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Il fiore della poesia boliviana d’oggi

Questa raccolta del “fiore della poesia boliviana” costituisce un prezioso e suggestivo contributo al panorama letterario, dando voce ad una cultura che resta, come scrive incisivamente Emilio Coco nell’introduzione, “la grande sconosciuta.”

Si affacciano, così, volti, impressioni, emozioni dalla vivida freschezza e immediatezza espressiva, incarnati nel vigore folgorante dei versi, come in Gabriel Chàvez Casazola: “Sotto la pioggia ogni cosa si rinnova nei cortili / e quando spiove il mondo odora di appena creato, di sabato di Dio, di primavera. / Il canto dei cortili nella pioggia cancella il dolore dell’universo e sussurra il dolore dell’universo/ per le piogge perdute, per i cortili perduti, per i canti perduti, / per te e per me che balliamo / sotto la pioggia di Bisanzio / arcane danze / dai movimenti profondi e indecifrabili / nei cortili della memoria. / Per te e per me che balliamo / che pioviamo / che svegliamo le stagioni mentre il cortile canta / perché la pioggia è per i cortili, / questi indecifrabili.” (Cortili).

È interessante scoprire nuove prospettive di visione esistenziale, spunti originali di riflessione, come questo sulla morte che cambia aspetto secondo l’età in cui essa colpisce: “Sì, i morti giovani viaggiano molto lentamente / per poter pareggiare i conti: / so di una ragazza il cui fantasma ci mise venti anni abbondanti / a percorrere a piedi la strada da Buenos Aires fino a San Lorenzo, / nel nord, / attraversando pampe e canneti, / per poter dire addio / come un effluvio di profumo a un uomo che fu suo, / e so anche di un pilota, morto in un certo incidente, / che tardò dieci anni ad arrivare ai sogni di sua madre / per rivelarle su quale vetta delle fastidiose Ande / si trovava, congelato e invecchiato, / come l’eroina di Orizzonti Perduti sul Tibet, / il suo squisito cadavere trentenne. / (…) I morti non nati galleggiano sempre nel torrente del sangue delle loro madri.” (Della velocità dei fantasmi). La conquista interiore colma di un’estasi di quiete cosmica: “È meraviglioso essere arrivato al punto / in cui non è più necessario cercare la ragione della tua vita / l’amore della tua vita / il nord (e il sud) della tua vita / perché hai trovato già tutte quelle cose / o esse ti hanno trovato / e adesso puoi chiamarle, quasi familiarmente, / con un sostantivo, / sia questo il nome di qualcuno / - qui puoi mettere quello che desideri - / o di qualcosa di misterioso, come la poesia. / E tuttavia, la cosa più meravigliosa di tutto questo / è che devi continuare a cercare, / cercare / perché tutte le cose e gli esseri / che s’incontrano / così come arrivano si allontanano. / Persino la poesia, a volte. / Questa sconosciuta.” (Punto).

Mòniqua Velàsquez Guzmàn esprime il grido di dolore strozzato dal lutto inestinguibile della morte: “Vorrei sciogliere il nodo di piombo / che ho nella gola / e mettermi a piangere a lungo / la recente nostalgia che ho di te, / mangiarmi la fame enorme / del tuo corpo adesso di terra / e arrendermi all’urgenza di amarti in un altro modo. / Dovresti vedere come si è aggrovigliato il vino con la pena / la tua morte con l’attesa / il tuo corpo col mio spirito di polvere / la tua anima e la mia ansia effimera di vita. / Nessuno mi disse che la tua morte / (furtivo volo turbolento) / ci sarebbe arrivata così: / restituendoci la nostra.” Il rimpianto dello scacco di una fine così tragica solleva l’essere in un’unanime insurrezione delle più intime fibre dell’essere: “Oggi vorrei, Monica, ammalarti a lungo, mortalmente, / portarti fuori dal mondo, convalescente: / distaccare dal corpo il suo pianto, il suo sudore solitario / di modo che tutto resti, adesso sì, completamente vuoto / e sia un deserto rancoroso deciso ad avvelenarsi di sete. / Voglio oggi romperti un osso imprescindibile / spargere le schegge della struttura fondamentale / che implori aiuto e stenda ampie le mani / e non abbia passi né piedi per farli. / Voglio un’ulcera che racconti della tua furia / muscoli lenti che chiedano a gran voce / abbracci che non devono venire / epilessie che lascino trasparire la tua confusione / la tua difficoltà a contenerti / insonnia eterna per salvarti dai sogni / che annunciano quando qualcuno sta per morire. / Nessun conforto, questo voglio darti / per rendere visibile il tuo bisogno di un altro / perché ti vedano lamentarti, ridurti in pezzi e si sappia / e ti seppelliscano, ti piangano, ti perdonino / sebbene la tua morte non salvi nessuno, / il vento allontani il tuo nome, tutto sia quasi uguale. / C’è troppo peso nella tua ombra / e io voglio guarirti, lenta, con la mia saliva… / Voglio ristabilirti la bilancia ancora senza pari / mormorarti che non c’è bisogno, / che non c’è bisogno di morire così.”

