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Il pollice smaltato

Visività delle parole “smaltate”

In questa nuova occasione editoriale, Il pollice smaltato, Gemma Forti pubblica un’antologia di versi ambientati sulla pagina bianca attraverso i segni alfabetici di un’elegante iconografia. La medesima ispirata a un sostanziale (e allitterativo) senso di visività concreta: a più corpi tipografici, intorno a un’esperienza epigrafica centrale che si diparte sia come percepibile estro, sia a derivazione post-futurista, e qui obliterando le furie teoriche di quel movimento esperto di vorticosi dilemmi e cancellazione di ogni altro stile.

Ai moniti logici e no, Gemma aggiunge un’infinita serie di indignazioni sociali e antropologiche, sfide sontuose e ripetute, supplementi d’ira e di palude civile e politica, ardimenti di sensi umani a più frammenti e disincanti. E non si tratta di sentimenti di un cuore afflitto, ma di una disseminazione di disagi del presente, insieme a lemmi memoriali, mozioni di sfiducia etica e politica, protervie violente del potere.

Gli stessi falsi carismi di versi “smaltati” da forbite negazioni di luce hanno funzione rissosa, non certo tranquille desolazioni, e tanto meno lucenti quartine per la medesima convulsa primavera.

Una produzione colta sia come provocazione di epica bestemmiata, sia come commento di notizie del poeta eversore. La medesima, estesa istanza (dentro la convenzione della protesta e oltre le consolazioni abituali) consegna i segni di più graffi alla poesia sociale e civile che si fa via via drammatica di casi quotidiani, campo minato d’una passione esposta senza festa, per arabeschi distillati, a gocce corrosive, palazzeschianamente “divertite” e in ogni caso intervento e forza d’urto, peraltro priva di gratuito sarcasmo e colma di disseminazioni di dissenso e a fondamenti beffardi, “rapsodia stridente” e obliqua considerazione, impunita “forza rovente” di contemporaneità trafitta e fluente.

Nelle diverse dominazioni tematiche, gli effetti del dire inoltre diventano apocalittici, misurano la storia con mente osservatrice, le paure generali, gli orrori e le contorsioni di movimento tutt’altro che felici, lascivie di un destino umano non del tutto futuribile, anzi senza stratagemmi e frustrate da sogni di sterco. Gli esempi sono tanti nel percorso, la derisione mai imitata da quello che insinuano gli stessi quotidiani e mass-media, a creatività tremenda e non impropria.

E con una spontaneità (mai carezzosa)che odora di zolfo, Gemma fotografa la realtà e insieme gli spettri di una favola popolare che si svolge e si consuma, malgrado la fragilità delle abitudini alla monca sopravvivenza, gli assestamenti non perversi, i programmi di soluzione in controverse parole arlecchine e a caparbi colpi di testa.

Il rapporto aforistico delle poesie è epigrafico nelle varie soluzioni evocative, per lemmi di fango, reclami autoriali, sulfuree spinte di promesse, più aggressive che docili per certezza contestuale.

“Aria rappresa” e sviamenti sono totali nel nulla che li spinge oltre se stessi, in assalti decisi, secchi di linguaggio e di istanza scolpita: ecco quei graffiti disegnati dalle cronache del pensiero e dell’infinito privato (chi li leggerà? Quale opportunità avrà l’autore per quello che dice, se la poesia interroga soltanto la sua nascosta verve per destino e slancio pubblico rarefatto?).

Qui sono contenuti i sensi e i dissensi dadaistici distillati, che hanno avvolto il primo Novecento in Europa, ma resi per modelli limpidi e manifesti rarefatti, attraverso una “glottide” sperimentalmente più lieve e appetibile, innamorata del suo stesso illuminismo.

La sua materia quindi (che contiene molta tragicomica fisicità fonica, senza effetti proditori, perché patologiche follie dell’urto della novità) non è immaginaria, né tardivamente ribelle, e si teme che non possa a brevi tempi scadere, perché il “vizio assurdo” del potere e dell’austerità macchiata di voci vincolate ad esso, si teme possa assiduamente rigenerarsi.

Gli esempi da riportare non sono proprio attendibili per la struttura che li caratterizza, ma l’immagine del filone a cui queste poesie appartengono lo si è già capito, per quel che si è detto in queste righe ad aspetto nudo e molesto, non sfumato, né soltanto antropocentrico ed etico o teatralizzante senza libero caos. Alle medesime iperboli ironiche appartengono i disegni colorati di Bruno Conte, che completano la modernità ordinata del tomo, e parallelamente i fogli di un’esposizione completa e senza dubitabili scene, assai adatta agli anni che si stanno attraversando, corrispondenti a quello che suggeriva efficacemente Majakovskij (e adesso in esergo, antifona dell’introduzione di Gualtiero De Santi che utilizza l’esigenza e l’icasticità degli intrinseci nessi): E’ tempo di forgiare l’arma estrema. | Prendiamo la penna in mano. | E’ tempo | che la penna sia la nostra difesa”. Esortazione ascoltata dalla coscienza di Gemma Forti per la sua poematica avventura, resa in dissezioni di gesto come crocevia isolata e fondamentale della sua ricerca, le cui tante coincidenze morali vanno salvate, insieme a distillati ritmi verticali, così elettivamente dosati e comunicativi, in più tensioni e forme.

Recensione
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