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Il mio silenzio

Nei versi di Antonio Chiades è come se si varcasse in punta di piedi la soglia del santuario del “silenzio” appunto, che custodisce la sacralità della propria anima. Vi è un’atmosfera arcana, difatti, ove i segreti interiori affiorano timidamente come sprazzi fugaci, velando la propria nudità, nel pudore di intuizioni delicate che appena emergono a suggerire l’indefinibile di sé. La poesia, dunque, in questo caso, non è un grido, bensì si esprime in accenti sommessi, con quella reticenza propria di chi vuol salvaguardare un tesoro prezioso dalla rapace curiosità e avidità profana, affinché non ne sia violata la purezza della sua nascosta bellezza. Ecco, allora, alcuni lievi tocchi poetici, che hanno il passo cadenzato della neve che, senza far rumore, ammanta tutto dello stupore del suo candore: “Nella mattina di luce | e di assenze | le domande si affollano | in processione | (…) la primavera trionfa | sul franare dei giorni | tra assorti doveri | e decisioni da prendere | (…) solo il cuore | è tutto un accento | nella sua lingua arcana | incontra pensieri scavati | che parevano | inceneriti per sempre” (Nella mattina di luce). Sono epifanie che a tratti rivelano verità profonde, in un balenare discreto, ma allo stesso tempo intenso, e denudano le forme della realtà attraverso lampi rapidi quanto folgoranti, nel gettar luce sull’oscurità dell’ignoto, proprio come la chiaroveggenza penetrante della violenta luminosità dei quadri del Caravaggio: “Sole che appari | sulle punte scoscese | dei platani | e sulle donne | vestite di rosso | che guardi le persone | negli occhi | mai stanco | sole che cammini | sulla riva de fiume | e ti soffermi | sull’uomo dai pochi capelli | che vende giornali | tu riveli la prima stagione | l’autunno l’inverno | e il tempo delle castagne | arrostite | dal profumo vivente | aperte come ferite.” (Sole che appari).

Si avvicendano le stagioni dell’anima, in controluce alla trama dei giorni sospesi al trascorrere dei paesaggi e della Storia, ove s’impiglia la propria identità che, nonostante tutto, riesce cavalcare l’inquieta tempesta che l’attraversa: “Ho trascorso l’estate | ascoltando il silenzio | fra un torpore sospeso | che pareva incessante | e rare vampate sulle cose del mondo | Ma adesso una voce | più attenta | che viene da dentro | riconduce | al ritmo imperioso | dei giorni | a fatica sopporta | le notizie di sempre | (…) è qualcosa che splende.” (Ho trascorso l’estate). Ogni stagione ha il suo sapore; così l’autunno si tinge di un malinconico languore, “sapendo che tutto | sta per finire | o per svelarsi pienamente.” (Questo inizio d’autunno). L’estate, invece, appare un’illusione vana ed effimera spazzata via al primo vento autunnale: “Per adesso siamo noi | qui | con pensieri vaganti | Un vuoto | ci consuma gli occhi | se muore qualcuno | e diciamo | ci vorrebbe qualcosa | di più dell’estate | che magari rimanga | oltre la vanità | di ogni inutile attesa” (Per adesso siamo noi, qui). Anche il Natale sembra sfumare come il fulmineo passaggio di una stella cometa, affondando nelle tenebre amare e nella nebbia delle finzioni delle “solite luci”, lasciando una scia soltanto nei cuori che si aprono al Mistero che viene a visitare le vite inaridite: “Rimane nel cielo di Natale | come stella dipinta | la mitezza | dei puri di cuore.” (Natale è quasi tornato). Per incisivi flash si delineano anche abbozzi di personaggi schizzati da essenziali tratti immediati – un’umanità dolente dai “cuori trafitti”– che li inchiodano al proprio destino di perdenti: “con Gianni cresciuto | senza il padre e la madre | e un altro dal labbro spaccato | illuso da una ragazza | del luna-park | che si lasciava abbracciare |” (Tutto mi sembra leggero); “Mi scrive Bepi | il musicista delle cime | ci siamo persi di vista | dice | e chiede notizie | dell’uomo dai mille mestieri | sempre fuggitivo | e del vecchio sapiente | mai diventato profeta | (…) in fondo, se pensi, | di uomini grigi e pesanti | ne abbiamo visti cadere | già tanti.” (Mi scrive Bepi); “è rimasto Raimondo | che parla da solo.” (Ho attraversato con te).

