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L'arte del bersaglio

     I
Ho conosciuto uomini primari
che mi dicevano che ero inconquistata,
mi sorvegliavano dall’alto delle fronde
con fronti ampie e mani da soldati.
Mi dissero che non avevo scampo,
che dovevo rassegnarmi all’amore;
e ne ho seguite di strade parallele
pensando sempre all’onda, all’accozzaglia,
con quest’idea, galoppo nella pancia,
che ricamavo e già riconoscevo;
ne ho violentate di spalle, di campagne
con un passaggio assente e forestiero,
purtroppo non ho avuto la prontezza
di assimilarmi ai sobri della terra,
mi sono ritrovata in un bordello,
“il vortice esclusivo della notte”.

Grazie, tu mi ricordi, mi hai esasperata,
tendendo le mie carni fino al punto
in cui non è più semplice
marea.

     II
Pavoneggiandoti
                    per litorali nudi e battaglieri
ti ritrovasti padrone delle gabbie
(quelle più ampie, plesso ribattuto)
compito lieve scorrere di braccia,
insonne esposizione delle voci.
Non so se ben ricordo il picchiettare
del tuo regime, del tuo farmi male,
ma ho modellato già quell’abbandono
che oggi esaminiamo nel baratto
– mercanti senza traccia e senza faccia –.
Pavoneggiandoti
                    (come potevi e come puoi)
ti sei trovato a fronteggiare ancora
un’altra me, per forza fuggitiva,
una creatura amata dai Titani.

     IV
Potessi avere io la turbolenza,
la propensione al morso e alla pazienza,
la libertà di scorgere e picchiarti,
la libertà di dire che oggi basta:
ritorno alla mia patria, al nido che mi spetta.

E’ la tua carne il posto delle vigne
fragole e moti della stessa porta
che ci ha distrutto l’uno avanti all’altra,
è lì che avrei dovuto riposare,
per tutta questa vita che mi imprime
i succhi della rima e l’assonanza,
è lì che avrei dovuto amoreggiare
con la domanda antica della gioia…

     V
Non con l’inganno ci hanno separati,
ma con i sensi antichi delle fate;
ci hanno voluto dire a schiaffi e calci
tutta la grazia folle e l’importanza
di un certo incontro tra uomini di razza,
quella prigione che bacia i cortigiani
e la sensualità dei tempi inderogabili.

Io ti ho cercato nei mari boreali,
lungo le rive, sotto le sottane,
nelle cantine di una Francia ambigua,
su per le cappe, in cima alle grondaie.
Io ti ho cercato in ogni cattedrale,
in ogni corpo greco un po’ fanciullo,
io ti ho cercato nelle barbe sagge
e nelle voci dell’ombroso bosco,
sale da ballo, grandi appartamenti…
ti ho ritrovato nelle carovane.

Grande tu sei come le cime bianche,
le porte di un’Atene libertina,
globo lunare, fertile calore,
il re, il sovrano, il satrapo, la penna.
Grande tu sei come le foglie sante,
le carni di una terra inesplorata,
le nere nubi dell’autunno vento,
la formula che apre gli elementi,
il confessore, il boia, la rugiada…

la mia salvezza al mondo dell’umano.

     XIV
Tuo è il regno, tua è la potenza,
tuoi i miei fianchi fino all’esattezza,
fin quando dura il fiuto dei giganti,
l’ombra sicura, culla degli abeti,
fin quando ruota il cantico degli astri,
il mantice spietato del linguaggio,
fin quando il suono vince la carezza
e la figura supera l’inganno.
Tua quella gloria
                      (che sempre tenterò di raccontare),
tue le mie sorti fino all’arrembaggio,
ricordo primo fino all’indulgenza
dei tempi e delle anime compiute.
Fin quando avranno reso intenso genio
i corpi tutti ruvidi di mondi,
fino a quel buio ultimo latente,
all’impressione grande di sapienza
che già mi fu nel canto vagamente
e tu, come da sempre, sempre illimitante
trafugherai
                dall’alto insostenibile dei Cieli.

     XVIII
Non è vero che i venti hanno nomi voraci,
che il tuo nome è passato e la goccia trionfa…
già ti narrano i canti di matrice divina,
già ti aspettano gli antri dei lupi montani;
il tuo cuore è la Fede, i tuoi occhi la Piuma,
l’ingannata pietade che innamora le genti
con un fare distratto, impietoso ed esatto.
Non lasciare che il tempo ti riveli da solo
l’ignoranza che porta per i gorghi del senso…
sospetta ancora invano, magnifica l’essenza
di un alibi inesausto, di complici mortali…

Sono io che ti aspetto – in orbite lunari –
che scaldo con le voci un segno di giaciglio
per quel tuo fiore stanco che sfoderi all’occhiello,
per ogni spazio perso in fughe di potenza…
sono io che ti aspetto – all’angolo dei fiumi –
sciacquando con le mani le tue camicie bianche
e dondolando un fiore al margine dell’onda…
sono io che ti scrivo – a inchiostri svolazzanti –
vibrando ad ogni corda o cambio di stagione
per chi non ha saputo staccarti dalla terra,
ridarti la tua patria, chiamare col tuo nome
i libri e le comete, vederti nel lignaggio
di un vedico eroismo, scoprire le tue nozze
di verde archimandrita.

