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La città scritta
di Franco Manescalchi è un corposo saggio che offre un’ampia e
minuziosa panoramica sulla letteratura del Novecento. Il polo catalizzatore è
Firenze, consacrata indiscutibilmente quale patria della poesia, dal padre delle
lettere e vate Dante fino all’ultimo erede dell’ermetismo e della lirica aulica
Mario Luzi. Vicissitudini personali s’intrecciano alle contingenze storiche e
sociali, ripercorrendo, attraverso lo sguardo illuminato del poeta, aspetti
significativi che hanno costellato l’esistenza individuale e collettiva.
Addentrandosi in un passato mitico, da età dell’oro, legato ai sapori e agli
odori della propria terra di vittoriniana memoria, riaffiorano tutte le
sensazioni che gravitano intorno alla personalità dello scrittore, costruita
attraverso fecondi scambi letterari e umani, interagendo attivamente con la
Storia. La poesia, così, diventa occasione di amicizia, grazie alla
frequentazione del celebre caffè delle Giubbe Rosse, inossidabile crocevia per i
pensatori che hanno particolarmente segnato la sua formazione; inoltre essa si
rivela strumento di conoscenza e di arricchimento interiore. L’autore promuove
un’attività letteraria di larghe vedute, estesa a quanti sono intellettualmente
vivaci e che non disdegna di “ascoltare” talenti nuovi come di coltivare quelli
già consolidati.
Si riunisce, allora, intorno alla creatività di una prima
rivista, da “Cinzia” degli anni giovani, a “Quartiere” con personaggi come
Giuseppe Zagarrio, che può essere considerato il suo maestro, fino a “Collettivo
R.”, un’esperienza più adulta e socialmente responsabile. Ciò che muove Franco
Manescalchi è la passione per la letteratura, intesa non come lettera morta,
bensì come impegno civile e morale, ciò che gli consente di spendersi
gratuitamente e generosamente con un vaglio meticoloso dei valori culturali
emergenti e delle forze umane interagenti. È proprio di umanesimo che si deve
parlare pensando alla notevole fatica, che può nascere soltanto da un grande
amore per l’uomo e per la sua espressione più innata che è l’arte, di tenere in
piedi questo corpus letterario colossale, che non è solo l’ingente mole
di questo saggio, bensì tutto un organismo che coordina la varietà delle
performance della scrittura, le analizza ad una ad una e le inquadra in un
contesto che attiene in modo autentico e profondo alla realtà. L’autore
abbraccia uno spaccato enorme della produzione letteraria del Novecento,
soffermandosi sui grandi poeti che hanno dato lustro alla storia della
letteratura con icastiche definizioni, da Ungaretti, “Vate illuminato”,
dall’“ulissismo verticale”, Montale con la sua “Storia impossibile”, Campana con
il suo “analogismo orfico”, Zanzotto con la sua “genetica tellurica”, Caproni
con la sua “serena disperazione”, Sereni, “trapassante perplesso.” Al di là
delle etichette sui movimenti culturali più o meno convenzionali, tra
decadentismo, ermetismo, neorealismo e avanguardie, una distinzione interessante
è quella tra i poeti dell’animo (Jahier, Campana e Palazzeschi), cioè del
calarsi pienamente nella realtà e dell’anima (Saba, Govoni, Sbarbaro, Rebora),
vale a dire della propria intimistica espressività. In questa prospettiva
Ungaretti, Montale e Cardarelli sintetizzano le due correnti in una poetica
“generazionale.” Ma Franco Manescalchi accende i riflettori anche su un mondo
per lo più sommerso, di autori meno noti, che pure hanno apportato un contributo
rilevante alla civiltà poetica. Così, seguendo il filone meridionale, oltre a
Vittorini e Cattafi, troviamo Rosa Maria Fusco, Raffaele Nigro e Gavino Ledda
che con Padre padrone ha gettato luce sul contesto di povertà e di
atavica soggezione del Sud. Edificante è poi scandagliare il versante metafisico
con il “magistero interiore” di Mario Luzi, “punto di riferimento generazionale
per la componente etica che manifesta dentro la Storia”; Alessandro Parronchi,
con la sua “vocalità franta”; David Maria Turoldo, in cui “la sua presenza
profetica è rappresentata dalle scelte di vita in favore degli ultimi, dal
continuo dialogo con Dio”; Margherita Guidacci, “con l’umiltà fragrante di chi è
passato attraverso la prova cruciale del dolore.” E poi ancora Renzo Bersacchi,
“legato al vizio di divinizzare / la carne e umanizzare il freddo lampo / di
Dio”; Mario Sodi, con “una forma di ‘attesa’ dell’Altro, un’attesa vissuta con
animo vibrante, fibra per fibra”; Renzo Ricchi con “lo spavento dell’infinito
cosmico”; Roberto Coppini con “la bellezza del dolore”; Paola Lucarini Poggi con
“lo splendore primigenio di un mondo pronunciato dalle labbra degli Dei – non
ancora bestemmiato dalla bocca degli uomini”; Francesco Marcucci con
“un’affranta fraternità.”
Al
termine di questa dettagliata rassegna, si svolgono, in un’intervista, alcune
riflessioni intorno alla poetica dell’autore, da cui emergono il proprio credo
civile e religioso insieme (“in una tensione religiosa verso l’Altro”), il
proprio engagement nella Storia, con un’attenzione privilegiata alla
Resistenza, “in una tensione etica ed estetica”, volta al poièin, l’amore
per la scrittura satirica ed epigrammatica, la riscoperta del dialetto che
attinge ad una matrice popolare, la commistione con il linguaggio fotografico e
cinematografico. Su tutto, alla fine, insorge un interrogativo sul senso della
poesia, “sempre tragica”, anche in rapporto al moderno mercato editoriale che
promuove firme prestigiose ma lascia in ombra scrittori meritevoli. Interessante
è l’immagine delle ninfee, Muse di Monet, per simboleggiare icasticamente la
natura ambigua ed evanescente della poesia, oltre a identificarla in una
crisalide che aspira a spiccare il volo; ugualmente calzante è la descrizione
della condizione attuale del poeta come angelo decaduto: “Chi è il poeta? Col
simbolismo il promeneur rousseauiano diviene flaneur (girovago
emarginato), con Baudelaire nel contesto urbano il cigno (ovvero la poesia nella
sua bellezza e verità nata ed inserita nel contesto sociale) diventa l’Albatros
spregiato dai marinai, inadatto a vivere nella quotidianità e nella storia.
Tutto il decadentismo è segnato da questa condizione: Gozzano sarà una Cosa
con due gambe, Corazzini un Bambino che piange, Ungaretti
Girovago, Uomo di pena, Palazzeschi un Saltimbanco della propria
anima, ecc.” Suggestiva è poi questa definizione dell’arte poetica: “La poesia
è come una diga che difende i domini dell’essere dalla tentazione dell’avere.”
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Recensione |
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