Con un brivido si avverte il peso del tempo che passa troppo in fretta senza lasciare traccia, senza poter rielaborare il lutto delle perdite e comprendere il senso oscuro delle cose e degli avvenimenti: “Da qualche parte esiste | una fotografia | sono fermo in bicicletta | con gli occhi persi | davanti al negozio di Giancarlo | (…) Franco è morto troppo presto | Giamba è andato a Roma | Marcello viaggia ancora in bicicletta | altri non li riconoscerei | Io mi sentivo sempre fuori posto | come avessi da scusarmi | ma non sapevo mai di cosa | Oggi che dico grazie | ad ogni ora | vorrei recuperare quella foto | capire come mai | sono passati così svelti gli anni | un graffio | sui muri della piazza | davanti al negozio di Giancarlo” (Da qualche parte esiste).

La memoria insegue odori, sapori, vicissitudini e volti del passato: “Nella mia terra ricolma | di assenze | la memoria è inchiodata | ai mosti dell’infanzia | al bianco dei colli | al rosso della pianura totale | (…) C’era il vecchio scavato | che piangeva | sul banco annerito dell’osteria | e Ugo tornato dall’Africa | camminava di notte | con passo ansimante | in mezzo alla strada deserta | poi è morto bevendo | qualcosa di strano | quasi volesse punirsi | invece l’uomo elegante | a una festa in collina | era salito sul ramo più alto | di un albero | e gridava sono Tarzan | voglio restare | per sempre quassù | Adesso riesco a scrutare | in silenzio | la trasparenza del vino | la luce | quella calma pienezza | che trasmette il mistero | di essere vivi | con labbra leggere | che sfiorano | il profumo e l’essenza.” (Nella mia terra ricolma).

Un’evasione felice è la full immersion nella natura, confondersi con quell’ebbrezza selvaggia che ha il profumo dell’estasi dell’Eternità: “Mi sento quasi felice | su questa terrazza | che domina il mare | accolgo una musica arcana | e rimango in silenzio | ascoltando me stesso | il pesce pescato da poco | solleva riflessi dorati | dai vassoi | ricolmi di azzurro | (…) il mare visto dall’alto | si increspa | fino a farsi infinito | l’anima si sporge leggera | da un tempo remoto.” (Mi sento quasi felice).

Vi sono trasalimenti improvvisi dell’anima che non si possono raccontare a nessuno, che non si riescono neanche a decifrare: “Un’ansia talvolta | mi sorprende | giunge da storie tremanti | un ricordo che affiora | un dolore, un segnale | un sordo timore | che sembra leggero | ma insiste | non si può raccontare | alla fretta dei passanti | a nessuno | solo al fermo risplendere | che alto trascende | e rassicura | se con voce di fiamma | invoco e mi protendo.” (Un’ansia talvolta).

L’amore è turbamento e smarrimento, tensione verso l’amata come un desiderio proibito da concedersi in rari, propizi momenti: “Ho attraversato con te | il silenzio dell’inverno | e la grigia campagna | tra calmi smarrimenti | mio amore terreno | dagli occhi impauriti | (…) Vorrei passare tutto il tempo | con te | con mani che dicono basta | ad ogni imminenza.” (Ho attraversato con te). È arioso vagheggiamento di “azzurri richiami | che si fanno più limpidi | dentro di noi”: “Torneremo quassù | sempre più spesso | dice Maria | (…) Lasceremo passare | ciò che punge e dissecca | i silenzi del cuore | gli occhi impassibili | e le parole spezzate | che non dicono | quello che appare.” (Sulla strada che porta).

È un vero e proprio cantico quello che Antonio Chiades innalza alla luce, quale afflato divino che permea l’universo, che lo cinge teneramente della sua benedizione e lo trasfigura del suo supremo splendore: “Luce che bagni le pietre | dei monti | e di queste contrade | leggera e fuggitiva | che riveli | ogni contraddizione | donami la semplicità | la tua visione | allontana da me ogni rancore | luce che hai cuore | e hai mente | che giungi senza clamore | luce divina del mondo | che non conosci | tenebre o assenze | che appari a chi ha tutto | a chi ha niente | che avvolgi ogni festa | ogni giornata.”

È l’indefinito il tratto saliente dell’autore, come denota la totale assenza di punteggiatura, quasi a rifuggire da ogni sclerotica fissità, per suscitare, al contrario, la maliosa suggestione dell’enigma che si sprigiona dal libero flusso dell’essere.

Recensione
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