Benjamìn Chàvez canta l’amore come un arco teso a colmare l’abisso della distanza tra uomo e donna: “Trovo la tua strada arruffata / ma la stessa / la mia lingua e la sua / ricordano balbettanti / idiomi perduti. / Corsieri a forma di nuvola / si fermano sul tuo soffitto / il loro presagio di pioggia / lo so benissimo / non può farti prendere l’ombrello. / Mi appoggio sul passato albero della tua porta / e cado in un altro tempo. / Molte mani di pittura hanno seppellito i nostri nomi. / Aprimi! / sono di nuovo qui / per svuotare le valigie della distanza, / per riconvertire la brina / in giardini di pulite casseruole, / per cambiare il tono / alla ferocia delle albe, / per portati in braccio / nelle mille costellazioni / che lasciammo incompiute, / per dirti che nonostante questo volto / e gli anni / e la tua nuova vita / e la mia / sono io, / continuo a essere io.” (Il cerchio).

La tensione erotica in Oscar Gutiérrez è un corpo a corpo con l’amata, affondando nel suo grembo i desideri, le speranze, le amarezze: “La prima cosa per cui voglio ringraziarti / sono le tue ciglia / con le quali hai seminato mele / al centro del Paradiso / e le tue labbra / che seppero scandire / l’ermetico slllabario del mio corpo / e il tuo ombelico / capitale di quel paese / che mi diede rifugio / tempo, umore e miele / e il serrato recinto del tuo centro / dove seppellii / impudico e alato / tutte le urgenze di questi tre inverni / e la tua anima / labirinto insonne / trappola di sabbia / patibolo sommerso.” (A Cesare quel che è di Cesare), Vilma Tapia Anaya con intenso pathos rappresenta il dramma della morte: “Il tuo corpo / il peso della morte / nel tuo corpo / Nei muscoli e nelle ossa abbattute / delle tue gambe / nel casto languore delle tue braccia / Dalla croce dalla sabbia / manifesta nella sua bianchezza / ti portavano al mio letto / perché io ero addormentata / e anche gravida come aspettando di dare alla luce / La tua vicinanza mi svegliò / Mi portavano il tuo corpo morto / Zattera legno profumato del cipresso / arrivavi al bordo del mio letto / Mi tirai su era il mio cuore sanguinava / sussurrai il tuo nome / implorai che i tuoi occhi allontanandosi / mi guardassero / Inginocchiata / mi esposi / Allora assistetti quelli che ti caricavano / li supplicai di depositarti sul mio letto / Su questa pietra.” (Canzone post mortem srila gurudeva).

Maria Soledad Quiroga coglie le più impercettibili sfumature dei sentimenti: “Il desiderio è come un albero / frondoso / aperto e verde / umido nella profondità / viola / che oscura il territorio dei baci. / Un’ellissi incolore / vibrante e fragile / nell’orfanezza degli impulsi. / Un albero cresciuto a morsi / ritto nella fame / coperto di petali affilati / fiorito / nella limpida altezza / radicato nell’atmosfera pura del grido / variegato e nudo / solo nel cielo ampio / vuoto e imbizzarrito / caracollando nelle acque torbide / del chiarissimo lampo. / Cometa lacerata / volume di sale ardente / corpo celeste / smarrito / agitato dalla morte che non è morte / fuggitivo prigioniero / dell’istante.” (Il desiderio).

Gary Daher celebra l’amore nella sua dialettica contrastante, nei suoi dissidi interiori, ove la memoria, nell’evocare ciò che è trascorso, gioca un ruolo fondamentale: “Le hai conservate per tanto tempo / che solo odorano di scandalo / l’una dopo l’altra ci parlano di altri giorni / di desideri immaginabili e lontani / e di uve / e di vini versati fino alla feccia / quello che non è stato completato / perché così proibito. / (…) Niente sei niente sono / questo che è stato non è mai accaduto / e la memoria sempre traditrice / sarà oggi come oggi / la nostra unica spiaggia incerta.” (Lettere bruciate).

Norah Zapata Prill suggerisce il pudore della sacralità inviolata dell’interiorità che sfugge al giudizi sommari della gente: “Non emergere / Non galleggiare / Non ti riscattino / Non ti identifichino / Non ti nominino uno in più fra tanti altri uni / Lascia all’umana farsa decifrare le sue maschere / Non ti nominino.” (Quadro I). Nell’anonimato si eclissa chi fiuta il mistero nell’ignoto: “Sono di passaggio / In punta di piedi / Senza lasciare traccia / Senza volto / Nascosto come una talpa / Non accendere le tue torce / Non accusarmi / Sono di passaggio odoroso di tane / Sono di passaggio / Passeggero / Non scoprirmi / Sono di passaggio / Solamente.”

Eduardo Mitre vede affiorare come nell’impeto violento di un’onda selvaggia la figura dell’amata: “A Montevideo (quel meandro del tempo) / l’improvvisa rivelazione del tuo volto, / la tua alta fronte, / i tuoi capelli ebrei, / il verde profondo dei tuoi occhi, / la pioggerella dei tuoi passi / lungo l’estuario, / la strana sensazione / di esserci conosciuti da tempo, / l’umido silenzio / della tua bocca in una stanza, / la saggezza innocente / della tua lingua nel bacio, / la lenta, crescente ondata del desiderio / e il sale del tuo nome / versato alla cieca / nel mare tempestoso del tuo corpo. / Poi, come al risveglio da un sogno, / la lama della partenza / affondata fino all’osso / e il sale del ricordo / sparso sulla ferita.” (Larsen)-

“Il fiore della poesia boliviana d’oggi” sboccia intorno all’alfa e all’omega dell’esistenza: Eros e Thanatos, entrambi percepiti come istinti ferini imprescindibili, nella loro carnalità vulnerabile e sanguinosa con cui rispettivamente si entra e si esce dalla vita.

Recensione
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