     XIX
Porta stagliata, impulso involontario
(l’uomo avanzò con passo tardo e fresco)
un lucido rimbombo
dall’edera alle labbra
tra il ricciolo sul collo
e l’occhio disattento…
la voce del conforto
e poi… e poi… la freccia
– la luce che riverbera la brezza –.

Probabilmente non sarà con te
che rifarò le strade familiari,
ma sarò io a dirti che tu sei
la perfezione ciclica raggiunta,
la corda tesa, il grigio di bufera,
il peso esatto, il raggio della spada,
l’arancia respirata nella sera,
il maschio primo, l’astuzia delle acque,
il vento insospettato a primavera
che libera i capelli ed il sorriso.

Torna,
        ritorna…
– ti chiamerò col nome dei vascelli –.

     XX
Perché non ho saputo assimilarti
all’ovvietà sottesa dei passanti,
all’indolenza affabile ferina,
alla parola semplice, la luce?

Ti ho visto attraversare le frontiere
con la semplicità intransigente
di chi non ha passato da narrare.
Ti ho raccontato con colori tenui:
la seta che si lacera, l’Astuto
(inganni che produce l’attenzione);
ti ho dato un retroscena battagliero,
intensità di sensi e di sorrisi
e qualità d’immagini e di donne.

Tu non conosci il segno di catena,
il buio che mi salva intimamente,
il dono che ti ho fatto con piacere
per darti un’andatura illuminante.
Io ti terrò con l’acqua di sorgente
tra le memorie impavide e solari
– tu resterai sul corpo l’esattezza,
l’incastro insuperabile colmato –.

     XXI
In solitudine vorrei servirti ancora,
se posso, come posso – con le labbra – .
Ancora
il fascino vitale delle acque,
quando mi dici “bevi” sorridendo,
quando mi dici “non ho più traguardi”
che corrispondo all’arte del bersaglio…
un paesaggio,
stellare curvatura,
compare allora tra le nostre braci
– ancora insieme –
e so la Storia,
                    la tua storia,
                                        il prezzo.

     XXII
Frenare pianti, mantenere il passo
– militaresco, morbido, sognante –,
fare bagagli, crescersi le unghie…
Quale domanda, goccia, sospensione?
“Tu conosci le carte, conosci la ragione,
l’architettura fragile svettante
che ti hanno destinato le tue forme”.
Già…
– non mi è rimasto neanche lo stupore –.

Qualcosa va, ma molto torna e resta:
il modulo di fuga, la destrezza,
lo slancio del mio solito sussulto,
l’ingrata solitudine del corpo.

Il mio Uomo sfidava le nebbie
con il peso del petto costante,
descriveva ferite di guerra,
di una guerra col caso e la birra,
lui vinceva i silenzi e le donne
con la gioia degli occhi – scintilla –,
conquistava gli spazi e le notti
con l’eleganza e un cuore di giaguaro.
Il mio Uomo plasmava i metalli
– più che mani tenaglie solenni –,
lacerava i vestiti e la frutta
con l’astuzia pacata del morso,
occupava i divani e le porte
con l’estensione esatta della spalla,
impugnava i bicchieri e le briglie
con la potenza placida dei monti,
espugnava i ricordi e le gonne
con l’indulgente istinto della vita.

Non è l’Oceano, sai, che mi consuma
e neanche l’arroganza dei miei anni,
forse è l’attesa… certo è la bellezza:
quella che annulla il senso di giustizia,
quella che hai quando rimani al vento
e disconosci un limite alla voglia,
quella che hai quando distendi il braccio
per trascinarmi al golfo dei tuoi fasti.

(Avrei voluto dirti “non importa…”,
che non abbiamo un unico traguardo,
che ti ho riconosciuto e questo basta;
avrei voluto dirti la discesa,
la nitidezza agile sfacciata
che ti distingue al centro della piazza,
la leggerezza maturata al sole
che il tempo acquista quando mi raccogli…)

– Conserva l’alleanza del sorriso,
quel Nome che non passa, l’orizzonte –.

     XXIII
Il suo cuore è una tempesta,
la sua colpa è un’innocenza,
il suo volto è Il volto,
il sorriso è la grazia, l’ingegno…

Quale sollievo, quale fenditura?
La ritmica implacabile sovrana
vince la stretta e supera la resa.
Soltanto questo trova un’estensione
dal vino al laccio – pioggia condivisa –
dal polso al braccio – terra sospirata –
dal soffice sospetto delle ciglia
fino all’abisso delle mie sembianze,
là dove regni e sai la trasparenza,
la dove scorri immenso e sussurrato,
dove ricordi il centro della tregua,
dove ti vuole l’ultima scogliera.

Lascia ch’io sia la pèsca e l’invenzione
– pace di fondo e pace di conquista –.


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