muse.

È anche in questa veste che certamente Apollo diviene protagonista del testo in questione. Ma Apollo è anche il dio che ritma il tempo, è Luce, è Febo, e scandisce con la sua cetra luminosa, splendido citaredo, la misura e l’armonia dell’Universo.

E però è, nel contempo, anche il dio della giovinezza, amico degli efèbi, delle ninfe e delle donne, nuda creatura innamorata dell’amore, splendidamente bello (e, come tale, forse anche simbolo del “bene morale”).

E la bellezza di Apollo è tale da riempire il cuore di gioia e d’angoscia, di ammirazione e d’invidia, d’amore e di rabbia.

Di questi simboli e significati, ma non solo, è carica la figura che Maria Grazia Lenisa si è scelta come alter ego – diverso ma mirabilmente complementare – in L’esecuzione di Apollo.

Perché Lenisa, che tanto sa e tanto “vede”, concorda certamente con Montale nel ritenere che la realtà fenomenica non è che una fonte minima di conoscenza, che annebbia e illude la mente umana. Il poeta può dunque, a buon diritto, ironizzare sulla sciocca supponenza di “chi crede | che la realtà sia quella che si vede” ed ha piena facoltà di percorrere una strada alternativa, come fa Maria Grazia Lenisa. Ella si è distinta tra tutti per aver creato una propria gnoseologia (quella che passa per un erotismo mistico e valoriale), costruendosi una diversa epistemologia, rifacendosi ad un individuale e rarissimo sentire, fuori dalle “linee” e dalle correnti. Fino ad inventarsi autrice di un “delitto perfetto” che, per la sua pienezza e la rara potenza immaginativa, la farà ricordare per sempre ai suoi simili.

Così Mnemosine, spalancando per lei le porte dell’umana memoria, potrà collocarla in una prospettiva che sovrasta il diacronico, in una dimensione metastorica, eternandola.

Recensione
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