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Eco del mondo
Choreollage
performativo di Francesca Cinalli e Paolo De Santis
Performer: Francesca Cinalli, Amalia Franco
Paesaggi
sonori live: Paolo De Santis
Drammaturgia: Ornella D’Agostino

Di
Eco del mondo colpisce subito la ricerca di eleganza, non solo nelle forme
statiche degli oggetti di scena e nella loro collocazione spaziale, che richiama
gli scenari metafisici di de Chirico, ma anche nel pregevole studio del
movimento corporeo, che nella concretezza dell’azione scenica sovrascrive
completamente la parola. Quest’ultima agisce solo all’interno di paesaggi sonori
che fungono da autorevole quadro di sostegno ai vari echi invocati dall’opera.
Volitiva e imprevedibile, infatti, è la vasta gamma di suoni, rumori, musiche,
cacofonie, simbolismi (bella tutta la dissonante sequenza dedicata a Casta
Diva) e suggestioni. È una traccia che avvolge, custodisce e accompagna i
performer, che in talune sequenze arricchiscono l’insieme di altri effetti
acustici, peraltro in relazione di perfetta contiguità con il sonoro live,
riuscendo a espandere idee di massima affinità attraverso i due differenti
canali espressivi.
Le
uniformi militaresche degli Arlecchini, con il loro richiamo alla celebre
maschera che nasconde, imbroglia, sbeffeggia o porta stupidità nell’azione,
segnano un dato iconico originale: l’impossibilità di raggiungere lo sguardo dei
performer (tanto importante nella Commedia dell’arte delle origini), che qui è
coperto da un’ampia falda di feltro nero. Lo sguardo negato non fa altro che
conferire pathos ai personaggi (se di “personaggi” si può parlare) sgombrando
subito il campo dall’idea della volontà di trasmettere significati di matrice
socioemotiva. Qui cuore e testa non dialogano. La testa la fa comunque da
padrona, come suggerisce la presenza di un inquietante manichino decollato, che
tuttavia pare immerso nei suoi più intimi pensieri. L’eco della distanza
ipnotica riempie il vasto spazio che le viene affidato dalla drammaturgia, dalla
scenografia, dalla dislocazione libera ed effimera degli spettatori che sostano,
restano, vanno e vengono. Sulla scena intanto, niente è fisso: il collage segue
il suo moto costruttivo distaccato, che appare nel contempo modulare,
innestabile, personale, risoluto, modificabile, ripetibile, di volta in volta
utile, inutile, sensibile, insensibile, afasico o roboante. In definitiva, il
suono e il movimento dei corpi sono i veri portatori di senso di questa
performance, a testimonianza di un duro lavoro di ricerca della compagine
artistica e di una incrollabile fiducia nel potere locutorio del palcoscenico.
Con lo
scendere della sera nella piazza, la luce naturale modifica inesorabilmente gli
oggetti di scena e le ombre dei corpi oramai in fase di entropia, entrando di
diritto fra i protagonisti, a segnare lo scorrere del tempo e l’inevitabile
mutare delle percezioni. In ultima battuta, quando oramai si è rinunciato a
seguire il fil rouge di un racconto lineare che non c’è, e quindi solo
alla fine della costruzione, l’insieme raggiunge una sorta di completezza. Ed
ecco che la distanza, l’assenza, il virtuosismo e il gioco solipsistico si
prendono per mano ed escono tranquillamente di scena, lasciandosi alle spalle il
disordine dell’esistenza, nell’unica concessione al romanticismo che sia dato
incontrare in questo severo e promettente choreollage.
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Recensione |
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