| |
La scrittura di
Giorgina Busca Gemetti – per quanto posso constatare dal suo recente Parole
d'ombraluce, che sostiene questa convinzione fin dal titolo – si alimenta in
modo consistente della figura dell'ossimoro, che non appare semplicemente nel
suo aspetto di artificio retorico, ma viene vissuta ed esternata come intima e
poetica contraddizione dell'universo spirituale dell'autrice. Contraddizione non
limitativa, se accettiamo il Canto di me stesso di Whithman che, nel suo
famoso Foglie d'erba, scrive: Do I contradict myself? | Very well I
contradict myself | (I am large, I contain multitudes) ["Mi
contraddico? | Ma certo che mi contraddico, | (sono grande, contengo
moltitudini)"].
L'antitesi si
ripropone in maniera organica e sistematica, assumendo l'aspetto di
un'opposizione complementare e integrativa, come sono opposti e sinergici la
notte e il dì, l'inverno e l'estate, così essenziali l'uno per l'altra, tanto da
non poter avere senso disgiuntamente dal proprio contrario. D'altronde, fin nei
titoli di due composizioni intenzionalmente poste a fronte (L'amore è morto,
pag. 152 e Non è morto l’amore, p. 153), scopriamo la provocazione di un
contraddittorio, quasi fatto di tesi e antitesi, distribuite secondo una logica
degli opposti che ricorda le sfide retoriche "a tesi" di Gorgia o i paradossi di
Luciano.
Il pavor albae
paginae, l'insoddisfazione per i temuti limiti della parola, l'orrore
dell'afasia, vissuta come voragine d'assenza, spingono la Busca a dolersi con la
propria scrittura per la presunta incapacità del dire. La parola poetica viene,
insomma, riscoperta nella valenza ambigua della sua potenza e dei suoi limiti,
soprattutto consistenti nell’incapacità di dire tutto il dicibile, e tanto meno
l’indicibile. Quindi, da un lato, la poetessa avverte imperiosamente il bisogno
e l'invito della pagina "a tracciare parole, dolci versi |
sul tuo niveo candore, | pagina ancora pura,
ancora muta" (Ancora Versi), percepisce la propria anima ("anima mia
dolente", Esilio) come "zattera abbandonata alla deriva" (Deriva).
Sente, infatti, che "rapido fugge l'attimo" e sembra mancare il tempo per un
dire che basti e che consoli. Troppo è il timore di sentirsi "serrata e schiva
monade |…|
dell'immenso universo indecifrabile" (Monade), fino al
terrore di perdere identità, addirittura di fronte a se stessa: "Non so più chi
io sia. | Non mi conosco" (Non mi conosco). Perfino la natura
diviene oscura, ambigua, incomprensibile: "Forse la luna piena |
non sorride: fa una smorfia di pena" (Notte di San
Lorenzo).
E l'antitesi continua coi termini "finito |
infinito": "L'Infinito vorresti, non l'esiguo |
e misurato spazio | non l'effimero tempo del
tuo esistere" (Esilio). Il contrasto si ripete con i lemmi "sorriso
|
pena", "voci |
silenzio": "Ma il silenzio mi parla, mi sussurra |…|
i gridi dei gabbiani sono un'eco". Lo scontro ricorre nell'opposizione tra
"passato" e "presente" (Colonna solitaria), che costituisce anche
l'eredità di una cultura classica sedimentata e profondamente assimilata, come
si avverte, con palmare evidenza, nello spirito e nella lettera di questa
toccante raccolta. Opposizione, ancora una volta, non dissonante, ma posta in
modo tale che i termini siano reciprocamente evocativi di valori diversi e
complementari.
È un "classico" alla
Wilamowitz (che studiò con religioso rispetto l'Altertumwissenshaft,
ovvero la "scienza dell'antichità), è un antico che si respira attraverso titoli
che sono infarciti di dizioni formulari: il tempus fugit degli orologi,
che riecheggia l'"irrecuperabilità" del virgiliano fugit interea, fugit
inreparabile tempus. Le ecloghe ricompaiono nel titolo Sub tegmine
tiliae, che rimanda specularmente al virgiliano Tityre, tu patulae
recubans sub tegmine fagi. Oppure emergono epifanie oraziane, col suo non
omnis moriar, riferito al frustolo d'immortalità che solo la poesia può
garantire. Come la sezione Amores filtra e ripropone echi ovidiani.
Ma si ripresentano
anche risonanze della poesia italiana, come quella di Pascoli, Carducci,
D'Annunzio. Oppure ci imbattiamo in citazioni ed eisèrgon da Saffo,
Ibico, Teognide, Mimnermo, a riprova di una classicità non esibita, ma
intimamente rivissuta e filtrata attraverso una sensibilità di modernissima
cultura e di raffinata assimilazione. Eppure, a dispetto
di questo sguardo rivolto al passato, il libro è denso di attualità e di storia,
declinata fin nel suo aspetto minuto della cronaca. Così avviene in Baghdad,
negli anni 2003-2005, in Nassiriya, nella tragica composizione corale
dedicata alla strage di Beslan, in Oceano Indiano che ci parla
dell'''orrido Tsunami", in Shoah, il giorno della memoria, dedicato
all'Olocausto.
La sezione
Aegritudines appare forse come la più intensa della raccolta. I testi ivi
compresi sono di notevole intensità. Il messaggio poetico non è fine a se
stesso, ma propone una meditazione esistenziale che abbraccia la poetica,
l'etica, la filosofia, insieme fuse e integrate a delineare una completa
Weltanschauung. Le Aegritudines, dunque, non rivelano infermità né
affanno, ma una idiopatica disposizione alla riflessività, al travaglio,
all'inquietudine. Atteggiamenti che, nella pagina della Busca, si rivelano
capaci di alimentare un dettato poetico che ci aiuta a riconoscerci. E a farci
sentire meno soli.
| |
 |
Recensione |
|